Nel suo
stile stringato ed essenziale, il Sepher Yezirah (1) costituisce per
così dire il “nucleo metafisico” della Qabbalah. Il Sepher Yezirah si
ispira al Ma'aseh Bereshith (2) della tradizione talmudica (3), essendo
sostanzialmente un commento del I° Capitolo del Genesi. Non c'è testo
della complessa letteratura cabbalistica, dal
Sepher Bahir (4) al Sepher ha Zohar (5) che non ne abbia
ripreso i concetti sotto forma di commentari o di opere più originali. Ciò ha
comportato spesso uno stravolgimento di senso, con interpolazioni dottrinarie
suggerite dalle condizioni storiche e ambientali, senza riuscire, tuttavia, ad
intaccare quello che appare come il nucleo essenziale della Qabbalah.
Guardando a questo nucleo e ai suoi svolgimenti più maturi contenuti nello
Zohar, ci si accorge dell'infondatezza della tesi condivisa da autorevoli
studiosi contemporanei quali, per esempio, Gershom Scholem e Isaia Tishby. La
tesi è quella di una sostanziale ispirazione della Qabbalah ora al pensiero
mitopoietico degli gnostici ora al neoplatonismo, con conseguente
allontanamento dalla più autentica tradizione ebraica, fondata sulla Torah
(6) e sul Talmud. Esaminerò il Sepher Yezirah o 'Libro della
formazione' senza tuttavia avere la pretesa di tentarne una trattazione ben
più ampia di quella che ci si propone in tale contesto.
“L’indicibile”, colui del quale non è dato
pronunciare il nome, neppure nella forma del tetragramma (7), ha creato tutto
con il numero, con la lettera e con la parola (8). Egli ha innanzi tutto creato
le condizioni del molteplice che si fonda sui primi dieci numeri. Sephiroth (9)
o numeri “beli-mah”(10) cioé autosufficienti per produrre il molteplice e l'uno
viene dall'altro ma è in sé autosufficiente. Il dieci è l'ultima delle condizioni
possibili del molteplice. In realtà, tali condizioni sono già esaurite con il
numero nove, il dieci altro non essendo
che la riproposizione dell'unità colta non più come unità di misura -fonte di ogni possibile numero - bensì come la forma estrema in cui è dato
cogliere il molteplice. Non a caso, nel dieci, all'uno si affianca lo zero,
cioè il termine delle possibili radici della molteplicità. D’altra parte, dopo il dieci noi possiamo seguitare
a contare all’infinito, perché infinito è il molteplice, anche se le forme
della manifestazione sono finite: i numeri che servono per contare all'infinito
sono solo i primi dieci e nel numero dieci, insieme alla riproposizione
dell'unità, appare lo zero come nullificazione contingente dei fenomeni. Lo zero-nulla,
dunque, non e il presupposto dell’esserci dell'Essere, perché, al contrario, è
a partire dall'Essere che il nulla può manifestarsi, almeno a quanto è dato
saperne.
Se entro in
una stanza e dico: 'Non c’è nessuno' è
perché mi aspetto di trovarci qualcuno e, invece, proprio sullo sfondo di chi
dovrebbe esserci, mi si manifesta la negazione come nullificazione contingente
della presenza. In un certo senso, allora, il nulla è contenuto nell'essere
come possibilità contingente del suo manifestarsi. II concetto si trova
espresso in L'être et le néant di Jean Paul Sartre :
“[...] il non-essere non è il contrario
dell'essere, è la sua contraddizione. Ciò implica una posterità logica del
nulla nei confronti dell'essere, perché esso è l'essere prima posto, poi
negato”(op.cit., trad.it., I1 Saggiatore,
Milano, 1964, p.50).
