domenica 11 settembre 2016

LA QUESTIONE ROMANA E I CINQUE STELLE


 Pur ammettendo qualche errore [leggi: “Cazzata”] nell’affrontare il difficile compito di dare alla capitale un’amministrazione decente, Beppe Grillo, sceso finalmente in campo, sventola la vetusta bandiera del complotto per spiegare l’incredibile situazione in cui versa la giunta capitolina guidata dall’ineffabile Virginia Raggi. Intendiamoci: qualcosa di vero c’è nella tesi di Grillo e dei suoi. Non tanto perché ci sia stato davvero un complotto nei confronti della sindaca romana, quanto perché di fronte all’insipienza fin qui mostrata dai pentastellati, s’è scatenata la muta degli oppositori, cioè di tutti coloro che, almeno nell’ultimo ventennio, hanno contribuito a fare carne di porco della città eterna.

 Intanto, la vicenda romana mostra almeno due verità: che la cosiddetta società civile sempre evocata dal Movimento Cinque Stelle non è migliore dei governi che la rappresentano e che, nonostante i tanti milioni di voti, il M5S non è stato capace di creare quadri intermedi competenti e credibili, dovendo ricorrere ad “esterni”, già compromessi con le precedenti amministrazioni, per tentare di dare un governo alla capitale. E non basta, perché dopo la scomparsa [purtroppo!] di Casaleggio e la parziale uscita di scena di Beppe Grillo, lo stesso gruppo dirigente del Movimento mostra tutta la sua inadeguatezza nel leggere la realtà, persino nei due “cittadini” più acclamati e più noti: Di Battista nel percorrere in moto la penisola per diffondere il verbo del “No” alle riforme costituzionali, Di Maio nel calarsi in un’attività diplomatica, almeno prematura, e nell’occultare verità scomode che immancabilmente si sono volte contro il Movimento. E con ciò ogni altra entità politica, partitica o meta partitica, già nata [leggi: Movimento Roosevelt] o che dovesse nascere, è avvertita: senza selezionare una classe dirigente preparata, onesta e disinteressata alle carriere personali, ogni ipotesi di cambiamento della società e dei governi è puramente velleitaria e illusoria.

 La vittoria di Virginia Raggi con oltre il 67% di voti nelle amministrative di Roma non è stato il successo di una singola persona, ma quello di un intero Movimento ed è stato subito chiaro che non si trattava semplicemente della conquista di una città, ma di una prova generale di governo del Paese, dal cui successo o fallimento, sarebbe dipeso il futuro politico dei Cinque Stelle. Di Battista e Di Maio avevano perciò il dovere, già all’indomani della vittoria di Roma, di porre tutte le proprie energie al servizio del governo capitolino, senza che ciò significasse un’ingerenza nell’autonomia del primo cittadino. Il punto è che forse non ne hanno avuto la forza e/o che mancavano le condizioni di cui parlavo sopra, l’esistenza cioè di quadri opportunamente selezionati per competenza, onestà e affidabilità. Più facile, dunque, per i due leader provare a “rafforzare” la propria immagine, con viaggi nazionali e internazionali.

 Purtroppo, ora, come si suole dire “tutti i nodi vengono al pettine”. La giunta capitolina stenta a nascere nella sua compiutezza e soprattutto non è ancora in grado di governare. Persino il Vaticano [così innocente rispetto ai governi che nel passato hanno distrutto la città?!] si unisce al coro delle opposizioni, i sondaggi elettorali, per quello che valgono, parlano già di due punti persi e c’è di più: Renzi, sulla scia dell’ex presidente della Repubblica, questa volta sembra davvero intenzionato a cambiare la legge elettorale. Un palese tentativo per esorcizzare il “No” alle riforme costituzionali, accogliendo le indicazioni proposte dalla sinistra interna e sperando in un tacito accordo con il centro-destra: il “Sì”, anche se non esplicitamente dichiarato, alle riforme in cambio di una legge elettorale che sposti il premio di maggioranza dalle liste alle coalizioni o, peggio ancora, che reintroduca il sistema proporzionale, tagliando fuori da ogni possibilità di vittoria il M5S e prospettando un nuovo governo “di larghe intese”. I pentastellati – nonostante l’accanimento con cui sostengono il “No” alle riforme costituzionali – naturalmente si oppongono al cambiamento della legge elettorale e se ne comprende bene il motivo: il sogno di governare da soli dopo la vittoria al ballottaggio contro il PD, sembra andare in frantumi. Davvero l’ingenuità del Movimento Cinque Stelle arriva sino a questo punto? Di credere che con la vittoria del “No”, l’attuale legge elettorale rimarrebbe invariata? Non ci credo! Il calcolo deve essere un altro: abbattere Renzi e poi si vedrà. Non si spiegherebbe altrimenti l’accanimento per il “No”, insieme a Freccero, Quagliarella, Brunetta, Gasparri e tanti altri nobili “padri della patria” preoccupati che il bicameralismo perfetto possa scomparire dal pianeta [giacché l’Italia è ormai l’unico paese che lo mantiene nel proprio ordinamento costituzionale].

 Comprendo bene, d’altra parte, che il M5S non avrebbe potuto in nessun modo sostenere il “Sì”, salvo snaturarsi politicamente a sinistra come a destra, ma la difesa dell’attuale legge elettorale, con il premio di lista, avrebbe dovuto portare al saggio consiglio di astenersi almeno dalla motocicletta di Di Battista. Questo, se il Movimento Cinque Stelle ha come obiettivo di governare l’Italia. Ma i pentastellati vogliono davvero governare Roma e l’intero Paese?


sergio magaldi      

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