SEGUE DA
Se Lettera
di una sconosciuta di Stefan Zweig è il romanzo dell’amore assoluto e non
corrisposto di una donna, il prototipo dell’amore infelice e tragico, spesso
segreto, perché uno dei due amanti – quasi sempre una donna, per motivi
familiari o sociali destinata ad altri – non si trova, per così dire, sulla
stessa lunghezza d’onda dell’altro, è rappresentato da I dolori del giovane Werther che Goethe pubblicò nel 1774, e dalla
sua “variante” italiana, Ultime
lettere di Jacopo Ortis di Ugo
Foscolo, apparso nel 1802. Entrambi i romanzi non fanno parte della classifica
dei “venti libri d’amore più importanti della storia” di Tuttolibri, ma figurano in altre graduatorie dei “libri più belli
sull’amore” che circolano in rete. In comune con Lettera di una sconosciuta, hanno la caratteristica di essere
romanzi epistolari, dove a scrivere è per di più uno solo dei due amanti,
evitando un intreccio poco probabile, vuoi per il senso che la storia narrata è
destinato ad assumere, vuoi per la segretezza che deve essere mantenuta.
I dolori del giovane Werther si iscrive
a buon diritto nel clima preromantico, suscitato dal movimento cosiddetto dello
Sturm und Drang (tempesta ed impeto),
il cui manifesto è rappresentato dai
Saggi intorno al carattere e
all’arte dei tedeschi, redatto nel 1773 da Herder, Goethe e Moeser.
Valori di riferimento sono l’esaltazione del genio individuale e della
spontaneità del popolo, lo spirito libero e la vita secondo natura intesa alla
maniera di Jean Jacques Rousseau (1712-1778), il chiaro di luna e la musica
quasi simboli del connubio tra natura e spirito, l’amore e la poesia come nella
grande stagione di William
Shakespeare (1564-1616). All’idealismo dominante, tuttavia, fa riscontro
l’idea della vanità e della precarietà della vita umana, quasi la nostalgia di
un paradiso perduto, lo struggimento per non poter cogliere l’assoluto, l’eros e
thanatos (amore e morte) come punti nodali dell’esistenza, la materia
sepolcrale dell’ossianesimo, cosiddetto da Ossian, principe e antico
cantore di epica presso i celti, nonché protagonista dell'opera di Macpherson, I canti di Ossian (1760-1773), dove
l’esaltazione del sentimento e della natura si tinge di malinconia e si
accompagna alla narrazione di imprese leggendarie e cavalleresche. Non a caso
Goethe nel suo romanzo fa in modo che Werther legga a Carlotta alcuni passi dei
Canti di Ossian:
«…"Non avete
niente da leggere?" chiese. Werther non
aveva nulla.
"Là, nel mio cassetto, riprese Carlotta, c'è
la vostra
traduzione di alcuni canti di Ossian: non li ho
ancora letti,
perché speravo sempre di udirli da voi, ma
da allora non è
mai stato possibile".
Egli sorrise,
prese il poema, e un brivido lo scosse
quando lo ebbe fra
le mani, e gli occhi gli si riempirono
di lacrime quando
li posò sullo scritto. Sedette, e cominciò
a
leggere:"Stella della notte crepuscolare, tu risplendi
fulgida all'occidente,
tu alzi dal seno della tua
nuvola la testa
raggiante, e maestosamente
avanzi sulla tua
collina. Che cosa guardi nella
brughiera? I venti
tempestosi si sono calmati,
da lontano giunge
il mormorio del torrente;
onde sussurranti
si frangono contro la roccia
lontana; nei campi
si diffonde il ronzio degli
insetti della
sera. Che cosa guardi, bella luce?
Ma tu sorridi, e
passi, e ti circondano i flutti
che bagnano la tua
chioma graziosa. Addio,
raggio tranquillo.
Risplendi tu, splendida luce
dell'anima
ossianica!”…» [I dolori del giovane Werther, ebook
Progetto Manuzio, liberliber, pp.148-149]
Come nasce la passione di Werther per
Carlotta? Naturalmente si tratta di amore a prima vista, come il giovane
racconta in una delle lettere al suo amico:
«16 giugno.
Perché non ti scrivo? Me lo domandi proprio
tu che
sei un sapiente! Dovresti indovinare che sto
bene e
che... In breve ho fatto una conoscenza che
mi tocca
proprio il cuore. Ho... non so quel che ho!
Sarà difficile che io possa raccontarti
ordinatamente
come ho conosciuto la più deliziosa fra le
creature. Sono
soddisfatto e contento; e per conseguenza non
sono un
buono storico.
Un angelo! ahi, questo ognuno lo dice della
sua amata.
E quindi non so come fare a dirti come lei
sia perfetta,
perché sia perfetta: in breve lei è riuscita
ad avvincere
tutto il mio essere.