La polemica
di Sartre é soprattutto diretta contro Hegel per il quale il puro essere e il
puro nulla coincidono, la concretezza risiedendo nel divenire. Hegel -osserva
Sartre - non solo difende Eraclito contro Parmenide, ma implicitamente
combatte tutti coloro che fanno del nulla il vuoto dell’essere. Di contro a
Parmenide e agli eleatici, Hegel sostiene che é impossibile che l'essere sia. II
puro essere é l'indeterminato e come tale non è che vuota astrazione,
astrazione, d'altronde, è anche il puro nulla. La soluzione di Hegel non solo
non è diversa da quella di Eraclito, ma ricorda anche le conclusioni
paradossali del sofista Gorgia per il quale non solo non esiste il non-essere,
ma non esiste neppure l'essere (Cfr., I Sofisti, frammenti e
testimonianze, Laterza 2.a ed., Bari,1954, pp.57 e ss.). Vale forse la pena di riportare di seguito il
noto passo hegeliano della Scienza della Logica (Laterza,
Bari, I968, t.I,Lib.I,Sez.I,cap.I, pp. 70-7I):
“A) ESSERE.
E s s e r e, p u r o e s s e r e, senza nessun'altra
determinazione. Nella sua indeterminata immediatezza esso è simile soltanto a
se stesso, ed anche non dissimile di fronte ad. altro; non ha alcuna diversità
né dentro di sé, né all’estemo. Con qualche determinazione o
contenuto, che fosse diverso da lui, o per cui esso fosse posto come diverso da
un altro, l'essere non sarebbe fissato nella sua purezza. Esso è la pura
indeterminatezza e il puro vuoto.
Nell'essere non v'é nulla da intuire, se qui
si può parlare di intuire, ovvero esso è questo puro, vuoto intuire stesso.
Così non vi è nemmeno qualcosa da pensare, ovvero l'essere non é, anche qui,
che questo vuoto pensare. L'essere, l'indeterminato immediato, nel fatto è n u l l a
né più né meno che nulla. B) NULLA.
N u l l a, il p u r o
n u l l a. E’semplice somiglianzà
con sé, completa vuotezza, assenza di determinazione e di contenuto;
indistinzione in se stesso. - Per quanto si può qui parlare di un intuire o di
un pensare, si considera come differente, che s'intuisca o si pensi qualcosa
oppure nulla. Intuire o pensare nulla, ha dunque un significato. I due si
distinguono; dunque il nulla è (esiste) nel nostro intuire o pensare, o
piuttosto è lo stesso vuoto intuire o pensare ch'era il puro essere,, -
II nulla è così la stessa determinazione o meglio assenza di determinazione,
epperò in generale lo stesso che il puro essere. C) DIVENIRE. I. U n i t à d i e
s s e r e e n u l l a. I l p u r o
e s s e r e e i l p
u r o n u l l a s o n
d u n q u e lo s t e s s o. II vero non è né l'essere né il
nulla, ma che l'essere - non passa - ma è passato, nel nulla, e il nulla
nell'essere. In pari tempo però il vero non è la loro differenza, la loro indistinzione,
ma è anzi ch’essi non son lo stesso, ch'essi sono assolutamente diversi, ma
insieme anche inseparati e inseparabili, e che immediatamente c i a s c u n o d i e
s s i s p a r i s c e n e l
s u o o p p o s t o. La verità
dell'essere e del nulla è pertanto questo
m o v i m e n t o consistente
nell’immediato sparire dell'uno di essi nell’altro: il d i v e n i r e : movimento in cui
l'essere e il nulla son differenti, ma di una differenza che si è in pari tempo
immediatamente risoluta”.
In
conclusione, dunque, per Sartre non solo essere e nulla non coincidono ma c’è
addirittura una priorità ontica dell'essere sul nulla. Non si può porre,
dunque, il nulla come “l'abisso originario donde l'essere nascerebbe”(cit.p.51).
Interessante notare che L'être et le néant di Sartre appare per la prima
volta in libreria nel 1945 circondato di una fascia pubblicitaria sulla quale
era scritto: Ce qui compte dans un vase, c'est le vide du milieu (“Ciò
che conta in un vaso, è il vuoto del mezzo”). L'espressione è in realtà di Lao
Tze e la troviamo nel Tao-Tê-Ching: “Trenta raggi convergono nel mezzo.
