domenica 18 ottobre 2015

Essere, Nulla e Manifestazione nella metafisica occidentale e nella Qabbalah. [Prima parte]




  Nel suo stile stringato ed essenziale, il Sepher Yezirah (1) costituisce per così dire il “nucleo metafisico” della Qabbalah. Il Sepher Yezirah si ispira al Ma'aseh Bereshith (2) della tra­dizione talmudica (3), essendo sostanzialmente un commento del I° Capi­tolo del Genesi. Non c'è testo della complessa letteratura cabbalistica, dal  Sepher Bahir (4) al Sepher ha Zohar (5) che non ne abbia ripreso i concetti sotto forma di commentari o di opere più originali. Ciò ha comportato spesso uno stravolgimen­to di senso, con interpolazioni dottrinarie suggerite dalle condi­zioni storiche e ambientali, senza riuscire, tuttavia, ad intacca­re quello che appare come il nucleo essenziale della Qabbalah. Guardando a questo nucleo e ai suoi svol­gimenti più maturi contenuti nello Zohar, ci si accorge dell'infon­datezza della tesi condivisa da autorevoli studiosi contemporanei quali, per esempio, Gershom Scholem e Isaia Tishby. La tesi è quella di una sostanziale ispirazione della Qabbalah ora al pen­siero mitopoietico degli gnostici ora al neoplatonismo, con conseguente allontanamento dalla più autentica tradizione ebraica, fondata sulla Torah (6) e sul Talmud. Esaminerò  il Sepher Yezirah o 'Libro della formazione' senza tuttavia avere la pretesa di ten­tarne una trattazione ben più ampia di quella che ci si propone in tale contesto.

  “L’indicibile”, colui del quale non è dato pronunciare il no­me, neppure nella forma del tetragramma (7), ha creato tutto con il numero, con la lettera e con la parola (8). Egli ha innanzi tutto creato le condizioni del molteplice che si fonda sui primi dieci numeri. Sephiroth (9) o numeri “beli-mah”(10) cioé autosufficienti per produrre il molteplice e l'uno viene dall'altro ma è in sé autosufficiente. Il dieci è l'ultima delle condizioni possibili del molteplice. In realtà, tali condizioni sono già esaurite con il numero nove,  il dieci altro non essendo che la riproposizione dell'unità colta non più come unità di misura  -fonte di ogni possibile numero -  bensì come la forma estrema in cui è dato cogliere il molteplice. Non a caso, nel dieci, all'uno si affianca lo zero, cioè il termine delle possibili radici della molteplicità. D’altra  par­te, dopo il dieci noi possiamo seguitare a contare all’infinito, perché infinito è il molteplice, anche se le forme della manife­stazione sono finite: i numeri che servono per contare all'in­finito sono solo i primi dieci e nel numero dieci, insieme alla ri­proposizione dell'unità, appare lo zero come nullificazione contin­gente dei fenomeni. Lo zero-nulla, dunque, non e il presupposto dell’esserci dell'Es­sere, perché, al contrario, è a partire dall'Essere che il nulla può manifestarsi, almeno a quanto è dato saperne.

  Se entro in una stanza e dico: 'Non c’è  nessuno' è perché mi aspetto di trovarci qualcuno e, invece, proprio sullo sfon­do di chi dovrebbe esserci, mi si manifesta la negazione come nullificazione contingente della presenza. In un certo senso, allora, il nulla è contenuto nell'essere come possibilità contingente del suo manifestarsi. II concetto si trova espresso in L'être et le néant di Jean Paul Sartre :

  “[...] il non-essere non è il contrario dell'es­sere, è la sua contraddizione. Ciò implica una posterità logica del nulla nei confronti dell'essere, perché esso è l'essere prima posto, poi negato”(op.cit., trad.it., I1 Saggiatore, Mila­no, 1964, p.50).

