La letteratura cabbalistica ha finito talora col
sostanzializzare la semplice impossibilità logica di cogliere la fine e il
principio, sostenuta nel primo capitolo del Sepher Yezirah (Si veda in proposito il post Essere, Nulla e Manifestazione nella metafisica occidentale e nella Qabbalah [Prima Parte], cliccando sul titolo per leggere). Così facendo, ha facilitato
l'interpretazione gnostica e dualistica
della Qabbalah. Da una parte 'Ain-Soph' divenuto il ‘Deus abscondidus',
dall'altra il Demiurgo dell'universo, oppure ha reso possibile
l'interpretazione neoplatonica del pensiero cabbalistico: ‘Ain-Soph’ diventa
l'ineffabile Uno di Plotino e si svela mediante l'estasi o, meglio, si
rivela a chi, librandosi sul fango della materia e ripercorrendo a ritroso il
cammino emanativo, giunge infine a medesimarsi con Lui:
“Tutti
gli uomini sin dalla nascita fanno uso dei sensi prima che dell'intelletto e
incontrando, dapprima, di necessità le cose sensibili, gli uni,fermi in esse,
trascorrono la loro vita nelle credenze che esse siano le prime e le ultime
cose, e sostengono che quanto v’è in esse di doloroso e di piacevole, sia
rispettivamente il male e il bene: così, pensando di averne abbastanza passano
la vita perseguendo l'uno o l'altro, lontani dal loro tetto. E chi tra loro si
atteggia a filosofo pretende persino che sia qui la sapienza. Somiglian,
costoro, ad uccelli pesanti e che hanno preso molto dalla terra, e, appesantiti
così, non riescono a volare in alto, per quanto dotati di ali dalla natura.
Altri si sollevano un po’ dalla bassura, perché la parte più nobile dell'anima
loro li sospinge dal piacere alla bellezza; ma poiché non riescono a vedere le
altezze, privi di altro sostegno cui appoggiarsi, precipitano in basso, insieme
con la loro decantata 'virtù’ dell'agire pratico, cioè alla scelta, tra le cose
vili e basse donde prima avevano tentato di sollevarsi.
V’è, infine, una terza schiera:
uomini divini di più forte vigore e di sguardo più acuto che san vedere, come
per suprema intensità visiva, lo splendore superno, e s'innalzano fin lassù,
quasi al di sopra delle nubi, e deliziandosi di quel luogo, bene verace e
avito; come un uomo che dopo vagabondaggio abbia fatto ritorno alla patria sua
retta da buone leggi.”[Plotino, Enneadi, V.9.I. , trad.it. di V.Cilento].
Lo
Scholem, al quale va peraltro riconosciuto gran merito negli studi
cabbalistici, ha oscillato tra le due interpretazioni. Nello scritto del
1941, Le grandi correnti della
mistica ebraica, identifica esplicitamente
'Ain-Soph' con il 'Dio nascosto’.
In Origini della Kabbalah del ‘62, pur non tralasciando di
sottolineare, soprattutto nell'analisi del Sepher ha Bahir, le influenze
gnostiche sul corpo della Qabbalah, sembra inclinare verso un’interpretazione
in chiave neoplatonica di 'Ain-Soph'.
Se,
nell'intento di verificare quel 'nucleo essenziale’ della Qabbalah, di cui si
parlava sopra, esaminiamo ora lo Zohar, ci accorgiamo che il significato
dato dallo Yezirah a un concetto ancora embrionale di 'Ain-Soph', non ne
risulta affatto stravolto, ma addirittura rafforzato: “Ain-Soph, infinito: in lui non c'è alcuna
apertura, ogni interrogativo è vano, come ogni idea per le possibilità dal
pensiero” (1). Più avanti ‘Ain-Soph,’
è detto “Chiusura inaccessibile
e sconosciuta [...] resiste ad ogni possibile conoscenza e non se ne può fare
né una fine né un principio” (2). C'è
di più: non solo 'Ain-Soph' non è il principio, non lo è neanche l’uno. Il
principio è il due, come attesta la nostra esperienza, come sostenevano gli
antichi pitagorici, com’è scritto nello Zohar:
“E’ scritto: ‘In principio’ (Bereshith), ma è
la lettera beth che si trova all’inizio, ella che è il due, la seconda lettera
dell'alfabeto. Perché il due e chiamato 'principio’, allorché la Corona suprema
(l'uno), benché sia la prima, si ritrae. Poiché ella non si mette in Questione,
è il due che è il principio’ ”(3). La spiegazione rimanda alle prime parole del
Genesi, come chiarisce un altro passo dello Zohar: “In principio.
