sabato 24 ottobre 2015

Essere, Nulla e Manifestazione nella metafisica occidentale e nella Qabbalah [Seconda Parte]




  La letteratura cabbalistica ha finito talora col sostanzializzare la semplice impossibilità logica di cogliere la fine e il principio,  sostenuta  nel primo capitolo del Sepher Yezirah  (Si veda in proposito il post  Essere, Nulla e Manifestazione nella metafisica occidentale e nella Qabbalah [Prima Parte], cliccando sul titolo per leggere). Così facendo, ha facilitato l'interpretazione gnostica  e dualistica della Qabbalah. Da una parte 'Ain-Soph' divenuto il ‘Deus abscondidus', dall'altra il Demiurgo dell'universo, oppure ha reso possibile l'interpretazione neoplatonica del pensiero cabbalistico: ‘Ain-Soph’ diventa l'ineffabile Uno di Plotino e si svela mediante l'estasi o, me­glio, si rivela a chi, librandosi sul fango della materia e riper­correndo a ritroso il cammino emanativo, giunge infine a medesimarsi con Lui:

  “Tutti gli uomini sin dalla nascita fanno uso dei sensi pri­ma che dell'intelletto e incontrando, dapprima, di necessità le cose sensibili, gli uni,fermi in esse, trascorrono la loro vita nelle credenze che esse siano le prime e le ultime cose, e so­stengono che quanto v’è in esse di doloroso e di piacevole, sia rispettivamente il male e il bene: così, pensando di averne abbastanza passano la vita perseguendo l'uno o l'altro, lonta­ni dal loro tetto. E chi tra loro si atteggia a filosofo pre­tende persino che sia qui la sapienza. Somiglian, costoro, ad uccelli pesanti e che hanno preso molto dalla terra, e, appe­santiti così, non riescono a volare in alto, per quanto dotati di ali dalla natura. Altri si sollevano un po’ dalla bassura, perché la parte più nobile dell'anima loro li sospinge dal piacere alla bellezza; ma poiché non riescono a vedere le altezze, privi di altro sostegno cui appoggiarsi, precipitano in basso, insieme con la loro decantata 'virtù’ dell'agire pratico, cioè alla scelta, tra le cose vili e basse donde prima avevano tentato di sollevarsi.
V’è, infine, una terza schiera: uomini divini di più forte vi­gore e di sguardo più acuto che san vedere, come per suprema in­tensità visiva, lo splendore superno, e s'innalzano fin lassù, quasi al di sopra delle nubi, e deliziandosi di quel luogo, bene verace e avito; come un uomo che dopo vagabondaggio abbia fatto ritorno alla patria sua retta da buone leggi.”[Plotino, Enneadi, V.9.I. , trad.it. di V.Cilento].

 Lo Scholem, al quale va peraltro riconosciuto gran merito negli studi cabbalistici, ha oscillato tra le due interpretazioni. Nello scritto del 1941,  Le grandi correnti della mistica ebraica, identifica esplicitamente  'Ain-Soph' con il 'Dio nascosto’.  In Origini della Kabbalah del ‘62, pur non tralascian­do di sottolineare, soprattutto nell'analisi del Sepher ha Bahir, le influenze gnostiche sul corpo della Qabbalah, sembra inclinare verso un’interpretazione in chiave neoplatonica di 'Ain-Soph'.

 Se, nell'intento di verificare quel 'nucleo essenziale’ della Qabbalah, di cui si parlava sopra, esaminiamo ora lo Zohar, ci accorgiamo che il significato dato dallo Yezirah a un concetto ancora embrionale di 'Ain-Soph', non ne risulta affatto stravolto, ma addirittura rafforzato: “Ain-Soph, infinito: in lui non c'è alcuna apertura, ogni interrogativo è vano, come ogni idea per le possibilità dal pensiero” (1). Più avanti ‘Ain-Soph,’ è detto “Chiusura inaccessibile e sconosciuta [...] resiste ad ogni possibile conoscenza e non se ne può fare né una fine né un principio” (2). C'è di più: non solo 'Ain-Soph' non è il principio, non lo è neanche l’uno. Il principio è il due, come attesta la nostra esperienza, come sostenevano gli antichi pitagorici, com’è scritto nello Zohar:

  “E’ scritto: ‘In principio’ (Bereshith), ma è la lettera beth che si trova all’inizio, el­la che è il due, la seconda lettera dell'alfabeto. Perché il due e chiamato 'principio’, allorché la Corona suprema (l'uno), benché sia la prima, si ritrae. Poiché ella non si mette in Questione, è il due che è il principio’ ”(3). La spiegazione rimanda alle prime parole del Genesi, come chiarisce un altro passo dello Zohar: “In principio. Rabbi Amnouna l'anziano disse: incontriamo nelle prime parole del Genesi una inversione nell'ordine alfa­betico delle lettere: prima una beth seguita da un'altra beth in 'Bereshith barah' ('In principio creò'), poi soltanto una aleph seguita da un'altra aleph in 'Elohìm-eth’ ('II Signore') ”(4).

 Il racconto del Rabbi Amnouna prosegue poi con la storia assai nota delle ventidue lettere che, cominciando dall'ultima, la taw, si presentano davanti al Signore per chiedergli di cominciare la creazione a partire da ognuna di loro. Il Signore, sottolineando vizi e virtù di ciascuna, le respinge benevolmente una dopo l'altra , finché non si presenta la beth, che viene, infine, prescelta per dare inizio alla creazione del mondo. Unica lettera a non presentarsi è aleph, allora il Signore così le si rivolge:

 “Aleph, aleph perché non ti presenti davanti a me come tutte le altre lettere? La aleph rispose: Signore dell'universo, ho visto tutte le lettere comparirti davanti senza alcun risultato, dovrei fare anch'io la stessa cosa?... Inoltre tu hai già accordato questo dono prezioso alla lettera beth, e, certo, non conviene al Re su­premo di ritirare il dono che ha appena fatto a un servitore per accordarlo a un altro servitore. Il Santo, benedetto egli sia, co­sì le rispose: Aleph, aleph, anche se creerò il mondo con la let­tera beth, tu sarai la prima di tutte le lettere dell'alfabeto. Io non   avrò unità che in te,  tu sarai   il co­ronamento di tutti i disegni e di tutte le opere del mondo. Ogni unificazione risiederà unicamente nella lettera aleph”(5).