 La polemica di Sartre é soprattutto diretta con­tro Hegel per il quale il puro essere e il puro nulla coinci­dono, la concretezza risiedendo nel divenire. Hegel -osserva Sartre - non solo difende Eraclito contro Parmenide, ma impli­citamente combatte tutti coloro che fanno del nulla il vuoto dell’essere. Di contro a Parmenide e agli eleatici, Hegel sostiene che é impossibile che l'essere sia. II puro essere é l'indeter­minato e come tale non è che vuota astrazione, astrazione, d'al­tronde, è anche il puro nulla. La soluzione di Hegel non solo non è diversa da quella di Eraclito, ma ricorda anche le conclusioni paradossali del sofista Gorgia per il quale non solo non esiste il non-essere, ma non esiste neppure l'essere (Cfr., I Sofisti, frammenti e testimonianze, Laterza 2.a ed., Bari,1954, pp.57 e ss.). Vale forse la pena di riportare di seguito il noto passo hegeliano della Scienza della Logica (Laterza, Bari, I968, t.I,Lib.I,Sez.I,cap.I, pp. 70-7I):

  “A) ESSERE.  E s s e r e,  p u r o  e s s e r e, senza nessun'altra determinazione. Nella sua indeterminata im­mediatezza esso è simile soltanto a se stesso, ed anche non dissimile di fronte ad. altro; non ha alcuna diversità né den­tro di , né all’estemo. Con qualche determinazione o contenuto, che fosse diverso da lui, o per cui esso fosse posto come diverso da un altro, l'essere non sarebbe fissato nella sua purez­za. Esso è la pura indeterminatezza e il puro vuoto.
 Nell'essere non v'é nulla da intuire, se qui si può parlare di intuire, ovvero esso è questo puro, vuoto intuire stesso. Così non vi è nemmeno qualcosa da pensare, ovvero l'essere non é, anche qui, che questo vuoto pensare. L'essere, l'indeterminato immediato, nel fatto è   n u l l a   né più né meno che nulla. B) NULLA.  N u l l a,  il   p u r o  n u l l a.  E’semplice somiglianzà con sé, completa vuotezza, assenza di determinazione e di contenuto; indistinzione in se stesso. - Per quanto si può qui parlare di un in­tuire o di un pensare, si considera come differente, che s'intui­sca o si pensi qualcosa oppure nulla. Intuire o pensare nulla, ha dunque un significato. I due si distinguono; dunque il nulla è (esiste) nel nostro intuire o pensare, o piuttosto è lo stesso vuoto intuire o pensare ch'era il puro essere,, - II nulla è così la stessa determinazione o meglio assenza di determinazione, epperò in generale lo stesso che il puro essere. C) DIVENIRE. I. U n i t à  d i  e s s e r e  e  n u l l a. I l   p u r o  e s s e r e  e  i l  p u r o   n u l l a   s o n   d u n q u e  lo  s t e s s o. II vero non è né l'essere né il nulla, ma che l'es­sere - non passa - ma è passato, nel nulla, e il nulla nell'essere. In pari tempo però il vero non è la loro differenza, la loro in­distinzione, ma è anzi ch’essi non son lo stesso, ch'essi sono assolutamente diversi, ma insie­me anche inseparati e inseparabili, e che immediatamente  c i a­ s c u n o  d i  e s s i  s p a r i s c e  n e l  s u o  o p p o­ s t o. La verità dell'essere e del nulla è pertanto questo  m o v i m e n t o  consistente nell’immediato sparire dell'uno di essi nell’altro: il  d i v e n i r e : movimento in cui l'essere e il nulla son differenti, ma di una differenza che si è in pari tempo immediatamente risoluta”.