Rabbi Amnouna l'anziano disse: incontriamo nelle prime parole del Genesi una
inversione nell'ordine alfabetico delle lettere: prima una beth seguita da
un'altra beth in 'Bereshith barah' ('In principio creò'), poi soltanto una aleph
seguita da un'altra aleph in 'Elohìm-eth’ ('II Signore') ”(4).
Il racconto
del Rabbi Amnouna prosegue poi con la storia assai nota delle ventidue lettere
che, cominciando dall'ultima, la taw, si presentano davanti al Signore per
chiedergli di cominciare la creazione a partire da ognuna di loro. Il Signore,
sottolineando vizi e virtù di ciascuna, le respinge benevolmente una dopo
l'altra , finché non si presenta la beth, che viene, infine, prescelta
per dare inizio alla creazione del mondo. Unica lettera a non presentarsi è
aleph, allora il Signore così le si rivolge:
“Aleph, aleph perché non ti presenti davanti
a me come tutte le altre lettere? La aleph rispose: Signore dell'universo, ho
visto tutte le lettere comparirti davanti senza alcun risultato, dovrei fare
anch'io la stessa cosa?... Inoltre tu hai già accordato questo dono prezioso
alla lettera beth, e, certo, non conviene al Re supremo di ritirare il
dono che ha appena fatto a un servitore per accordarlo a un altro servitore. Il
Santo, benedetto egli sia, così le rispose: Aleph, aleph, anche se creerò il
mondo con la lettera beth, tu sarai la prima di tutte le lettere
dell'alfabeto. Io non avrò unità che in
te, tu sarai il coronamento di tutti i disegni e di
tutte le opere del mondo. Ogni unificazione risiederà unicamente nella lettera
aleph”(5).
La stessa
narrazione si incontra in un altro testo della letteratura zoharica, il Midrash-ha-Neelam
su Ruth. Il racconto è più o meno lo stesso, più sintetico dell'altro ci
permette tuttavia, di apprendere altre 'qualità' di ciascuna delle lettere dell'alfabeto
“sacro” (6). Differisce solo nel finale, allorché il Signore dice ad aleph: “Attraverso te io mi esalterò quando il mio
nome sarà reso con te, Uno.” (7).
Dall'esame
dei passi citati emergono due considerazioni essenziali. La prima è che ‘in principio’
è il due. Non a caso, le lettere del tetragramma corrispondono
rispettivamente alla seconda, alla terza, alla sesta e alla decima sephirah: Yud-Hochmah,
il padre; He-Binah, la madre; Vaw-Tiphereth, il figlio; seconda He-Malchuth,
la figlia o la sposa (8). La seconda considerazione, di non minore importanza,
è che l'uno in sé è 'Ain'-Nulla. Ciò che noi conosciamo, infatti, non è l'uno,
ma l'unificato, il coronamento. L'estasi plotiniana che di fatto implica
l'assimilazione nell'Uno è per principio fuori portata. Proprio perché in
principio è il due, l'uno possiamo conoscerlo solo unificando la diade. Tale
unificazione è possibile grazie a un elemento in grado di equilibrare ciascun
polo della diade: il tre, come ancora ci mostra un passo dello Zohar:
“Tre sorge dall'uno, l'uno nel tre prende
consistenza: egli penetra in due e due abbevera l'uno, l'uno abbevera la
molteplicità, allora tutto è uno. Com'è scritto: ‘Fu sera, fu mattina, un solo
giorno’(Genesi I-1). Giorno,
dove sera e mattina si abbracciano nell'unità: questo è il segreto
dell'alleanza tra il giorno e la notte, e in lui tutto è uno.”(9).