 La stessa narrazione si incontra in un altro testo della let­teratura zoharica, il Midrash-ha-Neelam su Ruth. Il racconto è più o meno lo stesso, più sintetico dell'altro ci permette tutta­via, di apprendere altre 'qualità' di ciascuna delle lettere dell'al­fabeto “sacro” (6). Differisce solo nel finale, allorché il Signore dice ad aleph: “Attraverso te io mi esalterò quando il mio nome sarà reso con te, Uno.” (7).

 Dall'esame dei passi citati emergono due considerazioni essenziali. La prima è che ‘in principio’ è il due. Non a caso, le let­tere del tetragramma corrispondono rispettivamente alla seconda, alla terza, alla sesta e alla decima sephirah: Yud-Hochmah, il padre; He-Binah, la madre; Vaw-Tiphereth, il figlio; seconda He-Malchuth, la figlia o la sposa (8). La seconda considerazione, di non minore importanza, è che l'uno in sé è 'Ain'-Nulla. Ciò che noi conosciamo, infatti, non è l'uno, ma l'unificato, il coronamento. L'estasi plotiniana che di fatto implica l'assimilazione nell'Uno è per principio fuori portata. Pro­prio perché in principio è il due, l'uno possiamo conoscerlo solo unificando la diade. Tale unificazione è possibile grazie a un elemento in grado di equilibrare ciascun polo della diade: il tre, come ancora ci mostra un passo dello Zohar

 “Tre sorge dall'uno, l'uno nel tre prende consistenza: egli penetra in due e due abbevera l'uno, l'uno abbevera la molteplicità, allora tutto è uno. Com'è scritto: ‘Fu sera, fu mattina, un solo giorno’(Genesi I-1). Giorno, dove sera e mattina si abbracciano nell'unità: questo è il segreto dell'alleanza tra il giorno e la notte, e in lui tutto è uno.”(9)

 E ancora: in Binah, la terza sephirah (il tre), che è composta dalle lettere Beth, Yud, Nun, He , c'è il principio (Beth), il padre (Yud), la madre (He). La lettera Nun, tra lo Yud e la He, rappresenta allora l'equilibrio tra i due, tra il padre e la madre, il maschio e la femmina.

 In conclusione, dunque, l'uno, per ciò che si rivela è due, per ciò che si conosce è tre, per ciò che si ritira è il nulla e si rivolge verso 'Ain-Soph'. In un commento del Sepher Yezirah, Isacco il cieco, il grande maestro cabbalista vissuto tra il XII e il XIII secolo, elimina 'Ain-Soph' da ogni speculazione del mistico e si rivolge verso la Corona o Kether, prima sephirah, che chiama 'Ain-Soph’ e alla quale dichiara che intende abbeve­rarsi (10). In tale contesto, 'Ain-Soph', lungi dall'essere il 'Deus abscondidus’ o l’Uno dell'estasi plotiniana, altro non è che la pensabilità della negazione della fine e del principio. Così, se l'uno, come tale, si ritrae, e se non è possibile al­cuna speculazione su 'Ain-Soph’, non resta che aspirare all'uni­ficazione; cogliere, cioè, l'uno nella sola forma in cui si ri­vela, nell'unificato. Si comprende allora come l'unificazione più alta sia quella tra l’uomo e la donna, la diade originaria, il principio. Si comprendono, altresì, nella tradizione ebraica, sacralità e fortuna dello Shirah- Shirim o “Cantico dei Cantici”.

  Al di là delle molteplici chiavi interpretative del Cantico (11), se utilizziamo il 'Pardès' (12), otteniamo quattro possibili mo­dalità di lettura di questo testo, con riferimento alla Qabbalah e all'albero sephirotico: Peshat, o interpretazione letterale, per una rappresentazione dell'unione dell'uomo e della donna, del re e della re­gina (Tiphereth - Malchuth) mediante i tabernacoli, cioè mediante gli organi sessuali (Yesod); Remmèz, o interpretazione alle­gorica, per simboleggiare l'unione completa di Tiphereth e di Malchuth attraverso tutte le membra, cioè per mezzo dei cinque sephiroth del piano inferiore; Derash, o interpretazione anagogica, a significare un’ascesa, mediante l'unificazione dei sephiroth del piano inferiore con Binah e Hochmah, sino alla conoscenza superiore di Daat (13); Sod, o interpretazione segreta, per elevarsi nella direzione di ‘Ain-Soph’ tramite la triade superiore Binah-Hochmah-Kether. Sod e 'segreto indicibile' proprio perché attiene ai rapporti di Binah e di Hochmah con la Corona (Kether), con quell'uno che si ritrae in 'Ain-Soph' e si rivela in Hochmah, cioè nella diade come principio. Si legge, in un passo dello Zohar, a proposito dell'unione tra l'uomo e la donna: “Qui la donna si unisce al suo sposo. E quando si siano stretti l'un l'altro in un abbraccio, allora bi­sogna che le loro membra siano aderenti e i loro tabernacoli con­giunti, come se fossero uno, e che la loro comunione si diffonda in ogni parte di loro secondo il desiderio del cuore, per poter­si elevare nella direzione di 'Ain-Soph', affinchè tutto si uni­sca laggiù per fare di quelli dell'alto e di quelli del basso un desiderio solo”.