 In conclusione, dunque, per Sartre non solo essere e nulla non coincidono ma c’è addirittura una priorità ontica dell'essere sul nulla. Non si può porre, dunque, il nulla come “l'abisso originario donde l'essere nascerebbe”(cit.p.51). Interessante notare che L'être et le néant di Sartre appare per la prima volta in libreria nel 1945 circondato di una fascia pubblicitaria sulla quale era scritto: Ce qui compte dans un vase, c'est le vide du milieu (“Ciò che conta in un vaso, è il vuoto del mezzo”). L'espressione è in realtà di Lao Tze e la troviamo nel Tao-Tê-Ching: “Trenta raggi convergono nel mezzo. Ma è il vuoto del mozzo l'essenziale della ruota. I vasi son fatti di argilla. Ma è il vuoto interno che fa l'essenza del vaso. Mura con finestre e porte formano una casa. Ma è il vuoto di essi che ne fa l’essenza. In genere: l'esse­re serve come mezzo utile. Nel non-essere (nel vuoto) sta l'es­senza”(Cfr.Lao Tze, Il libro del principio e della sua azione, trad.it.,Ceschina, Milano, I959, p.62). Per Sartre 'questo vuoto' è l'uomo, il solo che, nella sua libertà, è in grado di interrogarsi sull'essere al di dentro dell'essere stesso. L'ontologia di Sartre, del resto, segue da presso l'ontolo­gia di Heidegger. In Was ist Metaphysik? (Frankfurt, l929), il filosofo tedesco si occupa principalmente del problema del nulla e dell'analisi dell'angoscia rivelatrice di questo nulla: il nul­la non è il di fuori dell'essere, ma la condizione che rende possi­bile, al di dentro dell'essere, la rivelazione dell'essere stesso. In Einfuhrung in die Metaphysik (Tubingen, I953), scritto che racco­glie le lezioni tenute presso l'Università di Friburgo nel I935, il filosofo tedesco traccia in quattro capitoli la storia della metafisica, rilevando come la metafisica classica, tralascian­do deliberatamente il problema del nulla con la motivazione che il nulla    n o n   è    semplicemente, abbia finito con l'occuparsi esclusivamente di ciò che è, snaturando il problema dell'essere in generale, sino a determinarne gradatamente l'oblio e facendo dell'essere niente altro che una nozione ovvia e una parola vuo­ta. Questo oblio del senso dell'essere costituisce il nostro destino e si comprende alla luce del nostro essere nel mondo: l'essere umano non è altro che un' apertura in direzione di tutto ciò che è. Come si vede, Sartre, pur partendo dai presupposti della metafi­sica orientale (taoismo), perviene, rovesciando il senso dell'af­fermazione di Lao Tze, alle conclusioni della metafisica occiden­tale (eleatismo).

 Quando parliamo del nulla, dunque, lo facciamo sempre con riferimento all’esperienza sensibile dell’assenza, della mancanza, dell'annientamento. Di esso possiamo dire soltanto che rappresenta una breve in­terruzione nel flusso dell’essere: quella stanza che ho trova­to vuota, presto tornerà ad animarsi di presenze. Di un altro nulla, non siamo autorizzati a parlare, per­ché non ne sappiamo niente e, di tutto ciò che non si sa, convie­ne tacere - ammonisce Wittgenstein - (11). Ecco, persino quando dico: “del nulla non so niente”, mi accorgo come il nulla si riveli alla superficie dell'essere: non so nulla, cioè, di ciò che dovrei sapere. A tale proposito molto chiaramente si esprime lo Yezirah: “E prima dell'uno che numero puoi tu contare?”(12), si chiede polemicamente al presuntuoso lettore che intendesse iniziare a contare dallo zero. In conclusione, dunque, lo zero-nulla non è né fine né principio. In successivi testi cabbalistici questo zero-nulla diviene l’ “Ain” di “Ain-Soph ”, concetto, questo, spesso erroneamente assimilato all' “Apeiron” di Anassimandro. In realtà, l’a-peiron del pensatore ionico è il “senza-limite”, dall'alfa privativo greco che indica la negazione, ed esprime il caos originario della materia, la mescolanza primigenia di tut­te le cose. L’"Ain" ebraico, composto dalle lettere Alef-Yud-Nun, invece, non è privativo di qualità ma di luogo: “Ain-Soph” indica perciò l'impossibilità di cogliere l'origine e il fine, oltre ciò che è manifesto (il 'fenomeno' kantiano), e ha solo la funzione di far desistere il pensiero dalla pretesa prometeica di voler essere dappertutto e tutto risolvere in se stesso. “Ain-Soph” nel suo significato originario ed essenziale ricorda il 'noumeno' di Kant. La fine è impossibile da coglie­re: i fenomeni che derivano dai primi dieci numeri sono infi­niti. Il principio è ugualmente fuori portata. Non solo perché non è lecito iniziare a contare dallo zero, ma anche perché, come vedremo più avanti, 'In principio è il due'. Il Sepher Yezirah esprime questo concetto in tre punti: “Dieci sephiroth beli mah, la loro qualità è dieci e non hanno fine”(13).  “Dieci sephiroth beli mah, il loro aspetto e l’aspetto della folgore e la loro direzione non ha fine” (14). “Dieci sephiroth beli mah”, è insita la loro fine nel loro principio ed il loro principio nella loro fine”(15).  [SEGUE]