E
ancora: in Binah, la terza sephirah (il tre), che è composta dalle
lettere Beth, Yud, Nun, He , c'è il principio (Beth), il padre (Yud), la madre
(He). La lettera Nun, tra lo Yud e la He, rappresenta allora l'equilibrio tra i
due, tra il padre e la madre, il maschio e la femmina.
In conclusione, dunque, l'uno, per ciò che si
rivela è due, per ciò che si conosce è tre, per ciò che si ritira è il nulla e
si rivolge verso 'Ain-Soph'. In un commento del Sepher Yezirah, Isacco
il cieco, il grande maestro cabbalista vissuto tra il XII e il XIII secolo,
elimina 'Ain-Soph' da ogni speculazione del mistico e si rivolge verso la
Corona o Kether, prima sephirah, che chiama 'Ain-Soph’ e alla quale dichiara
che intende abbeverarsi (10). In tale contesto, 'Ain-Soph', lungi dall'essere
il 'Deus abscondidus’ o l’Uno dell'estasi plotiniana, altro non è che la
pensabilità della negazione della fine e del principio. Così, se l'uno, come
tale, si ritrae, e se non è possibile alcuna speculazione su 'Ain-Soph’, non
resta che aspirare all'unificazione; cogliere, cioè, l'uno nella sola forma in
cui si rivela, nell'unificato. Si comprende allora come l'unificazione più alta
sia quella tra l’uomo e la donna, la diade originaria, il principio. Si
comprendono, altresì, nella tradizione ebraica, sacralità e fortuna dello Shirah-
Shirim o “Cantico dei Cantici”.
Al di là
delle molteplici chiavi interpretative del Cantico (11), se utilizziamo il
'Pardès' (12), otteniamo quattro possibili modalità di lettura di questo
testo, con riferimento alla Qabbalah e all'albero sephirotico: Peshat,
o interpretazione letterale, per una rappresentazione dell'unione dell'uomo
e della donna, del re e della regina (Tiphereth - Malchuth) mediante i
tabernacoli, cioè mediante gli organi sessuali (Yesod); Remmèz, o
interpretazione allegorica, per simboleggiare l'unione completa di Tiphereth e
di Malchuth attraverso tutte le membra, cioè per mezzo dei cinque sephiroth del
piano inferiore; Derash, o interpretazione anagogica, a significare
un’ascesa, mediante l'unificazione dei sephiroth del piano inferiore con Binah
e Hochmah, sino alla conoscenza superiore di Daat (13); Sod, o
interpretazione segreta, per elevarsi nella direzione di ‘Ain-Soph’ tramite la
triade superiore Binah-Hochmah-Kether. Sod e 'segreto indicibile'
proprio perché attiene ai rapporti di Binah e di Hochmah con la Corona
(Kether), con quell'uno che si ritrae in 'Ain-Soph' e si rivela in Hochmah,
cioè nella diade come principio. Si legge, in un passo dello Zohar, a
proposito dell'unione tra l'uomo e la donna: “Qui la donna si unisce al suo sposo. E quando si siano stretti
l'un l'altro in un abbraccio, allora bisogna che le loro membra siano aderenti
e i loro tabernacoli congiunti, come se fossero uno, e che la loro comunione
si diffonda in ogni parte di loro secondo il desiderio del cuore, per potersi
elevare nella direzione di 'Ain-Soph', affinchè tutto si unisca laggiù per
fare di quelli dell'alto e di quelli del basso un desiderio solo”.
Cosa
s’intende con “essere come uno” e con l’elevarsi nella direzione di 'Ain-Soph'?
Essere come uno non significa divenire uno, bensì cogliersi nella diade
originaria o principio. Elevarsi nella direzione di 'Ain-Soph' non significa
partecipazione mistica della medesimezza con l'uno, bensì l'intenzione verso
quella “trascendenza indicibile”, pensabile solo come negazione del
principio e della fine, allorché si realizzi l'uno nella sola forma possibile,
quella dell’unificato. Si spiega, così, perché nel Sanhedrin
talmudico è scritto che “colui che legge un versetto del Cantico dei Cantici
e lo considera come un canto erotico, attira la sciagura sul mondo”(14).