 Cosa s’intende con “essere come uno” e con l’elevarsi nella direzione di 'Ain-Soph'? Essere come uno non significa divenire uno, bensì cogliersi nella diade originaria o principio. Elevar­si nella direzione di 'Ain-Soph' non significa partecipazio­ne mistica della medesimezza con l'uno, bensì l'intenzione verso quella “trascendenza indicibile, pensabile solo come negazione del principio e della fine, allorché si realizzi l'uno nella sola forma possibile, quella dellunificato. Si spiega, così, perché nel Sanhedrin talmudico è scritto che “colui che legge un versetto del Cantico dei Cantici e lo con­sidera come un canto erotico, attira la sciagura sul mondo”(14). Altrettanto errato è fare dell'unione dell'uomo e della donna una sorta di ierogamia finalizzata alla dis­soluzione della diade nell'androgino originario, archetipo an­tropomorfico dell'Uno-Dio. La sacralità dell'unione tra l'uomo e la donna è altrove, è nella riproposizione senza limiti del principio e della fine. Del principio che è due (il 'Bereshith Bara Elohìm' del Genesi ) e della fine che, ogni volta, torna ad essere principio. Altrimenti detto, quando l'uomo e la donna si uniscono il principio e la fine sono sempre altrove, non lì dove ci aspetteremmo di trovarli, sono Ain-Soph. La trascen­denza è sempre al di là, come ‘indicibile lontananza’ si offre alla ‘Qavvanah’ (intenzione) e alla ‘Devequth (comunione) attra­verso l'unificazione dei sephiroth. Scrive in proposito lo Scholem: Devequth non è dunque ‘unio’, ma ‘communio’. Nel senso che il temine ha nel vocabolario dei kabbalisti, esso richiede sempre, malgrado il suo carattere d'intimità, un elemento di distanza..... La "Kavvanà" è lo strumento di questo processo. Isacco e i suoi allievi non parlano di un'estasi, di un atto unico che fa uscire da se stessi, nel quale si annulla la coscienza umana. La ‘Devequth’ non con­siste nel penetrare impetuosamente in Dio e nell' assorbirsi in lui; è uno stato costante, che s'alimenta con la medita­zione e che per mezzo suo si rinnova. Contrariamente a nu­merose altre scuole più recenti, quella degli antichi kabbbalisti non è andata più lontano; in ciò essa non rinnega per niente il suo carattere teista-ebraico” (15).

 Non a caso Hegel rivendica il primato della religione cristiana su quella ebraica, facendo di Cristo il simbolo della mediazione tra l'umano e il divino che, nell'ebraismo, rimane, a suo giudizio, irrisolta. Non partecipe della natura divina, l'uomo Mosé sottolinea, al contrario, l'infinita distanza che c'è tra l'uomo e Dio, la sua stessa pretesa di contemplare Dio 'faccia a faccia' è destinata allo scacco. Hegel, tutto intento a seguire il cammino dello Spirito nella storia e nel destino dell'Occidente, non ha visto ciò che, a mio giudizio, è invece peculiare e forse esclusivo della religione ebraica: la capacità di riuscire a dispiegare la ragione sino alle sue estreme conseguenze, lascian­do intatto ‘il distante’, quella trascendenza indicibile che rifiuta di arrendersi alle aspirazioni prometeiche del pensiero.

 Ne consegue che, nella tradizione ebraico-cabbalistica, l’unica modalità di rapportarsi all’Uno è l’Unificato e che questa unificazione è possibile attraverso l’unione dell’uomo e della donna, la preghiera, la meditazione e lo studio [Ma’asè Merkabah, ‘Opera del Carro’ e Ma’asè Bereshith, ‘Opera della Creazione’].

 “In principio è il due”: di qui derivano notevoli implicazioni di carattere ontologico. Se la donna è nel principio, così come l'uomo, non c’è nessun primato che l'uomo possa rivendicare sulla donna. Neppure c'è, d'altra parte, un primato femminile, perché, se è vero - come sostengono i testi cabbalistici - che la donna è ‘la sorgente del desiderio’ che permette di realizzare l'uno nella forma dell'unificato, è altrettanto vero che occorre  un 'desiderante' che si abbeveri a quella sorgente affin­ché si realizzi la comunione e, con essa, quel desiderio del cuore che si eleva nella direzione di ‘Ain-Soph’.

 Nella dualità maschio-femmina è contenuto il dualismo di tutto ciò che è. L’essere, dunque, non è “la pura indeterminatezza e il puro vuoto”, contrapposto e tuttavia identico al nulla e neppure insieme al nulla è destinato a scomparire nella concretezza del divenire [Hegel]. L’Essere non è il noumeno contrapposto al fenomeno [Kant], né l’eterno e immobile presente [Parmenide]. Il nulla come interrogazione sull’essere al di dentro dell’essere stesso [Sartre] o come trascendenza imperscrutabile [Qabbalah] non si contrappone all’essere ma ne è la naturale conseguenza. In altre parole, l’essere è la manifestazione della dualità, ma la polarità non è rappresentata dal nulla, perché il nulla è semplicemente contenuto in lui e/o è fuori di lui come ciò che non può essere detto ma che può essere pensato nella forma dell’unità. L’errore delle religioni è quello di dare voce a questo uno-nulla, di per sé indicibile. Ecco perché la Qabbalah storica delle origini [Isacco il Cieco], pur ispirandosi al monoteismo ebraico, raccomanda di tenersi lontano dalle speculazioni su Ain-Soph, inteso come Unità e Nulla Infinito. La dualità della Manifestazione [il solo Essere che ci è dato conoscere] non può essere ricomposta semplicemente annullando le differenze della dualità radicale, nell’illusione che ci spinge a saltare il fosso nel tentativo impossibile di incontrare l’Uno. Né, d’altra parte, tale dualità può essere accettata fatalmente, al modo degli gnostici, come inevitabile conseguenza del nostro essere nel mondo. Il lavoro per l’essere umano sembra piuttosto quello di unificare ciò che è diviso, con la consapevolezza - come ammonisce lo Zohar - di poter conoscere l’Uno nella sola forma possibile che è quella dell’Unificato. 