Una grande purezza si unisce a una grande
intelligenza,
e la bontà e l'energia, la pace dell'animo e
l'amore
alla vita attiva armonizzano in lei. Tutte le
cose che ti
scrivo non sono che chiacchiere inutili e
vane astrazioni
che
non esprimono nulla di quello che lei è.» [Ibid., pp.22-23]
Ed è una condizione di felicità quella
che pochi giorni più tardi Werther descrive in un’altra lettera all’amico. Una
beatitudine che si appaga già solo della vicinanza alla donna amata:
«21 giugno.
Vivo giorni così felici, quali Dio ne concede
ai suoi
beati: qualunque cosa possa avvenirmi ora,
non potrò
dire di non aver gustato le più pure gioie
della vita. Tu
conosci il mio Wahlheim; là mi sono definitivamente
stabilito: sono soltanto a una mezz'ora di
distanza da
Carlotta e vi godo tutta la felicità che può
essere concessa
a un uomo. Eppure non avrei pensato,
scegliendo Wahlheim
come meta delle mie passeggiate, che esso
sarebbe
stato così vicino al cielo. E quante volte
nelle mie
lunghe escursioni ho contemplato, dal monte,
o dalla
pianura che si stende al di là del fiume, la
casa di caccia
che
ora racchiude tutti i miei desideri!» [Ibid., pp.35-36]
Ora Werther si dice certo con l’amico
di essere riamato da Carlotta e che questo lo fa sentire migliore, insomma “se
altri mi ama per ciò stesso sono giustificato ad esistere”, un concetto che,
d’après Sartre, ricorre spesso nella narrativa dell’esistenzialismo di quasi
due secoli più tardi, ma il primo germe dell’infelicità è già all’opera:
Carlotta ha un fidanzato verso cui nutre tutt’altro che indifferenza. Nella
lettera del 16 luglio ricompare nuovamente e con più forza il motivo medievale
della donna “angelicata” cara al “dolce stil novo” ma, quanto più la donna
appare di natura angelica, tanto più infelice e tragico sarà il destino
dell’amante:
«13 luglio.
No, non m'inganno: leggo nei suoi occhi neri
un vero
interesse per me, per la mia sorte. Io sento,
e posso lasciar
parlare il mio cuore, sento che lei... devo
in queste
parole esprimere la mia celeste felicità?
sento che lei mi
ama!
Mi ama! E come sono divenuto caro a me
stesso! a te
posso dirlo perché hai l'animo atto a
comprendermi.
Come mi sento elevato ai miei propri occhi da
quando
lei mi ama!
È forse presunzione? o è coscienza dei veri
sentimenti
che ci uniscono? Io non conosco nessun uomo
di cui
temere l'influenza sul cuore di Carlotta.
Pure quando lei
parla del suo fidanzato con tanto calore e
con tanto affetto,
mi sento come un uomo al quale si sottraggano
tutti i suoi onori e le sue dignità, e a cui
si porti via la
sua spada.
16 luglio.
Quale brivido mi corre nelle vene quando per
caso le
mie dita toccano le sue, quando i nostri
piedi s'incontrano
sotto la tavola! Mi ritiro come dal fuoco,
una segreta
forza mi spinge avanti di nuovo, e tutti i
miei sensi sono
presi da vertigine. E la sua innocenza, la
sua anima
ignara non le lasciano comprendere come
queste piccole
familiarità mi fanno male. Se, parlando, lei
posa la sua
mano sulla mia, se nel calore della
conversazione si avvicina
a me in modo che il suo alito divino sfiori
le mie
labbra, io credo di morire, come percosso dal
fulmine. E
se una volta, Guglielmo, quell'anima celeste
e fiduciosa
io osassi... tu mi capisci? No, il mio cuore
non è così
corrotto! Ma è debole, molto debole, e questa
non è forse
corruzione?
Lei mi è sacra. Ogni desiderio tace alla sua
presenza.
Non posso dire quello che succede in me
quando le sono
vicino; mi pare che tutta l'anima si riversi
nei miei nervi.
Carlotta sa una melodia che suona al
pianoforte con
un'angelica espressione, con grande
semplicità e spirito.
È la sua aria preferita, e appena suona la
prima nota,
fuggono
lontano da me pene, preoccupazioni, capricci.»[Ibid. pp.49-51]
La consuetudine con Carlotta e il suo
fidanzato non farà che aumentare la disperazione di Werther, sino al proposito
del giovane e sfortunato amante di scomparire definitivamente:
« Avevo già trascorso una mezz'ora immerso
nei tristi e
dolci pensieri della separazione e del
rivedersi, quando
li sentii salire sulla terrazza. Corsi loro
incontro e, con
un brivido, presi la mano di lei e la baciai.
Eravamo appunto
arrivati, quando la luna si levò dalla
collina coperta
di cespugli; conversammo un poco e poi
giungemmo
al gabinetto oscuro. Carlotta entrò e si
sedette, Alberto
si mise vicino a lei e io pure; ma la mia
inquietudine
non mi permise di stare a lungo seduto; mi
alzai, mi
misi davanti a Carlotta; feci qualche passo
in su e in giù,
mi sedetti di nuovo: era uno stato di
angoscia. Lei ci
fece osservare il bell'effetto di luna che
dal fondo del
boschetto di faggi illuminava davanti a noi
tutta la terrazza;
il colpo d'occhio era splendido e ci colpiva
ancor
più, in quanto eravamo avvolti da una
profonda oscurità.