Altrettanto errato è fare dell'unione dell'uomo e della donna una sorta di
ierogamia finalizzata alla dissoluzione della diade nell'androgino originario,
archetipo antropomorfico dell'Uno-Dio. La sacralità dell'unione tra l'uomo e
la donna è altrove, è nella riproposizione senza limiti del principio e della
fine. Del principio che è due (il 'Bereshith Bara Elohìm' del Genesi ) e
della fine che, ogni volta, torna ad essere principio. Altrimenti detto, quando
l'uomo e la donna si uniscono il principio e la fine sono sempre altrove, non lì
dove ci aspetteremmo di trovarli, sono Ain-Soph. La trascendenza
è sempre al di là, come ‘indicibile lontananza’ si offre alla ‘Qavvanah’
(intenzione) e alla ‘Devequth’ (comunione) attraverso
l'unificazione dei sephiroth. Scrive in proposito lo Scholem: “Devequth non è dunque ‘unio’, ma
‘communio’. Nel senso che il temine ha nel vocabolario dei kabbalisti, esso
richiede sempre, malgrado il suo carattere d'intimità, un elemento di
distanza..... La "Kavvanà" è lo strumento di questo processo. Isacco
e i suoi allievi non parlano di un'estasi, di un atto unico che fa uscire da se
stessi, nel quale si annulla la coscienza umana. La ‘Devequth’ non consiste
nel penetrare impetuosamente in Dio e nell' assorbirsi in lui; è uno stato
costante, che s'alimenta con la meditazione e che per mezzo suo si rinnova.
Contrariamente a numerose altre scuole più recenti, quella degli antichi
kabbbalisti non è andata più lontano; in ciò essa non rinnega per niente il suo
carattere teista-ebraico” (15).
Non a caso Hegel
rivendica il primato della religione cristiana su quella ebraica, facendo di
Cristo il simbolo della mediazione tra l'umano e il divino che, nell'ebraismo,
rimane, a suo giudizio, irrisolta. Non partecipe della natura divina, l'uomo
Mosé sottolinea, al contrario, l'infinita distanza che c'è tra l'uomo e Dio, la
sua stessa pretesa di contemplare Dio 'faccia a faccia' è destinata allo
scacco. Hegel, tutto intento a seguire il cammino dello Spirito nella storia e
nel destino dell'Occidente, non ha visto ciò che, a mio giudizio, è invece
peculiare e forse esclusivo della religione ebraica: la capacità di riuscire a
dispiegare la ragione sino alle sue estreme conseguenze, lasciando intatto ‘il
distante’, quella trascendenza indicibile che rifiuta di arrendersi alle aspirazioni
prometeiche del pensiero.
Ne consegue
che, nella tradizione ebraico-cabbalistica, l’unica modalità di rapportarsi
all’Uno è l’Unificato e che questa unificazione è possibile attraverso l’unione
dell’uomo e della donna, la preghiera, la meditazione e lo studio [Ma’asè
Merkabah, ‘Opera del Carro’ e Ma’asè Bereshith, ‘Opera della
Creazione’].
“In principio è il due”: di qui derivano
notevoli implicazioni di carattere ontologico. Se la donna è nel principio,
così come l'uomo, non c’è nessun primato che l'uomo possa rivendicare sulla
donna. Neppure c'è, d'altra parte, un primato femminile, perché, se è vero -
come sostengono i testi cabbalistici - che la donna è ‘la sorgente del
desiderio’ che permette di realizzare l'uno nella forma dell'unificato, è
altrettanto vero che occorre un
'desiderante' che si abbeveri a quella sorgente affinché si realizzi la
comunione e, con essa, quel desiderio del cuore che si eleva nella direzione di
‘Ain-Soph’.