sergio magaldi

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 (1)Sepher ha Zohar, cit., I, 2Ia. La traduzione del brano, come degli altri che seguono, è mia.
 (2)Ibid.,II,239a
(3)Ibid.,I,31b
(4)Ibid.,I,2b
(5)Ibid.,I-3a
 (6)La tradizione attesta della sacralità attribuita a gran parte degli alfabeti antichi, in quanto si riteneva che la divinità avesse creato il mondo con la parola. Le lettere erano lo strumento per trasmettere la conoscenza della realtà. Nella tradizione indiana, la dea Kâlì è rappresentata con una collana di teschi, ciascuno a sim­boleggiare una lettera dell'alfabeto sanscrito; cioè, la totalità delle conoscenze da trasmettere agli uomini nel corso della lo­ro esistenza. Per certi aspetti,la dea Kâlì ricorda la sephirah Binah e il Kronos-Saturno della tradizione occidentale.
(7) Midrash-ha-Neelam,88d
(8) Midrash-ha-Heelam,75a; Idra Zouta,Zohar III,291a
(9) Zohar,I-32a
(10)G.G..Scholem, Le Origini della Kabbala, cit., cfr., soprattutto le pp.336-340
(11) Per l'interpretazione di senso alchemico dello Shirah-Shirin, oltre alla vasta letteratura sull'argomento, cfr., soprattutto: Cantico dei Cantici, I-5, I-6, II-4, II-7, II-I2, III-1, III-6, IV-16, V-9, V-14, VI-7, VIII-4, VIII-8. Per l'interpretazione cabbalistica occorre riferirsi all'intero corpo della letteratura zoharica. Per una prima introduzione, cfr. Zohar, ed.cit.,vol.I,t.II,p.I28, note 456-7; p.I7I,n.22; p.I72, nn.29-30; p.246,n.40;  p.274,n.204; p.328,n.257;p. 394,n. 876; p.395,nn.877 e 880; p.396,n.895; p.429,nn.98-9; p.49I,n.35
(12)'Pardès' si compone delle iniziali delle parole Peshat (Pe-Shin-Taw), Remmèz (Resh-Mem-Zaìn), Derash (Dalèth.-Resh-Shin) e Sod (Samèch-Vau-Dalèth) = PRDS. Com’è noto, nell'alfabeto ebrai­co, mancano le lettere per le vocali, introdotte, sottoforma di punti e lineette, solo verso il VII-sec. d.C. dai ‘naqdanim' o 'puntatori' allo scopo di facilitare la lettura dei libri sacri. 'Pardès' è dunque 'notariqon' di quattro parole. Il ‘notariqon’ fa parte, insieme alla 'gematria' (valore numerico delle parole) e alla 'temurah' (permutazione delle lettere), della Qabbalah cosiddetta letterale e consiste, come abbiamo visto, nel formare una nuova parola con le iniziali di altre parole. Oltre alla Qabbalah letterale, si suole distinguere una Qabbalah dogmatica, una Qabbalah pratica e una Qabbalah orale.
(13)Daat-Conoscenza, sephirah occulta. Si trova nella colonna centrale, nascosta tra i sephiroth Tiphereth e Kether
(14)Cfr., Rabbi Issa’char Baer, Commentaire sur le Cantique des Cantiques, 1979, p.10
(15) Cr.G.Scholem,Le Origini della Kabbah, cit.,p.374


venerdì 23 ottobre 2015

Come non vincere in CHAMPIONS...




  La Roma pareggia una partita già vinta e che avrebbe potuto rappresentare una svolta nella sua Champions di quest’anno, proiettandola al secondo posto del girone dietro il Barcellona e davanti al Bayern Leverkusen e al Bate Borisov, le due squadre che incontrerà in casa nelle prossime settimane. Resta invece all’ultimo posto e non le basterà vincere le due partite interne per passare agli ottavi, se il Bayern dovesse vincere in casa contro il Barcellona nell’ultima partita, quando i catalani avranno già messo in cassaforte il primato del girone.

 Qual è la ricetta per non vincere una partita che stavi perdendo 2-0 e che grazie alla buona sorte, al ginocchio e alla caparbietà di De Rossi, alla precisione balistica di Pjanic [che a soli 3 giorni di distanza si ripete magistralmente su calcio di punizione], alla vena di Gervinho, di sicuro il migliore in campo, vincevi per 2-4 a 9 minuti dalla fine, recupero compreso, che di fatto non sono neanche cinque minuti di calcio giocato? La formula è semplice: basta sostituire Gervinho con Dzeko, rinunciando alle ripartenze, continuare a tenere in campo Torosidis e Florenzi ormai spompati, non rinunciare all’inguardabile Rüdiger, non fare entrare in campo nessuno dei tanti centrocampisti, pagati a caro prezzo e visti di rado, per fare filtro in mezzo al campo. Tutto ciò senza nulla togliere ai meriti della dirigenza romanista di cui ho già parlato in un precedente post [Clicca sul titolo per leggere: Roma calcio: un organico da scudetto?].

 Pareggia anche la Juventus, inchiodata in casa sullo 0-0 da una squadra modesta, quando una vittoria le avrebbe garantito il passaggio agli ottavi di Champions e dunque la possibilità di dedicarsi con maggiore determinazione al Campionato, per migliorare una classifica attualmente fallimentare. Anche in questo caso la ricetta è stata semplice, al netto delle considerazioni già espresse in precedenti post [Clicca sui titoli per leggere: Juve e Roma steccano la prima e Campionato finito?], che si sostanziano in una preparazione precampionato che non c’è stata e che rende il suo gioco macchinoso e soprattutto lento e prevedibile, nonostante i suoi tanti campioni. Per non vincere è stato sufficiente schierare in attacco Mandžukić, appena rientrato da un infortunio e totalmente fermo sulle gambe, sostituirlo poi con Zaza che non ha intercettato una palla, ricorrere a Dybala solo negli ultimi minuti e al posto di Morata, il migliore degli attaccanti in campo sino a quel momento [come era già avvenuto nello 0-0 di Milano con l’Inter, con la motivazione che il giovane talento argentino tornava da un lungo viaggio per l’impegno con la sua nazionale] e che appena entrato ha subito mostrato valore e fantasia che evidentemente il suo allenatore non gli riconosce, o non gli riconosce abbastanza, preferendogli giocatori più fisici anche se carenti di condizione.

