martedì 26 gennaio 2021

GRAMSCI E IL CENTENARIO DEL PARTITO COMUNISTA


 

 Ricorre in questi giorni il centenario della nascita del Partito comunista (21 gennaio 1921: P.C. d’I, Partito Comunista d’Italia e dal 1943 P.C.I., Partito Comunista Italiano), avvenuta presso il Teatro San Marco di Livorno nel giorno in cui al Teatro Goldoni della stessa città si chiudeva il XVII Congresso del Partito socialista (15-21 gennaio 1921) che vedeva la prima scissione all’interno della sinistra italiana, con la fuoriuscita della frazione comunista guidata tra gli altri da Terracini, Bordiga, Bombacci[1] e Antonio Gramsci, allora trentenne, e che comprendeva il gruppo torinese collegato al periodico L’Ordine Nuovo e quello che faceva riferimento al settimanale Il Soviet di Napoli guidato da Amedeo Bordiga.

 

Sarebbe errato e fuorviante, tuttavia, ritenere che la scissione di Livorno abbia determinato una situazione di debolezza all’interno della sinistra, tale da favorire l’avvento del fascismo, perché la rottura dell’unità del Partito socialista – ancorché provocata formalmente dalla non adesione dei “riformisti” e dei “massimalisti” ai principi della III Internazionale e al mancato riconoscimento “dell’universalità della rivoluzione bolscevica” – si caratterizzò proprio in funzione della scarsa combattività che i dirigenti socialisti, per la maggior parte appartenenti alla borghesia, misero in mostra nel contrastare gli ultimi governi dello stato liberale, prima che quest’ultimo, nell’intento fallace di sopravvivere, favorisse l’ascesa al potere del fascismo.

 

In generale, sui quadri della classe operaia in Italia, Gramsci annota: «[…]negli altri paesi il movimento operaio e socialista elaborò singole personalità politiche, in Italia invece elaborò interi gruppi di intellettuali che come gruppi passarono all’altra classe. Mi pare che la causa sia da ricercare in ciò: scarsa aderenza in Italia delle classi alte al popolo, nelle crisi di svolta questi giovani ritornano  alla loro classe (così è avvenuto per i sindacalisti-nazionalisti e per i fascisti). È in fondo lo stesso fenomeno generale del trasformismo in diverse condizioni[…]».[2]

 

D’altra parte, una settimana prima del Congresso di Livorno, il proposito di Gramsci non è ancora quello della scissione, bensì quello di liberare il Partito socialista dalla presenza dei riformisti che, a giudizio della frazione comunista, ne ostacolano l’azione rivoluzionaria. Così scrive l’intellettuale sardo su L’Ordine Nuovo in un articolo del 13 gennaio 1921:

«Il distacco che avverrà a Livorno tra comunisti e riformisti avrà specialmente questo significato: la classe operaia rivoluzionaria si stacca da quelle correnti degenerate del socialismo che sono imputridite nel parassitismo statale, si stacca da quelle correnti che cercavano di sfruttare la posizione di superiorità del Settentrione sul Mezzogiorno per creare aristocrazie proletarie, che […] avevano creato un protezionismo cooperativo e credevano emancipare la classe operaia alle spalle della maggioranza del popolo lavoratore[…].La classe operaia rivoluzionaria afferma di ripudiare tali forme spurie di socialismo: l’emancipazione dei lavoratori non può avvenire attraverso il privilegio strappato, per una aristocrazia operaia, col compromesso parlamentare e col ricatto ministeriale; l’emancipazione dei lavoratori può avvenire solo attraverso l’alleanza degli operai industriali del Nord e dei contadini poveri del Sud […]».

 

Gramsci è ancora più esplicito nei confronti dei dirigenti sindacali - espressione del Partito socialista - in un articolo di circa due mesi più tardi (L’Ordine Nuovo, 4 marzo 1921):

«Il Congresso confederale di Livorno è terminato. Nessuna parola nuova, nessun indirizzo è venuto fuori da questo congresso. Invano le grandi masse popolari italiane hanno atteso di essere orientate, invano hanno atteso una parola d’ordine che le illuminasse, che riuscisse a calmare il loro spasimo e a dare una forma alla loro passione. Il congresso non ha impostato e non ha risolto neppure uno dei problemi vitali per il proletariato nell’attuale periodo storico: né il problema dell’emigrazione, né il problema della disoccupazione, né il problema dei rapporti tra operai e contadini […] L’unica preoccupazione della maggioranza del congresso è stata quella di salvaguardare e garantire la posizione e il potere politico degli attuali dirigenti sindacali, di salvaguardare e garantire la posizione e il potere (potere impotente) del Partito socialista […] In molte regioni d’Italia le folle dei lavoratori erano scese in campo per difendere il loro elementare diritto alla vita, alla libertà di muoversi nelle strade, alla libertà di associarsi, di riunirsi, di avere propri locali di riunione. Il campo della lotta rapidamente divenne tragico: fiamme d’incendio, cannonate, fuoco di mitragliatrici, decine e decine di morti. La maggioranza del congresso non si commosse per questi avvenimenti; la tragedia delle folle popolari che disperatamente si difendevano da nemici implacabili e crudeli non fu capace a rendere seri, a infondere il senso delle proprie responsabilità storiche in questa maggioranza formata di uomini dal cuore inaridito e dal cervello disseccato[…]».