Nella
dualità maschio-femmina è contenuto il dualismo di tutto ciò che è. L’essere,
dunque, non è “la pura indeterminatezza e il puro vuoto”, contrapposto e
tuttavia identico al nulla e neppure insieme al nulla è destinato a
scomparire nella concretezza del divenire [Hegel]. L’Essere non è il
noumeno contrapposto al fenomeno [Kant], né l’eterno e immobile presente
[Parmenide]. Il nulla come interrogazione sull’essere al di dentro dell’essere
stesso [Sartre] o come trascendenza imperscrutabile [Qabbalah] non si
contrappone all’essere ma ne è la naturale conseguenza. In altre parole,
l’essere è la manifestazione della dualità, ma la polarità non è rappresentata
dal nulla, perché il nulla è semplicemente contenuto in lui e/o è fuori di lui come
ciò che non può essere detto ma che può essere pensato nella forma
dell’unità. L’errore delle religioni è quello di dare voce a questo uno-nulla,
di per sé indicibile. Ecco perché la Qabbalah storica delle origini [Isacco il
Cieco], pur ispirandosi al monoteismo ebraico, raccomanda di tenersi lontano
dalle speculazioni su Ain-Soph, inteso come Unità e Nulla Infinito. La dualità
della Manifestazione [il solo Essere che ci è dato conoscere] non può essere
ricomposta semplicemente annullando le differenze della dualità radicale,
nell’illusione che ci spinge a saltare il fosso nel tentativo impossibile di
incontrare l’Uno. Né, d’altra parte, tale dualità può essere accettata
fatalmente, al modo degli gnostici, come inevitabile conseguenza del nostro
essere nel mondo. Il lavoro per l’essere umano sembra piuttosto quello di unificare
ciò che è diviso, con la consapevolezza - come ammonisce lo Zohar - di
poter conoscere l’Uno nella sola forma possibile che è quella
dell’Unificato.
sergio magaldi
(2)Ibid.,II,239a
(3)Ibid.,I,31b
(4)Ibid.,I,2b
(5)Ibid.,I-3a
(6)La
tradizione attesta della sacralità attribuita a gran parte degli alfabeti
antichi, in quanto si riteneva che la divinità avesse creato il mondo con la
parola. Le lettere erano lo strumento per trasmettere la conoscenza della
realtà. Nella tradizione indiana, la dea Kâlì è rappresentata con una collana
di teschi, ciascuno a simboleggiare una lettera dell'alfabeto sanscrito; cioè,
la totalità delle conoscenze da trasmettere agli uomini nel corso della
loro esistenza. Per certi aspetti,la dea Kâlì ricorda la sephirah Binah
e il Kronos-Saturno della tradizione occidentale.
(7) Midrash-ha-Neelam,88d
(8) Midrash-ha-Heelam,75a;
Idra Zouta,Zohar III,291a
(9) Zohar,I-32a
(10)G.G..Scholem, Le
Origini della Kabbala, cit., cfr., soprattutto le pp.336-340
(11) Per
l'interpretazione di senso alchemico dello Shirah-Shirin, oltre alla
vasta letteratura sull'argomento, cfr., soprattutto: Cantico dei Cantici, I-5,
I-6, II-4, II-7, II-I2, III-1, III-6, IV-16, V-9, V-14, VI-7, VIII-4, VIII-8.
Per l'interpretazione cabbalistica occorre riferirsi all'intero corpo della
letteratura zoharica. Per una prima introduzione, cfr. Zohar,
ed.cit.,vol.I,t.II,p.I28, note 456-7; p.I7I,n.22; p.I72, nn.29-30;
p.246,n.40; p.274,n.204; p.328,n.257;p.