 Juve e Roma: due ricette sicure per non vincere in Champions.

sergio magaldi   

domenica 18 ottobre 2015

Essere, Nulla e Manifestazione nella metafisica occidentale e nella Qabbalah. [Prima parte]




  Nel suo stile stringato ed essenziale, il Sepher Yezirah (1) costituisce per così dire il “nucleo metafisico” della Qabbalah. Il Sepher Yezirah si ispira al Ma'aseh Bereshith (2) della tra­dizione talmudica (3), essendo sostanzialmente un commento del I° Capi­tolo del Genesi. Non c'è testo della complessa letteratura cabbalistica, dal  Sepher Bahir (4) al Sepher ha Zohar (5) che non ne abbia ripreso i concetti sotto forma di commentari o di opere più originali. Ciò ha comportato spesso uno stravolgimen­to di senso, con interpolazioni dottrinarie suggerite dalle condi­zioni storiche e ambientali, senza riuscire, tuttavia, ad intacca­re quello che appare come il nucleo essenziale della Qabbalah. Guardando a questo nucleo e ai suoi svol­gimenti più maturi contenuti nello Zohar, ci si accorge dell'infon­datezza della tesi condivisa da autorevoli studiosi contemporanei quali, per esempio, Gershom Scholem e Isaia Tishby. La tesi è quella di una sostanziale ispirazione della Qabbalah ora al pen­siero mitopoietico degli gnostici ora al neoplatonismo, con conseguente allontanamento dalla più autentica tradizione ebraica, fondata sulla Torah (6) e sul Talmud. Esaminerò  il Sepher Yezirah o 'Libro della formazione' senza tuttavia avere la pretesa di ten­tarne una trattazione ben più ampia di quella che ci si propone in tale contesto.

  “L’indicibile”, colui del quale non è dato pronunciare il no­me, neppure nella forma del tetragramma (7), ha creato tutto con il numero, con la lettera e con la parola (8). Egli ha innanzi tutto creato le condizioni del molteplice che si fonda sui primi dieci numeri. Sephiroth (9) o numeri “beli-mah”(10) cioé autosufficienti per produrre il molteplice e l'uno viene dall'altro ma è in sé autosufficiente. Il dieci è l'ultima delle condizioni possibili del molteplice. In realtà, tali condizioni sono già esaurite con il numero nove,  il dieci altro non essendo che la riproposizione dell'unità colta non più come unità di misura  -fonte di ogni possibile numero -  bensì come la forma estrema in cui è dato cogliere il molteplice. Non a caso, nel dieci, all'uno si affianca lo zero, cioè il termine delle possibili radici della molteplicità. D’altra  par­te, dopo il dieci noi possiamo seguitare a contare all’infinito, perché infinito è il molteplice, anche se le forme della manife­stazione sono finite: i numeri che servono per contare all'in­finito sono solo i primi dieci e nel numero dieci, insieme alla ri­proposizione dell'unità, appare lo zero come nullificazione contin­gente dei fenomeni. Lo zero-nulla, dunque, non e il presupposto dell’esserci dell'Es­sere, perché, al contrario, è a partire dall'Essere che il nulla può manifestarsi, almeno a quanto è dato saperne.

  Se entro in una stanza e dico: 'Non c’è  nessuno' è perché mi aspetto di trovarci qualcuno e, invece, proprio sullo sfon­do di chi dovrebbe esserci, mi si manifesta la negazione come nullificazione contingente della presenza. In un certo senso, allora, il nulla è contenuto nell'essere come possibilità contingente del suo manifestarsi. II concetto si trova espresso in L'être et le néant di Jean Paul Sartre :

  “[...] il non-essere non è il contrario dell'es­sere, è la sua contraddizione. Ciò implica una posterità logica del nulla nei confronti dell'essere, perché esso è l'essere prima posto, poi negato”(op.cit., trad.it., I1 Saggiatore, Mila­no, 1964, p.50).

 La polemica di Sartre é soprattutto diretta con­tro Hegel per il quale il puro essere e il puro nulla coinci­dono, la concretezza risiedendo nel divenire. Hegel -osserva Sartre - non solo difende Eraclito contro Parmenide, ma impli­citamente combatte tutti coloro che fanno del nulla il vuoto dell’essere. Di contro a Parmenide e agli eleatici, Hegel sostiene che é impossibile che l'essere sia. II puro essere é l'indeter­minato e come tale non è che vuota astrazione, astrazione, d'al­tronde, è anche il puro nulla. La soluzione di Hegel non solo non è diversa da quella di Eraclito, ma ricorda anche le conclusioni paradossali del sofista Gorgia per il quale non solo non esiste il non-essere, ma non esiste neppure l'essere (Cfr., I Sofisti, frammenti e testimonianze, Laterza 2.a ed., Bari,1954, pp.57 e ss.). Vale forse la pena di riportare di seguito il noto passo hegeliano della Scienza della Logica (Laterza, Bari, I968, t.I,Lib.I,Sez.I,cap.I, pp. 70-7I):

  “A) ESSERE.  E s s e r e,  p u r o  e s s e r e, senza nessun'altra determinazione. Nella sua indeterminata im­mediatezza esso è simile soltanto a se stesso, ed anche non dissimile di fronte ad. altro; non ha alcuna diversità né den­tro di , né all’estemo. Con qualche determinazione o contenuto, che fosse diverso da lui, o per cui esso fosse posto come diverso da un altro, l'essere non sarebbe fissato nella sua purez­za. Esso è la pura indeterminatezza e il puro vuoto.
 Nell'essere non v'é nulla da intuire, se qui si può parlare di intuire, ovvero esso è questo puro, vuoto intuire stesso. Così non vi è nemmeno qualcosa da pensare, ovvero l'essere non é, anche qui, che questo vuoto pensare. L'essere, l'indeterminato immediato, nel fatto è   n u l l a   né più né meno che nulla. B) NULLA.  N u l l a,  il   p u r o  n u l l a.  E’semplice somiglianzà con sé, completa vuotezza, assenza di determinazione e di contenuto; indistinzione in se stesso. - Per quanto si può qui parlare di un in­tuire o di un pensare, si considera come differente, che s'intui­sca o si pensi qualcosa oppure nulla. Intuire o pensare nulla, ha dunque un significato. I due si distinguono; dunque il nulla è (esiste) nel nostro intuire o pensare, o piuttosto è lo stesso vuoto intuire o pensare ch'era il puro essere,, - II nulla è così la stessa determinazione o meglio assenza di determinazione, epperò in generale lo stesso che il puro essere. C) DIVENIRE. I. U n i t à  d i  e s s e r e  e  n u l l a. I l   p u r o  e s s e r e  e  i l  p u r o   n u l l a   s o n   d u n q u e  lo  s t e s s o. II vero non è né l'essere né il nulla, ma che l'es­sere - non passa - ma è passato, nel nulla, e il nulla nell'essere. In pari tempo però il vero non è la loro differenza, la loro in­distinzione, ma è anzi ch’essi non son lo stesso, ch'essi sono assolutamente diversi, ma insie­me anche inseparati e inseparabili, e che immediatamente  c i a­ s c u n o  d i  e s s i  s p a r i s c e  n e l  s u o  o p p o­ s t o. La verità dell'essere e del nulla è pertanto questo  m o v i m e n t o  consistente nell’immediato sparire dell'uno di essi nell’altro: il  d i v e n i r e : movimento in cui l'essere e il nulla son differenti, ma di una differenza che si è in pari tempo immediatamente risoluta”.