Ma è il vuoto del mozzo l'essenziale della ruota. I vasi son fatti di argilla.
Ma è il vuoto interno che fa l'essenza del vaso. Mura con finestre e porte
formano una casa. Ma è il vuoto di essi che ne fa l’essenza. In genere: l'essere
serve come mezzo utile. Nel non-essere (nel vuoto) sta l'essenza”(Cfr.Lao Tze, Il libro del
principio e della sua azione, trad.it.,Ceschina, Milano, I959, p.62). Per Sartre 'questo vuoto' è l'uomo, il solo che,
nella sua libertà, è in grado di interrogarsi sull'essere al di dentro
dell'essere stesso. L'ontologia di Sartre, del resto, segue da presso l'ontologia
di Heidegger. In Was ist Metaphysik? (Frankfurt, l929), il filosofo
tedesco si occupa principalmente del problema del nulla e dell'analisi
dell'angoscia rivelatrice di questo nulla: il nulla non è il di fuori
dell'essere, ma la condizione che rende possibile, al di dentro dell'essere,
la rivelazione dell'essere stesso. In Einfuhrung in die Metaphysik (Tubingen, I953), scritto che
raccoglie le lezioni tenute presso l'Università di Friburgo nel I935, il
filosofo tedesco traccia in quattro capitoli la storia della metafisica,
rilevando come la metafisica classica, tralasciando deliberatamente il
problema del nulla con la motivazione che il nulla n o n
è semplicemente, abbia finito
con l'occuparsi esclusivamente di ciò che è, snaturando il problema dell'essere
in generale, sino a determinarne gradatamente l'oblio e facendo dell'essere
niente altro che una nozione ovvia e una parola vuota. Questo oblio del senso
dell'essere costituisce il nostro destino e si comprende alla luce del nostro essere nel
mondo: l'essere umano non è altro che un' apertura
in direzione di tutto ciò che è. Come si vede, Sartre, pur partendo dai
presupposti della metafisica orientale (taoismo), perviene, rovesciando il
senso dell'affermazione di Lao Tze, alle conclusioni della metafisica occidentale
(eleatismo).
Quando parliamo
del nulla, dunque, lo facciamo sempre con riferimento all’esperienza sensibile
dell’assenza, della mancanza, dell'annientamento. Di esso possiamo dire
soltanto che rappresenta una breve interruzione nel flusso dell’essere: quella
stanza che ho trovato vuota, presto tornerà ad animarsi di presenze. Di un
altro nulla, non siamo autorizzati a parlare, perché non ne sappiamo niente e,
di tutto ciò che non si sa, conviene tacere - ammonisce Wittgenstein - (11).
Ecco, persino quando dico: “del nulla non so niente”, mi accorgo come il
nulla si riveli alla superficie dell'essere: non so nulla, cioè, di ciò che
dovrei sapere. A tale proposito molto chiaramente si esprime lo Yezirah:
“E prima dell'uno che numero puoi tu contare?”(12), si chiede polemicamente al
presuntuoso lettore che intendesse iniziare a contare dallo zero. In
conclusione, dunque, lo zero-nulla non è né fine né principio. In successivi
testi cabbalistici questo zero-nulla diviene l’ “Ain” di “Ain-Soph ”, concetto,
questo, spesso erroneamente assimilato all' “Apeiron” di Anassimandro. In
realtà, l’a-peiron del pensatore ionico è il “senza-limite”, dall'alfa
privativo greco che indica la negazione, ed esprime il caos originario della
materia, la mescolanza primigenia di tutte le cose. L’"Ain" ebraico,
composto dalle lettere Alef-Yud-Nun, invece, non è privativo di qualità ma di
luogo: “Ain-Soph” indica perciò l'impossibilità di cogliere l'origine e il
fine, oltre ciò che è manifesto (il 'fenomeno' kantiano), e ha solo la funzione