Eravamo silenziosi e, dopo qualche tempo, lei
cominciò
a dire: non posso mai passeggiare al chiaro
di luna senza
pensare a tutti i miei morti, senza esser
presa dal sentimento
della morte e dell'avvenire. Noi avremo una
seconda
vita, proseguì con accento forte e sentito;
ma,
Werther, ci potremo ritrovare, riconoscere?
Che cosa
pensate, che ne dite voi?
- Carlotta - dissi, e le tesi la mano mentre
gli occhi
mi si riempivano di lacrime - ci rivedremo;
qui e lassù,
noi ci rivedremo. - Non potei dire altro.
Guglielmo, doveva
lei farmi questa domanda mentre io avevo in
cuore
l'angoscia
dell'addio?
[Ibid. pp.76-77]
In che il romanzo di Jacopo Ortis si
differenzia da quello del giovane Werther? La formula epistolare è la stessa,
con le lettere scritte ad un caro amico
(Lorenzo Alderani), quasi identico
l’intreccio narrativo, perfettamente identico il finale. Anche qui c’è l’amore
a prima vista e il tema della donna angelicata anche se espressi con maggiore
sobrietà:
«26 Ottobre
La ho veduta, o Lorenzo, la divina
fanciulla; e te ne
ringrazio. La trovai seduta miniando il
proprio ritratto.
Si rizzò salutandomi come s'ella mi
conoscesse, e ordinò
a
un servitore che andasse a cercar di suo padre.» [Ultime Lettere di Jacopo Ortis, Grande Universale Mursia, Milano,
1965, p.24]
«Sì, Teresa, io vivrò teco; ma io non vivrò
se non
quanto potrò vivere teco. Tu sei uno di que'
pochi angioli
sparsi qua e là su la faccia della terra per
accreditare
l'amore dell'umanità. Ma s'io ti perdessi,
quale scampo
si aprirebbe a questo giovine infastidito di
tutto il resto
del
mondo?»
[Op.cit., p.54]
A differenza di Carlotta, tuttavia, che nutre
per Werther un amore fraterno, Teresa ama Jacopo, anche se l’essere stata
promessa, per gravi ragioni economiche, da suo padre a Odoardo, le impedirà
ugualmente di vivere il proprio amore, pronunciando la frase che spezzerà il
cuore di Jacopo: “Non posso essere vostra
mai!”:
«14 Maggio, a sera
O quante volte ho ripigliato la penna, e non
ho potuto
continuare: mi sento un po' calmato e torno a
scriverti. –
Teresa giacea sotto il gelso – ma e che posso
dirti che
non sia tutto racchiuso in queste parole? Vi
amo. A queste
parole tutto ciò ch'io vedeva mi sembrava un
riso
dell'universo: io mirava con occhi di
riconoscenza il cielo,
e mi parea ch'egli si spalancasse per
accoglierci! deh!
a che non venne la morte? e l'ho invocata.
Sì; ho baciato
Teresa; i fiori e le piante esalavano in quel
momento un
odore soave; le aure erano tutte armonia; i
rivi risuonavano
da lontano; e tutte le cose s'abbellivano
allo splendore
della Luna che era tutta piena della luce
infinita
della Divinità. Gli elementi e gli esseri
esultavano nella
gioja di due cuori ebbri di amore – ho
baciata e ribaciata
quella mano – e Teresa mi abbracciava tutta
tremante, e
trasfondea i suoi sospiri nella mia bocca, e
il suo cuore
palpitava su questo petto: mirandomi co' suoi
grandi occhi
languenti, mi baciava, e le sue labbra umide,
socchiuse
mormoravano su le mie – ahi! che ad un tratto
mi
si è staccata dal seno quasi atterrita:
chiamò sua sorella
e s'alzò correndole incontro. Io me le sono
prostrato, e
tendeva le braccia come per afferrar le sue
vesti – ma
non ho ardito di rattenerla, né richiamarla.
La sua virtù –
e non tanto la sua virtù, quanto la sua
passione, mi sgomentava:
sentiva e sento rimorso di averla io primo
eccitata
nel suo cuore innocente. Ed è rimorso –
rimorso
di tradimento! Ahi mio cuore codardo! – Me le
sono accostato
tremando. – Non posso essere vostra mai! – e
pronunciò queste parole dal cuore profondo e
con una
occhiata
con cui parea rimproverarsi e compiangermi.» [Ibid. pp.65-66]
Un’altra
differenza tra i due romanzi epistolari consiste nel fatto che in Jacopo Ortis
c’è spazio per la politica e l’amor patrio. All’impossibilità di vivere il suo
amore con Teresa, si aggiunge infatti la delusione di un veneziano per il
tradimento compiuto da Napoleone con il trattato di Campoformio [17 ottobre
1797] che segnò la fine della Repubblica di Venezia.
sergio
magaldi