ORHAN PAMUK, LA STRANEZZA CHE HO NELLA TESTA, Einaudi Super Et,pp.594 |
Ancora un grande romanzo di Orhan Pamuk, pubblicato di
recente nella collana Super Et di Einaudi. Scritto tra il 2008 e il 2014,
s’intitola Kafamda Bir Tuhaflik, letteralmente “Stranezza nella testa”, reso
in italiano con La stranezza che ho nella
testa. Narra le vicende di Mevlut, un venditore di boza, e della sua numerosa famiglia. La boza è un’antica bevanda
asiatica a base di grano fermentato, densa, profumata e a basso tasso alcolico.
Le botteghe di boza sopravvissero sino al 1923, anno della fondazione della
Repubblica Turca ma – specialmente nelle strade di Istanbul – gli ambulanti
continuarono a venderla e Mevlut, ereditando la tradizione di famiglia, ne farà
il proprio mestiere principale, alternandolo con la vendita di yogurt, di
gelato e di riso con i ceci. Il girovagare notturno per le strade della
capitale, gridando “Booo-zaaaaa”, diverrà per lui qualcosa di più di un
semplice mezzo di sostentamento, rappresentando innanzi tutto un’esigenza di
libertà.
La tecnica
narrativa utilizzata da Pamuk – peraltro già sperimentata con varie modalità da
altri scrittori contemporanei – si basa sul far parlare di volta in volta in
prima persona i vari personaggi, anche i minori, permettendo così di confrontare
tra loro i diversi punti di vista rispetto alla medesima circostanza o in
merito ad uno stesso avvenimento. Ai pensieri e alle osservazioni dei
protagonisti, si aggiunge talora anche un breve commento.
Chi è esattamente
il bozaci [venditore di boza] Mevlut
Karataș? Nato e cresciuto in un villaggio povero dell’Anatolia Centrale, a 12
anni si traferisce ad Istanbul per aiutare suo padre nella vendita ambulante di
boza. A 21 anni, nel 1978, alle nozze di suo cugino Korhut, s’innamora al solo
sguardo della bellissima e giovanissima sorella di Vediha, moglie di Korhut, e
per anni, complice Süleyman, fratello di Korhut, farà recapitare le sue lettere
alla ragazza, senza naturalmente ottenere risposta ma consapevole, secondo
quanto gli riferisce il suo mentore, di averne suscitato l’interesse. Dopo
quattro anni di corrispondenza, grazie ancora a suo cugino Süleyman, Mevlut organizzerà
il rapimento della ragazza, ma avrà la sorpresa di constatare che la rapita
consensualmente non è Samiha, la donna di cui è innamorato e alla quale ha scritto per tanto tempo
lettere piene di passione, bensì è Rayiha, sua sorella maggiore, di lei
sicuramente meno bella.
Le vicende narrate
da Pamuk occupano un arco che va dagli anni Ottanta del secolo scorso sino al
2012 e seguono la crescita inarrestabile di Istanbul, il suo ingrandirsi fino
ad inglobare la periferia, come i villaggi poveri sulle colline di Duttepe e
Kültepe, con le loro catapecchie costruite abusivamente, e dove Mevlut
trascorre la propria giovinezza aiutando suo padre nella vendita della boza e
frequentando il liceo maschile Atatürk di Duttepe, senza però terminare gli
studi.
Con distacco e non senza garbata ironia, Pamuk osserva lo
sviluppo tumultuoso di Istanbul, a metà strada tra occidente e medio oriente,
dove al colpo di stato militare
dell’autunno del 1980 – al quale è costretto a partecipare attivamente anche
Mevlut che sta ultimando il servizio militare – si susseguono giri di vite
delle libertà personali, disconoscimento dei diritti umani, abusivismo edilizio,
corruzione dei funzionari pubblici, familismo di veri e propri padrini come
Hamit Vural il Pellegrino: “La moschea
alla fine – è lui a parlare – rese
felici tutti. I nullatenenti e gli squattrinati di Duttepe e Kültepe […] in
quel giorno santo si misero in fila per baciarmi la mano” [p.107].
Mevlut, nel candore
e nella semplicità del suo vivere, è il personaggio “chiave” del romanzo. Egli
accetta di buon grado ciò che il destino gli riserva, senza mai ribellarsi alla
sorte e questa arrendevolezza gli sarà imputata a merito. Dagli dei olimpici e
sino alle religioni monoteistiche chi vive in umiltà e non si macchia di ubris è ricompensato. Dagli eventi
inaspettati o dalle avversità Mevlut trae piuttosto come un senso di colpa,
attribuendone la responsabilità alla stranezza che sente di avere nella testa.