 In conclusione, dunque, per Sartre non solo essere e nulla non coincidono ma c’è addirittura una priorità ontica dell'essere sul nulla. Non si può porre, dunque, il nulla come “l'abisso originario donde l'essere nascerebbe”(cit.p.51). Interessante notare che L'être et le néant di Sartre appare per la prima volta in libreria nel 1945 circondato di una fascia pubblicitaria sulla quale era scritto: Ce qui compte dans un vase, c'est le vide du milieu (“Ciò che conta in un vaso, è il vuoto del mezzo”). L'espressione è in realtà di Lao Tze e la troviamo nel Tao-Tê-Ching: “Trenta raggi convergono nel mezzo. Ma è il vuoto del mozzo l'essenziale della ruota. I vasi son fatti di argilla. Ma è il vuoto interno che fa l'essenza del vaso. Mura con finestre e porte formano una casa. Ma è il vuoto di essi che ne fa l’essenza. In genere: l'esse­re serve come mezzo utile. Nel non-essere (nel vuoto) sta l'es­senza”(Cfr.Lao Tze, Il libro del principio e della sua azione, trad.it.,Ceschina, Milano, I959, p.62). Per Sartre 'questo vuoto' è l'uomo, il solo che, nella sua libertà, è in grado di interrogarsi sull'essere al di dentro dell'essere stesso. L'ontologia di Sartre, del resto, segue da presso l'ontolo­gia di Heidegger. In Was ist Metaphysik? (Frankfurt, l929), il filosofo tedesco si occupa principalmente del problema del nulla e dell'analisi dell'angoscia rivelatrice di questo nulla: il nul­la non è il di fuori dell'essere, ma la condizione che rende possi­bile, al di dentro dell'essere, la rivelazione dell'essere stesso. In Einfuhrung in die Metaphysik (Tubingen, I953), scritto che racco­glie le lezioni tenute presso l'Università di Friburgo nel I935, il filosofo tedesco traccia in quattro capitoli la storia della metafisica, rilevando come la metafisica classica, tralascian­do deliberatamente il problema del nulla con la motivazione che il nulla    n o n   è    semplicemente, abbia finito con l'occuparsi esclusivamente di ciò che è, snaturando il problema dell'essere in generale, sino a determinarne gradatamente l'oblio e facendo dell'essere niente altro che una nozione ovvia e una parola vuo­ta. Questo oblio del senso dell'essere costituisce il nostro destino e si comprende alla luce del nostro essere nel mondo: l'essere umano non è altro che un' apertura in direzione di tutto ciò che è. Come si vede, Sartre, pur partendo dai presupposti della metafi­sica orientale (taoismo), perviene, rovesciando il senso dell'af­fermazione di Lao Tze, alle conclusioni della metafisica occiden­tale (eleatismo).

 Quando parliamo del nulla, dunque, lo facciamo sempre con riferimento all’esperienza sensibile dell’assenza, della mancanza, dell'annientamento. Di esso possiamo dire soltanto che rappresenta una breve in­terruzione nel flusso dell’essere: quella stanza che ho trova­to vuota, presto tornerà ad animarsi di presenze. Di un altro nulla, non siamo autorizzati a parlare, per­ché non ne sappiamo niente e, di tutto ciò che non si sa, convie­ne tacere - ammonisce Wittgenstein - (11). Ecco, persino quando dico: “del nulla non so niente”, mi accorgo come il nulla si riveli alla superficie dell'essere: non so nulla, cioè, di ciò che dovrei sapere. A tale proposito molto chiaramente si esprime lo Yezirah: “E prima dell'uno che numero puoi tu contare?”(12), si chiede polemicamente al presuntuoso lettore che intendesse iniziare a contare dallo zero. In conclusione, dunque, lo zero-nulla non è né fine né principio. In successivi testi cabbalistici questo zero-nulla diviene l’ “Ain” di “Ain-Soph ”, concetto, questo, spesso erroneamente assimilato all' “Apeiron” di Anassimandro. In realtà, l’a-peiron del pensatore ionico è il “senza-limite”, dall'alfa privativo greco che indica la negazione, ed esprime il caos originario della materia, la mescolanza primigenia di tut­te le cose. L’"Ain" ebraico, composto dalle lettere Alef-Yud-Nun, invece, non è privativo di qualità ma di luogo: “Ain-Soph” indica perciò l'impossibilità di cogliere l'origine e il fine, oltre ciò che è manifesto (il 'fenomeno' kantiano), e ha solo la funzione di far desistere il pensiero dalla pretesa prometeica di voler essere dappertutto e tutto risolvere in se stesso. “Ain-Soph” nel suo significato originario ed essenziale ricorda il 'noumeno' di Kant. La fine è impossibile da coglie­re: i fenomeni che derivano dai primi dieci numeri sono infi­niti. Il principio è ugualmente fuori portata. Non solo perché non è lecito iniziare a contare dallo zero, ma anche perché, come vedremo più avanti, 'In principio è il due'. Il Sepher Yezirah esprime questo concetto in tre punti: “Dieci sephiroth beli mah, la loro qualità è dieci e non hanno fine”(13).  “Dieci sephiroth beli mah, il loro aspetto e l’aspetto della folgore e la loro direzione non ha fine” (14). “Dieci sephiroth beli mah”, è insita la loro fine nel loro principio ed il loro principio nella loro fine”(15).  [SEGUE]

