domenica 21 aprile 2013

LA FRODE

La Frode, regia di Nicholas Jareckì, USA 2012, 107 minuti


 Arbitrage, in italiano presentato con il titolo di La Frode, mostra ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, la grande capacità degli americani di fare cinema. Da una vicenda comune basata sull’idea altrettanto comune che il denaro sia l’unico vero dio dei nostri tempi, e forse di sempre, Nicholas Jareckì, regista e sceneggiatore, costruisce una storia che vede protagonista Richard Gere – ancora prototipo del maschio preferito dalle donne – nel ruolo dell’affascinante e maturo magnate Robert Miller. L’attore, meno “manichino” di sempre man mano che gli anni passano, si esibisce in una interpretazione convincente che si esalta con la capacità tutta americana di fare del Cinema quello che l’arte cinematografica è innanzi tutto: una sequenza di immagini che ha soprattutto nel ritmo la chiave per giustificare la propria narrazione. Provate a raccontare la stessa storia con i tempi blandi di tanto cinema europeo, e soprattutto italiano, e ne risulterà una vicenda scialba e insignificante, sicuramente noiosa e sonnolenta per gli spettatori. Perché, oltretutto, il film, a differenza di un libro, non deve far pensare mentre lo si legge, ma solo dopo. Così, quando finalmente si tireranno le somme di  La Frode, se ne comprenderà anche la morale: chi gestisce un vasto impero finanziario, o anche soltanto chi ha a che fare con l’unica vera divinità riconosciuta dal genere umano, rischia talora di non potersi sottrarre alla frode, come per l’appunto accade al magnate del film, costretto a farvi ricorso per evitare il fallimento, causato da speculazioni redditizie ma rischiose, per dover dipendere dalla politica di un paese straniero.



 Robert Miller, e con lui ogni uomo che abbia fatto del denaro il proprio unico dio, non può accontentarsi di quello che ha: la ricchezza, una famiglia preziosa e in apparenza innocente, formata dalla moglie Ellen [Susan Sarandon] rassicurante e premurosa, due figli affettuosi e in particolare la figlia Brooke [Brit Marling] che cura i bilanci delle sue aziende, più un’amante giovane e bella con aspirazioni artistiche [Laetitia Casta nel ruolo di Julie]. Se Robert fosse pago, sarebbe una contraddizione in termini, perché si vieterebbe un'approfondita conoscenza dell’unico dio e delle gioie, sottoforma di sesso e potere, che egli elargisce ai seguaci del suo culto. Un evento improvviso e, per così dire, karmico mette Robert di fronte alla realtà e gli fa comprendere quanto poco valga per lui la religione in cui ha creduto. Ma egli sa bene quanto valga per gli altri: soprattutto per sua moglie che, per convenienza e opportunismo ha finto sempre indifferenza per i tradimenti del marito, e per sua figlia che, scandalizzata dalla frode del padre [che poi è solo una frode per falso in bilancio, reato che, com’è noto, nell’ordinamento giuridico italiano è stato depenalizzato negli anni recenti], lo condanna duramente. Così, mentre Robert, ormai consapevole e pieno di rimorsi, cerca di salvare il salvabile  – non per sé ormai, ma per gli altri che dipendono da lui – con uno stratagemma che ne ribadisce il fiuto negli affari e le capacità manageriali, lo spettatore riceve un messaggio  di cui  è più o meno incosciamente consapevole: se si accetta il denaro come unico dio, tutto gli sarà sottomesso, in particolare l’amore e ogni altro sentimento. Ma la morale del film è anche più cinica, nel fare di Robert un personaggio più autentico e simpatico di coloro che lo circondano: chi è più responsabile della frode? Colui che la fa? O coloro che senza sporcarsi le mani, e magari condannandola, ne traggono profitto?

sergio magaldi


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