Il risultato delle
elezioni in Emilia Romagna, ancorché prevedibile, muta definitivamente lo
scenario della politica italiana, almeno rispetto a come si era venuto
delineando negli ultimi anni. Mutamento iniziato già lo scorso agosto, quando
Salvini si è chiamato fuori dal governo gialloverde.
Il direttore de “Il fatto quotidiano” osserva come da
allora Salvini non ne abbia più azzeccata una, e c’è chi continua a sostenere
la tesi che qualche bicchiere di troppo ha finito col portare alla luce insieme
l’ingenuità e l’arroganza di Salvini e chi infine vede nel voto di domenica
scorsa la conclusione della resistibile ascesa del leader della Lega.
Ritornare sui motivi che hanno spinto Salvini a lasciare
il governo è forse inutile e forse no. Non fu allora una mossa sbagliata né
presa sotto l’effetto di alcool, ma neppure una tattica studiata in funzione di
una strategia lungimirante, come pure qualcuno ha creduto di vedere. Fu una
mossa dettata dalla sua stessa sopravvivenza. Scrivevo in un post di domenica 8
settembre:
«(Salvini)1)ha tolto la fiducia al
governo per l’atteggiamento negativo del presidente del Consiglio, di alcuni
ministri pentastellati e del ministro dell’economia rispetto alle riforme
concordate, tant’è che a un certo punto della crisi egli si è detto disposto a
fare un nuovo governo con ampi rimpasti e alla condizione che cadessero i tanti
“no” della componente grillina.
2)ha
preso atto della impossibilità di disporre di almeno 50 miliardi per la
realizzazione della flat tax e degli
investimenti produttivi, nonché della somma necessaria a sterilizzare l’aumento
dell’IVA […]
Costretto a scegliere tra Lega e Lega
Nord, Salvini ha scelto la seconda, il nucleo fondativo, la ragion d’essere del
vecchio partito padano. Se avesse scelto la prima, sarebbe ancora al governo e
lotterebbe ancora spalla a spalla con i Cinquestelle per l’affermazione delle
proprie riforme e senza mollare nulla, ma la sua leadership nel partito sarebbe
ridotta agli sgoccioli. Poco interessa ai leghisti doc il governo di Roma se
non porta all’autonomia finanziaria delle regioni del nord (soprattutto Veneto
e Lombardia) e quanto alla flat
tax il nucleo storico della Lega Nord la vuole ma non alle
condizioni estreme illustrate da Salvini: deficit di 50 miliardi, guerra con
Bruxelles con tutti i rischi per le imprese del nord che questo comporta.
Meglio allora avere le mani libere fuori dal governo romano e se in seguito le
prospettive dovessero peggiorare, c’è sempre la possibilità di rilanciare
l’idea della secessione. Non a caso Zaia, governatore del Veneto, in una
intervista di ieri si è detto completamente d’accordo con Salvini che ha
staccato la spina».
In tale prospettiva, Salvini ha sempre
saputo i rischi che correva, ma non ha avuto scelta, consapevole di non poter
realizzare le promesse della campagna elettorale e in più di mettere a rischio
la tradizionale alleanza di centrodestra, che l’ha portato a conquistare 13
regioni su 19. Altrettanto consapevole tuttavia che la spallata data al governo
gialloverde avrebbe posto fine al suo capolavoro politico che non è tanto aver
portato la Lega da Pontida a Lampedusa, quanto nel superamento della
tradizionale alleanza con il centrodestra per l’incontro con un movimento che
si è sempre detto né di destra né di sinistra e neppure di centro, ma solo
finalizzato al benessere del cosiddetto popolo. Tant’è che Salvini, nonostante
sia stato un catalizzatore dei voti di estrema destra, ha finito per riscuotere
consensi anche a sinistra, come ha dimostrato lo studio dei flussi elettorali
delle ultime elezioni europee.
Il ritorno nell’alveo del centrodestra
con Meloni e Berlusconi – che le circostanze, Bruxelles, lo zoccolo duro della
Lega e i tradizionali alleati hanno imposto a Salvini – rischia insomma per la
Lega di far girare all’indietro la ruota della Storia, con tutte le conseguenze
che ne derivano, prima fra tutte la resurrezione di un partito già dato per
morto e che nel risorgere ha vampirizzato un movimento in cui la scelta di non
lasciare il Parlamento ha prevalso sull’opportunità di rilanciarsi autonomamente
quando era ancora in tempo. C’è di più: l’euforia del governo ritrovato,
nonostante il susseguirsi di rovesci elettorali, ha permesso a quel partito, in
un humus che gli è congeniale, di
favorire un allevamento di sardine, nate dal connubio tra Peppone e Don Camillo
(più Don Camillo che Peppone) e già pronte per essere esportate in tutta la
penisola.
Torna insomma il bipolarismo, anche se i
superstiti del terzo polo si affannano a negarlo e in questa prospettiva, per
uno strano paradosso, le elezioni nazionali potrebbero essere più vicine,
perché non è più così scontato che a vincere sarebbe il centrodestra: i voti
della Lega sono quelli che un tempo aveva Forza Italia e persino il recente aumento
di consensi di Fratelli d’Italia avviene a spese del partito di Berlusconi,
nonostante il voto calabrese. Resta tuttavia una considerazione più razionale.
L’Emilia Romagna non è l’Italia e c’è da giurare che nessuna delle componenti
del governo giallorosa voglia rischiare elezioni nazionali: non il PD sempre
più impegnato nell’allargare il campo dei crociati contro la Lega e che vuole
eleggere un Presidente della Repubblica della propria area, non certamente i
Cinquestelle che, perso per perso, vogliono almeno restare in Parlamento per
altri tre anni, non Italia Viva di Renzi ancora troppo piccola, non l’intera
maggioranza, attesa nei prossimi giorni dalla nomina di alti burocrati,
essenziali per mantenere in vita il potere delle élite.
sergio magaldi