394,n. 876; p.395,nn.877 e 880; p.396,n.895; p.429,nn.98-9; p.49I,n.35
(12)'Pardès' si
compone delle iniziali delle parole Peshat (Pe-Shin-Taw), Remmèz
(Resh-Mem-Zaìn), Derash (Dalèth.-Resh-Shin) e Sod (Samèch-Vau-Dalèth)
= PRDS. Com’è noto, nell'alfabeto ebraico, mancano le lettere per le
vocali, introdotte, sottoforma di punti e lineette, solo verso il VII-sec. d.C.
dai ‘naqdanim' o 'puntatori' allo scopo di facilitare la lettura dei libri
sacri. 'Pardès' è dunque 'notariqon' di quattro parole. Il ‘notariqon’ fa
parte, insieme alla 'gematria' (valore numerico delle parole) e alla 'temurah'
(permutazione delle lettere), della Qabbalah cosiddetta letterale e consiste,
come abbiamo visto, nel formare una nuova parola con le iniziali di altre
parole. Oltre alla Qabbalah letterale, si suole distinguere una Qabbalah
dogmatica, una Qabbalah pratica e una Qabbalah orale.
(13)Daat-Conoscenza,
sephirah occulta. Si trova nella colonna centrale, nascosta tra i sephiroth Tiphereth
e Kether
(14)Cfr., Rabbi Issa’char Baer, Commentaire
sur le Cantique des Cantiques, 1979, p.10
(15) Cr.G.Scholem,Le
Origini della Kabbah, cit.,p.374
Credo di aver attentissimamente riletto la pregevolissima meditazione di Sergio Magaldi intorno alla Qabbalah, ai contenuti della metafisica occidentale, all’Essere e il Nulla: ma, pur riconoscendole intuizioni raffinate (che non mancherò assolutamente di sottolineare, come si noterà), quantunque ristrette con abilità ineguagliabile nello spazio di due articoli, nutro l’impressione che, anche nel caso in esame, l’heideggeriano oblio dell’Essere continui ad essere perpetrato – in tal modo pongo ex abrupto un punto. Inducono a pensarlo passaggi come “Se entro in una stanza e dico: 'Non c’è nessuno' è perché mi aspetto di trovarci qualcuno e, invece, proprio sullo sfon¬do di chi dovrebbe esserci, mi si manifesta la negazione come nullificazione contingente della presenza […]” o “non solo essere e nulla non coincidono ma c’è addirittura una priorità ontica (!) dell'essere sul nulla”. È stato precisato anche come in tali passaggi si cerchi di rendere il pensiero di Sartre, ma non a caso questi venne strigliato da Heidegger per esempio nella Lettera sull’Umanismo; tuttavia, certo, la questione ora non è di porsi a favore dell’uno o dell’altro, quanto di suscitare alcune eventuali e, per quanto possibile, stimolanti meditazioni.
RispondiEliminaIn estrema sintesi, secondo il pensiero heideggeriano, l’Essere è obliato in quanto confuso con l’Ente. Dire dell’Essere implica soluzioni del linguaggio al limite dell’evocativo (“L’Essere sussiste”, “risuona”, financo “fa cenno”), ed esso non va confuso con la presenza dell’Ente: con la dimensione ontica caratterizzata dalla presenza. In certo qual modo, allora, Essere e Nulla coincidono secondo una ben chiara prospettiva, vale a dire in quanto figure del nascondimento rispetto all’Ente qui-presente – calcolabile (nella tecnica) e vivibile (nell’esperienza): tecnica ed esperienza vissuta sarebbero infatti l’ultimo livello dell’oblio dell’Essere, già maturato nell’evoluzione della metafisica occidentale, ora manifesto nelle sue conclusioni più estese e comuni. Nei Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis) §129 Heidegger si esprime sul Nulla: “La determinazione <> del <>, riferita al concetto oggettivo di <> in tal modo più generale e più vuoto, è certamente <> e nei cui confronti chiunque è subito e facilmente maldisposto. […] E se invece l’Essere stesso fosse ciò che si sottrae e si presentasse essenzialmente in quanto rifiuto? […] Coloro che temono e disprezzano il <> devono essere sempre interrogati sul loro <>. E allora spesso si vede come di quel loro <> essi stessi non siano affatto sicuri”, o, più in breve, §269 “L’Essere non ricorda <>, tantomeno <>”. Va presumibilmente chiarito che nel pensiero del secondo Heidegger l’Essere si vela nell’Ente, ma, in un gioco chiaroscurale, diastolico-sistolico diremmo, vi si svela in altro modo: come nel caso della verità greca, a-lezeia, la quale risulta negazione, tramite l’alfa privativo, del coprire: s-coprimento.