di far desistere il pensiero dalla pretesa prometeica di voler essere
dappertutto e tutto risolvere in se stesso. “Ain-Soph” nel suo significato
originario ed essenziale ricorda il 'noumeno' di Kant. La fine è impossibile da
cogliere: i fenomeni che derivano dai primi dieci numeri sono infiniti. Il
principio è ugualmente fuori portata. Non solo perché non è lecito iniziare a
contare dallo zero, ma anche perché, come vedremo più avanti, 'In principio è
il due'. Il Sepher Yezirah esprime questo concetto in tre punti: “Dieci sephiroth
beli mah, la loro qualità è dieci e non hanno fine”(13). “Dieci sephiroth beli mah, il loro
aspetto e l’aspetto della folgore e la loro direzione non ha fine” (14). “Dieci
sephiroth beli mah”, è insita la loro fine nel loro principio ed il loro
principio nella loro fine”(15). [SEGUE]
sergio
magaldi
(1) Libro della Creazione. Per la bibliografia e per la
data di composizione che, secondo gli studiosi, oscilla tra il II e il VI
secolo d.G. , cfr. G.C.Scholem Le Origini della Kabbalà, Bologna,1990,
pp.32-44. Per i contenuti si rinvia allo stesso volume nonché a G.C. Scholem, La
Cabala, Roma,1989,pp.14, 30-61,70-72, 96, 101 e ss.
(2) Opera della Creazione. Cosmologia mistica dell'epoca della
creazione il cui insegnamento era riservato solo a pochi eletti.
(3) Talmud , “insegnamento”. Raccolta enciclopedica della
tradizione giudaica, compilata durante un periodo di circa ottocento anni, dal 300 a .C. al 500 d.C. , in
Palestina e in Babilonia. Si compone di norme legali (halakhah) e di
materiale narrativo di vario genere (haggadah).
(4) Libro Fulgido. Opera che secondo molti autori rovescia la
tesi dello Scholem circa la derivazione della tradizione ebraico-cabbalistica
dallo Gnosticismo, testimoniando piuttosto come il pensiero gnostico nasca
dalle “sette ebree” [Esseni, Samaritani, Elkesaiti ecc…] che si distaccarono
dall’ebraismo con violente polemiche.
(5) Libro dello Splendore. Opera centrale e vastissima della
letteratura cabbalistica. Si compone di 24 sezioni e di pagine sciolte.
(6) La tradizione distingue una Torah scritta formata dai libri
del Pentateuco [Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio] da una Torah
orale tramandata dalla “ecclesia” di Israele come necessaria integrazione e
concretizzazione della Torah scritta.
(7) Indicibile nome di Dio nella
manifestazione. Si compone della decima, quinta, sesta e ancora quinta delle
lettere dell’alfabeto ebraico.
(8) Cfr., Sepher Yezirah,
cap.I-1°
(9) Tradotto spesso con “emanazioni”, facendolo derivare dal greco.
Ciò che confermerebbe l'influenza del neoplatonismo sulla Cabbalah. In realtà
il termine viene dall’ebraico “sphr”, contare. Cfr.Sepher Yezirah, a
cura di G.Toaff, Carucci, Roma, 1988, Cap. 1-2, p. 34, nota 5.
La letteratura cabbalistica colloca i dieci sephiroth sui tre
pilastri dell'albero della vita. Ad ogni sephirah o forma del molteplice è
attribuito un nome.
(10) Nel significato letterale, dall'ebraico beli, senza, e mah,
cosa. È un chiaro riferimento
all'astrattezza dei sephiroth, al loro essere mere forme e niente altro.
(11) 'Quanto può dirsi, si può dir
chiaro; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere'.
(Cfr.L.Wittgenstein, Tractatus
logico-philosophicus, cap.I )
(12) Sepher Yezirah, cit., cap.1-7, p.39, nota 20 compresa
(13) Ibid., cap. 1-5, p.37
(14) Ibid., cap. 1-6, p.38
(15) Ibid., cap. 1-7, p.39
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