 

Altrettanto lucida è l’analisi che Gramsci fa del fascismo su L’Ordine Nuovo del 26 aprile del ‘21. Presentatosi come un movimento antipartito, il fascismo cela sotto idealità politiche “vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odi, dei desideri. Il fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia barbarica e antisociale di alcuni strati del popolo italiano, non modificati ancora da una tradizione nuova, dalla scuola, dalla convivenza in uno Stato bene ordinato e bene amministrato”. Non meno lungimirante sarà l’analisi che Gramsci farà di Mussolini tre anni dopo (L’Ordine Nuovo, marzo 1924), quando ormai il fascismo è saldamente al potere: “Abbiamo in Italia il regime fascista, abbiamo a capo del fascismo Benito Mussolini, abbiamo una ideologia ufficiale in cui il «capo» è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Vediamo stampate nei giornali, ogni giorno, diecine e centinaia di telegrammi di omaggio delle vaste tribù locali al «capo». Vediamo le fotografie: la maschera più indurita di un viso che già abbiamo visto nei comizi socialisti. Conosciamo quel viso: conosciamo quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano, con la loro ferocia meccanica, far venire i vermi alla borghesia e oggi al proletariato. Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia. […] Egli era allora, come oggi, il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale dai vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica, che spera di vedere nella classe operaia lo stesso terrore che essa sentiva per quel roteare degli occhi e quel pugno chiuso teso alla minaccia”.

 

Il fascismo – scrive ancora Gramsci su L’Ordine Nuovo, del 21 giugno 1921 –  si è diffuso in Italia non solo grazie alla violenza e all’appoggio dei grandi proprietari terrieri e dei ceti della finanza, ma soprattutto per la connivenza delle istituzioni e dell’apparato statale, in particolare dei corpi di pubblica sicurezza, dello stato maggiore militare e della magistratura. Ed eccolo rivolgere da comunista agli ex compagni socialisti che, anche tramite il sindacato, hanno ancora il controllo della classe lavoratrice, la domanda che presto diverrà attuale: “Cosa intendono fare i socialisti e i capi confederali per impedire che sul popolo italiano venga a gravare la tirannia dello stato maggiore, dei latifondisti e dei banchieri? Hanno stabilito un piano? Hanno un programma?” La risposta che si dà è negativa e anticipa di un anno e mezzo quello che effettivamente accadrà: “I socialisti non si sono mai posti seriamente la questione della possibilità di un colpo di Stato e dei mezzi da predisporre per difendersi e per passare all’offensiva. I socialisti, abituati a rimasticare stupidamente alcune formulette pseudomarxiste, negano la rivoluzione «volontarista», «miracolista», ecc. ecc. Ma se l’insurrezione del proletariato venisse imposta dalla volontà dei reazionari, che non possono avere scrupoli «marxisti», come dovrebbe comportarsi il Partito socialista? Lascerebbe, senza resistenza, la vittoria alla reazione?” Le sue conclusioni sono tragicamente profetiche: “Il colpo di Stato dei fascisti, cioè dello stato maggiore, dei latifondisti, dei banchieri, è lo spettro minaccioso che dall’inizio incombe su questa legislatura”. L’osservazione con cui conclude l’articolo giustifica da sola la nascita del Partito comunista: “Qual è la parola d’ordine del Partito socialista? Come possono le masse ancora fidarsi di questo partito, che esaurisce la sua attività politica nel gemito e si propone solo di far tenere dai suoi deputati dei «bellissimi» discorsi in Parlamento?


Il socialista Tito Zaniboni e il fascista Giacomo Acerbo, firmatari del patto di pacificazione del 3 agosto 1921



E un mese più tardi, di fronte alla pacificazione tra fascisti e socialisti, Gramsci intuisce sempre di più quello che sta per accadere (L’Ordine Nuovo, 3 luglio 1921): “La pace fra fascisti e socialisti è il risultato di uno stato di coscienza, in cui interferiscono i due fallimenti politici. La tattica fascista, in quanto corrispondeva a un piano politico preordinato, si proponeva di far rientrare nella legalità costituzionale i capi socialisti e di indurli alla collaborazione. L’on. Giolitti favorì il movimento fascista per incanalarlo a questo fine preciso. Le masse furono massacrate impunemente, le Camere del lavoro, le Case del popolo, le cooperative furono incendiate e saccheggiate impunemente per indurre i capi socialisti alla riflessione […]”.

 

Certo, il Partito comunista italiano non fu solo Gramsci e la sua storia conobbe pagine oscure nel suo legame con lo stalinismo, ma non c’è dubbio che la sua nascita fu legittima e motivata da ciò che sarebbe accaduto a poco più di un anno dalla sua fondazione, quando, anche per l’inerzia dei socialisti, in Italia si instaurò una dittatura che sarebbe durata più di vent’anni. D’altra parte, la storia dell’unico partito italiano che oppose resistenza al fascismo mentre era al potere e che più di ogni altro prese parte alla Resistenza in armi contro il nazifascismo è anche la storia dell’emancipazione delle classi lavoratrici, del massimo di unità possibile di popolo e intellettuali, del valore delle istituzioni democratiche, della formazione di una borghesia laica – in mancanza di una religione riformata, così come avvenne altrove in Europa – e senza che tuttavia questo significasse il ripudio delle religioni positive, a cominciare dal cattolicesimo. L’evoluzione cosiddetta socialdemocratica del P.C.I. non deve trarre in inganno e i riformisti di allora non hanno avuto ragione: il riformismo quando è autentico è una ricetta valida in un Paese democratico e bene amministrato, non può esserlo nelle condizioni in cui si trovava l’Italia, tra la minaccia fascista e il crollo dello stato liberale.

 

sergio magaldi  








[1] Nicola Bombacci (1879-1945), massimalista di sinistra nel Partito Socialista, cofondatore del Partito Comunista d’Italia e amico personale di Mussolini, morì fascista, fucilato a Dongo dai partigiani nell’aprile del ’45, dopo aver  aderito alla Repubblica Sociale di Salò.

[2] A. Gramsci, Quaderni del carcere 2., Einaudi, Torino, 1966, p.42


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