Ottavio Plini (continua)
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RispondiEliminaTutto ciò per dire che, nell’umile parere di chi scrive, l’Essere non parrebbe ciò che riempie una stanza con una presenza, né il Nulla ciò che la svuota rendendo la presenza assente. Piuttosto, siamo adesso forse in grado di intuire alcune di quelle suggestioni esoteriche che, estremizzando in senso opposto ed esasperato il geniale chiaroscuro evocato da Heidegger, identificano nel Nulla la pienezza dell’Essere, in quanto distacco dagli Enti.
Ma veniamo ora a un altro punto che almeno io reputo di grande interesse. Magaldi scrive che “L’Essere non è il noumeno contrapposto al fenomeno [Kant]”: tuttavia, sul terreno del noumeno kantiano occorrerebbe procedere cauti, anche perché il grande meticoloso di Köninsberg, mentre offre enunciazioni limpide, cristalline, intorno a cosa intendere per fenomeno, nonché naturalmente intorno a molte altre cose, fornisce definizioni meno puntuali, o finanche molteplici, di noumeno (forse, azzardiamo, per lui coerentemente, avendolo asserito inconoscibile), rendendo l’enucleazione di tale concetto controversa. Tuttavia, con puntiglio invece esemplare, egli si sofferma sulle Idee della Ragione e sulle antinomie di cui sono informate: vi sono tre Idee che la Ragione, nella sua tensione verso l’Assoluto, pone nella condizione di essere lecitamente pensate, ma in assenza di una possibilità di corredarle di contenuto, ed esse sono l’Anima, il Mondo e Dio. Precisamente, senza dilungarci, tali Idee si vorrebbero definite sulla base delle categorie di qualità, quantità, relazione e modalità, tuttavia, per l’appunto, antinomiche. (Chi fosse interessato approfondisca la sezione della Dialettica trascendentale, in Critica della ragion pura.) Quel che piacerebbe sottolineare è che proprio su questo punto si inizino a notare delle corrispondenze con la meditazione di Sergio Magaldi: mi prenderei infatti l’estrema libertà di asserire che le tre Idee, pensabili ma non definibili, s’istituiscano su una funzione unificante – quantunque molto probabilmente in un modo molto diverso rispetto a ciò che Magaldi intende con tale enunciazione. Ad ogni modo la suggestione kantiana si rivelerà troppo potente, al punto che l’Idealismo tedesco, pur formalmente scaturito da input kantiani, si sforzerà di recuperare le antinomie, in modo tale da dimostrare che dei punti in questione invece si possa dire: Fichte porrà l’Io assoluto, statuente il non-Io, Schelling la Natura, sforzandosi di spiegare come l’Anima sia da cogliere in una intuizione immediata; Hegel, nell’intento di mediare tra quello che definiva l’idealismo soggettivo del primo e quello oggettivo del secondo, porrà la Storia (occidentale), e, nella convinzione di aver così forgiato, peraltro con sottigliezza e maestà rare, un idealismo assoluto, si consegnerà, mi si passi l’espressione, ad essa in catene – sorte bizzarra, per chi si reputava ab-solutus (libero-da). Ad ogni modo, è già qui intuito, com’è chiaro, che il Tre sia il principio dell’unificazione, come suggerisce ancora Magaldi. Perché allora non immaginare, con la dovuta riverenza, che dopo hegelismi di destra e di sinistra, la rilettura qui esibita, nella sua completezza e profondità, aggiungerei anche nel suo scrupoloso rifarsi all’inviolabile solidità del sistema cabalistico, non possa in certo qual modo fornire le basi di un hegelismo veramente assoluto (mi si accordi lo spunto)? Ma allora a quali opposizioni, e susseguenti riunificazioni, toccherà ad essa andare incontro?
Ottavio Plini
La risposta è contenuta in un nuovo post: SARTRE e HEIDEGGER: Essere e Nulla, del 21/11/2015
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