sergio magaldi

(1) Libro della Creazione. Per la bibliografia e per la data di composizione che, secondo gli studiosi, oscilla tra il II e il VI secolo d.G. , cfr. G.C.Scholem Le Origini della Kabbalà, Bologna,1990, pp.32-44. Per i contenuti si rinvia allo stes­so volume nonché a G.C. Scholem, La Cabala, Roma,1989,pp.14, 30-61,70-72, 96, 101 e ss.
(2) Opera della Creazione. Cosmologia mistica dell'epoca della creazione il cui insegnamento era riservato solo a pochi eletti.
(3) Talmud , “insegnamento”. Raccolta enciclopedica della tradizione giudaica, compilata durante un periodo di circa ottocento anni, dal 300 a.C. al 500 d.C. , in Palestina e in Babilonia. Si compo­ne di norme legali (halakhah) e di materiale narrativo di vario genere (haggadah).
(4) Libro Fulgido. Opera che secondo molti autori rovescia la tesi dello Scholem circa la derivazione della tradizione ebraico-cabbalistica dallo Gnosticismo, testimoniando piuttosto come il pensiero gnostico nasca dalle “sette ebree” [Esseni, Samaritani, Elkesaiti ecc…] che si distaccarono dall’ebraismo con violente polemiche.
(5) Libro dello Splendore. Opera centrale e vastissima della letteratura cabbalistica. Si compone di 24 sezioni e di pagine sciolte.
(6) La tradizione distingue una Torah scritta formata dai libri del Pentateuco [Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio] da una Torah orale tramandata dalla “ecclesia” di Israele come necessaria integrazione e concretizzazione della Torah scritta.
(7) Indicibile nome di Dio nella manifestazione. Si compone della decima, quinta, sesta e ancora quinta delle lettere dell’alfabeto ebraico.
(8) Cfr., Sepher Yezirah, cap.I-1°
(9) Tradotto spesso con “emanazioni”, facendolo derivare dal greco. Ciò che confermerebbe l'influenza del neoplatonismo sulla Cabbalah. In realtà il termine viene dall’ebraico “sphr”, contare. Cfr.Sepher Yezirah, a cura di G.Toaff, Carucci, Roma, 1988, Cap. 1-2, p. 34, nota 5.
La letteratura cabbalistica colloca i dieci sephiroth sui tre pilastri dell'albero della vita. Ad ogni sephirah o forma del molteplice è attribuito un nome.
(10) Nel significato letterale, dall'ebraico beli, senza, e mah, cosa. È  un chiaro riferimento all'astrattezza dei sephiroth, al loro essere mere forme e niente altro.
(11) 'Quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere'.
(Cfr.L.Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, cap.I )
(12) Sepher Yezirah, cit., cap.1-7, p.39, nota 20 compresa
(13) Ibid., cap. 1-5, p.37
(14) Ibid., cap. 1-6, p.38
(15) Ibid., cap. 1-7, p.39



Nessun commento:

Posta un commento