sergio magaldi

(1) Libro della Creazione. Per la bibliografia e per la data di composizione che, secondo gli studiosi, oscilla tra il II e il VI secolo d.G. , cfr. G.C.Scholem Le Origini della Kabbalà, Bologna,1990, pp.32-44. Per i contenuti si rinvia allo stes­so volume nonché a G.C. Scholem, La Cabala, Roma,1989,pp.14, 30-61,70-72, 96, 101 e ss.
(2) Opera della Creazione. Cosmologia mistica dell'epoca della creazione il cui insegnamento era riservato solo a pochi eletti.
(3) Talmud , “insegnamento”. Raccolta enciclopedica della tradizione giudaica, compilata durante un periodo di circa ottocento anni, dal 300 a.C. al 500 d.C. , in Palestina e in Babilonia. Si compo­ne di norme legali (halakhah) e di materiale narrativo di vario genere (haggadah).
(4) Libro Fulgido. Opera che secondo molti autori rovescia la tesi dello Scholem circa la derivazione della tradizione ebraico-cabbalistica dallo Gnosticismo, testimoniando piuttosto come il pensiero gnostico nasca dalle “sette ebree” [Esseni, Samaritani, Elkesaiti ecc…] che si distaccarono dall’ebraismo con violente polemiche.
(5) Libro dello Splendore. Opera centrale e vastissima della letteratura cabbalistica. Si compone di 24 sezioni e di pagine sciolte.
(6) La tradizione distingue una Torah scritta formata dai libri del Pentateuco [Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio] da una Torah orale tramandata dalla “ecclesia” di Israele come necessaria integrazione e concretizzazione della Torah scritta.
(7) Indicibile nome di Dio nella manifestazione. Si compone della decima, quinta, sesta e ancora quinta delle lettere dell’alfabeto ebraico.
(8) Cfr., Sepher Yezirah, cap.I-1°
(9) Tradotto spesso con “emanazioni”, facendolo derivare dal greco. Ciò che confermerebbe l'influenza del neoplatonismo sulla Cabbalah. In realtà il termine viene dall’ebraico “sphr”, contare. Cfr.Sepher Yezirah, a cura di G.Toaff, Carucci, Roma, 1988, Cap. 1-2, p. 34, nota 5.
La letteratura cabbalistica colloca i dieci sephiroth sui tre pilastri dell'albero della vita. Ad ogni sephirah o forma del molteplice è attribuito un nome.
(10) Nel significato letterale, dall'ebraico beli, senza, e mah, cosa. È  un chiaro riferimento all'astrattezza dei sephiroth, al loro essere mere forme e niente altro.
(11) 'Quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere'.
(Cfr.L.Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, cap.I )
(12) Sepher Yezirah, cit., cap.1-7, p.39, nota 20 compresa
(13) Ibid., cap. 1-5, p.37
(14) Ibid., cap. 1-6, p.38
(15) Ibid., cap. 1-7, p.39



lunedì 5 ottobre 2015

PER AMOR VOSTRO

Per amor vostro, regia di Giuseppe Gaudino, Italia-Francia, settembre 2015, 110 minuti

  
  Tra soap opera e melodramma, Per amor vostro racconta la storia di Anna, una “capasciacqua”, come sussurra il canto – illustrato nel linguaggio iconico della migliore tradizione dei “madonnari” – che, con l’intento etico e didascalico del cantastorie, regge il filo della narrazione. Ma capasciacqua, non significa – come si potrebbe pensare – una testa vuota, è bensì una testa piena d’acqua, tradita dalle emozioni e dalle illusioni che le impediscono di usare la mente e di vedere. Accorgersi che la vita le è scivolata via poco a poco e che per compiacere gli altri e/o per “necessità e convenienza” è precipitata in un inferno, diventando “na’ cosa ‘e niente”, non è ancora sufficiente. Perché Anna trasformi la sua consapevolezza in affrancamento e riscatto occorre un evento drammatico definitivo e del quale non possa più dire a se stessa che è na’ cosa ‘e niente, ma più di tutto ha bisogno di un miracolo, sempre possibile nella religiosità popolare della città e dell’ambiente in cui vive: una Napoli colta nel bianco e nero delle sue inquietanti penombre, e solo a tratti, nel colore denso dei suoi incubi e del suo naturale splendore.

 Solo una grande attrice come Valeria Golino poteva interpretare un ruolo tanto impegnativo che la vede in scena quasi ininterrottamente e che le consegna, a giusto titolo, la coppa Volpi, quale migliore attrice della 72.ma Mostra del Cinema di Venezia.

 Il film di Giuseppe Gaudino non è semplicemente una “storia napoletana”, un romanzo popolare dove i protagonisti mettono a nudo le proprie passioni per darle in pasto ad un pubblico di bocca buona e ansioso di riflettersi come in uno specchio: una donna educata sin da bambina per essere una vittima, lacerata più tardi dall’amore per i figli adolescenti, da un  ingiustificato complesso di colpa verso i genitori, da coraggio e senso della giustizia soffocati per opportunismo, dall’affetto tradito di un marito prepotente, manesco e malavitoso [più che realistico Max Gallo nei panni del marito di Anna], dall’illusione di un amore da fotoromanzo con un narciso che ha il vizio del gioco [efficace l’interpretazione di Adriano Giannini].









 La vicenda di Anna è qualcosa di più, nella presa di coscienza di una dignità come persona e come donna, nel coraggio che le fa riprendere in mano il filo della propria vita, nella disperazione che la spinge sull’orlo dell’ultimo sacrificio, più che per volontà di annientamento, per ritrovare un periodo dell’infanzia in cui non aveva ancora paura di “volare”.