La stranezza di vivere – sembra suggerire Pamuk dietro le quinte – in un mondo
sempre più incomprensibile e colpevole. Così è quando, di leva, Mevlut è sorpreso dal golpe militare: “Dalle strade deserte al di là dei muri della
guarnigione Mevlut si rese conto che in città stava accadendo qualcosa di
insolito. L’esercito aveva proclamato lo stato d’assedio e il coprifuoco in
tutta la Turchia […] Le strade, che prima erano gremite di contadini,
commercianti, disoccupati e schivi connazionali, adesso si erano svuotate, ma
per Mevlut era come se tutto questo fosse una stranezza della sua testa […] I
militari non maltrattavano più di tanto i ricchi accusati di corruzione. Ai
prigionieri politici, in genere comunisti dipinti come «terroristi», invece,
praticavano la falaka. Le urla dei
giovani che, dopo essere stati prelevati dalle loro baracche nel corso di un
raid della polizia, venivano torturati durante l’interrogatorio, se il vento
tirava da quella parte si sentivano perfino alla guarnigione e Mevlut avanzava
in silenzio verso la caserma, lo sguardo basso per il senso di colpa”
[pp.192-194]. Gioverà ricordare che la falaka
è una pratica di tortura tradizionale in Turchia e non solo, consistente in
reiterate percosse sulla pianta dei piedi. Una diecina di anni fa, la Corte
europea per i diritti dell'uomo di Strasburgo ha condannato la Turchia per la
pratica della falaka nelle carceri.
E lo stesso atteggiamento Mevlut mantiene quando scopre che la ragazza
rapita non è la sua innamorata. Egli non pensa a vendicarsi dell’inganno e
sposa volentieri Rayiha che non può rimandare alla casa dei genitori, non tanto
per una questione d’onore ma per umana sensibilità. Sarà felice con lei già dal
primo momento e ne rispetterà il pudore sino al giorno delle nozze: “Mevlut e Rayiha si comportarono
come due estranei costretti a dividere la stanza in un motel di provincia: si
tolsero i vestiti senza farsi vedere l’una dall’altro e indossarono l’una la
camicia da notte, l’altro il pigiama. Fecero in modo di non incrociare gli
sguardi, spensero la luce e si coricarono l’uno a fianco dell’altra, lasciando
però un po’ di spazio in mezzo […] Quando si svegliò nel cuore della notte,
Mevlut era completamente avvolto dall’odore di fragole che emanava la pelle di
lei, e dal profumo di biscotti che promanava dal suo collo. Erano sudati per il
caldo e in balia delle zanzare. I corpi dei due giovani si abbracciarono con
naturalezza. Mevlut, che dalla finestra vedeva il cielo pervinca sopra la città
e i neon sugli edifici, pensò per un attimo che fossero volati da qualche parte
al di là del mondo, e che fossero tornati alla loro infanzia, in un vuoto privo
di forza di gravità.
-Non siamo ancora
sposati, - disse Rayiha, e lo respinse” [pp.217-218].
Sempre fedele a se stesso, Mevlut non cercherà
di arricchirsi come i suoi cugini, traendo profitto da fortunate e disinvolte
speculazioni protette da politici e padrini, egli lavorerà tutto il giorno ma solo per
mantenere se stesso e la propria famiglia. Mevlut non si occuperà di politica –
mentre in poco meno di dieci anni, tra il 1994 e il 2003 Recep Tayyip Erdoğan
sarà prima sindaco di Istanbul, poi fondatore del Partito per la Giustizia e lo
Sviluppo [AKP: Adalet ve Kakinma Partisi]
e infine presidente del Consiglio – e la sua fede islamica, senza essere un
praticante ortodosso, sarà sempre caratterizzata da equilibrio, semplicità e
stupore: “- L’uomo è il frutto più alto
dell’albero dell’universo, - disse l’anziano uomo dai capelli bianchi, dopo
averlo ascoltato con interesse. Non parlava come se mormorasse una preghiera
tra sé e sé, come fanno i religiosi anziani. Il fatto che lo guardasse dritto
negli occhi come un vecchio amico e gli parlasse in maniera forbita, come a uno
studente, piacque a Mevlut […] Esistono
due tipi di intenzioni -disse. Mevlut lo sentì chiaramente, memorizzandolo
all’istante: LE INTENZIONI DEL CUORE e LE INTENZIONI DELLE LABBRA. Le
intenzioni del cuore erano quelle che contavano. Era questo il fondamento di
tutto l’Islam” [p.348 e 478]. Del resto, Mevlut ricordava bene quanto aveva
detto Ibni Zerhani: solo in paradiso le intenzioni del cuore e quelle delle
labbra coincidono.
Il romanzo di Pamuk si conclude con una
settima parte: siamo nel tardo autunno del 2012 e tutto sembra cambiato ad
Istanbul, ma Mevlut continua a vendere la sua boza e il suo cuore non è mutato, mentre osserva come siano diverse le forme della città dagli anni della sua giovinezza: “Ciò che voleva dire alla città, che voleva scrivere sui muri, gli era
appena venuto in mente. Proveniva da dentro di lui, ed era tutto intorno a lui,
era un’intenzione sia del cuore che delle labbra:«Ho amato Rayiha più di ogni
altra cosa a questo mondo», disse Mevlut tra sé e sé” [p.575].
sergio magaldi
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