 Un linguaggio scarno, uno stile discutibile e dove gli effetti speciali si integrano raramente, una trama esile, un ritmo lento, se si escludono le accelerazioni finali, un film forse troppo lungo e dove, a tratti, c’è anche il rischio di annoiarsi, ma anche e soprattutto un messaggio lucido e realistico, per contrasto espresso quasi in forma di favola, che viaggia sulle ali di una grande attrice.


sergio magaldi 

venerdì 2 ottobre 2015

ROMA calcio: un organico da scudetto?




 La voce che gira nella capitale, tra media, addetti ai lavori e tifosi, è che la Roma abbia un organico da scudetto ma che, per colpa di Garcia, dopo due secondi posti consecutivi, non sarà possibile vincere neppure quest’anno. 

 La scelta di schierare una formazione “sbilanciata” contro il Bate Borisov sarebbe l’ultima “colpa” dell’allenatore francese e, a sostegno della tesi, si sottolinea che nel secondo tempo, riequilibrata la squadra, i giallorossi hanno rimontato due dei tre goal subiti nel primo tempo, pur non riuscendo ad evitare la sconfitta di misura. Ciò che si dimentica di aggiungere è che la “trasformazione” della Roma nei secondi quarantacinque minuti si deve probabilmente, oltre al cosiddetto riequilibrio, anche al fatto che i bielorussi, in vantaggio di tre reti e che avevano corso in modo forsennato per tutto il primo tempo, abbiano risentito di un calo di forze, lasciando l’iniziativa alla Roma e limitandosi solo a poche “ripartenze”.

 Non c’è dubbio che Garcia abbia qualche responsabilità nelle scelte iniziali dell’ultima partita. Gli viene rimproverato di aver schierato in porta Szczesny [non certo “innocente” su due dei tre goal subiti], reduce da un infortunio, e non De Sanctis che nelle ultime partite si era mosso discretamente tra i pali. Bene, è facile indovinare le critiche con un risultato altrettanto negativo: perché – si sarebbe detto – lasciar fuori il portiere della nazionale polacca, ormai ristabilito? Un secondo errore sarebbe aver utilizzato Florenzi come terzino [non era la prima volta che giocava, anche positivamente, in quel ruolo] e un terzo errore l’impiego di Iturbe [non è il giocatore pagato 30 milioni e che doveva essere ceduto al Genoa, poi restato nella capitale per “intercessione” dei tifosi?]. In realtà, l’ingenuità di Garcia è stata quella di credere in quel che scrivevano i giornali: il Bate Borisov era la cenerentola del girone. Dunque, lo si poteva affrontare con un 4-3-3 esageratamente offensivo, tenuto anche conto delle momentanee carenze di organico. Siamo sicuri che queste carenze dipendano unicamente dai recenti infortuni? Diamo uno sguardo al cosiddetto organico da scudetto nonché alla “lussuosa” campagna acquisti e vendite della scorsa estate.

 In porta, oltre ai due citati sopra, la Roma dispone di Lobont e di Pop. In difesa, al posto dei 3 centrali ceduti [Astori, Romagnoli e  Yanga-Mbiwa] è arrivato il solo Rüdiger che, visto all’opera, di sicuro non è superiore a nessuno dei tre. Castán continua a essere inutilizzabile, Holebas parte e al suo posto arriva Digne, più tecnico e più offensivo, certo, ma è presto per dire se sia anche più efficace. Arrivano in difesa anche Emerson, Gyomber, Anocic e Capradossi per ora “oggetti” misteriosi che vanno ad aggiungersi ai tanti altri acquisti della Roma delle ultime stagioni, e mai visti giocare. Unica novità del centrocampo: Vainqueur, mentre Strootman probabilmente non giocherà per tutto il campionato, se ne vanno Viviani, Bertolacci, Marquinho e Paredes. In attacco, partiti Politano, Verde, Doumbia, Destro, Sanabria, Ibarbo e Ljajic, arrivano Falque, Dzeko e Salah.

 Se ora analizziamo lo schieramento titolare o dei possibili titolari si vede bene che la Roma dispone di un solo terzino sinistro [Digne], di un terzino destro [Torosidis] + Maicon [impiegato solo saltuariamente], due centrali [Manolas e Rüdiger] + Castan [non ancora utilizzabile per condizione fisica]. Al centrocampo può contare su Nainggolan, Pjanic, De Rossi, Keita, Florenzi, Vainqueur, Uçan. Ma per la scarsità dei difensori, De Rossi gioca centrale difensivo o come difensore aggiunto davanti alla difesa e Florenzi come terzino destro, Uçan e Vainqueur hanno giocato solo pochi minuti,  e persino Nainggolan è stato costretto a giocare in un ruolo non suo [difensore aggiunto] per ulteriori carenze di organico dovute ai vari infortuni . In attacco, la Roma dispone di una sola punta che non è un fuoriclasse, come si è cercato e si cerca di far credere, ma solo un buon giocatore [Dzeko, attualmente infortunato], di un esterno alto [Gervinho] e di tre mezze punte o trequartisti [Salah, Iago Falque, Iturbe], oltre naturalmente a Totti [infortunato per almeno due mesi].

 Se questa è una squadra da scudetto, allora io non capisco nulla di calcio. Se non lo è, allora si smetta di gettare la croce su Garcia per coprire le responsabilità di una dirigenza che, oltretutto, deve anche farsi perdonare per la maglia della trasferta di Champions. Color topo [ma nelle intenzioni, grigia come la lupa del Campidoglio] e senza nulla che ricordi a prima vista la Roma, con bordi neri che, nel contrasto con il grigio, a molti tifosi ha dato l’effetto di una maglia bianconera… Quanto mai inopportune le notizie che circolano. Arriva Montella? Non credo, perché oltre a pagare lo stipendio all’attuale allenatore sino al 2018, si dovrebbe “compensare” la Fiorentina con cinque milioni. Forse Lippi. Che ci faceva allo stadio qualche domenica fa, spettatore di un incontro casalingo dei giallorossi contro una provinciale? Le voci sul prossimo arrivo di un nuovo allenatore destabilizzano Garcia, rischiando di aumentarne la confusione.

sergio magaldi