lunedì 9 aprile 2018

IL RE SOLE: LUIGI XIV e LUIGI DI MAIO






  Com’è noto Luigi XIV [1638-1715], re di Francia, fu detto “Re sole” perché sul suo vasto impero non tramontava mai il sole ed è ricordato sui libri di scuola anche per l’affermazione “L’état c’èst moi”, cioè “Lo stato sono io”. Cosa accomuna il Luigi di cui si parla in questi giorni con il sovrano francese? Niente, naturalmente, se non il nome e un paio di analogie approssimative ma utili per farsi qualche idea: Luigi Di Maio [1986 - ?] nasce nel mezzogiorno d’Italia, dove il sole è di casa, e può vantare una frase non detta ma implicitamente ribadita più volte durante questa congiuntura della politica italiana e cioè, “Il governo sono io”.

 Intendiamoci, il capo politico dei Cinquestelle fa questa implicita affermazione a buon diritto, il suo movimento avendo ottenuto circa il 33% dei consensi degli italiani che si sono recati fiduciosamente alle urne, con una legge elettorale [vedi il post: La scelta elettorale del 4 marzo, cliccando sul titolo per leggere] fatta per escludere i pentastellati, favorire l’accordo Pd-Forza Italia e in ultima ipotesi per determinare la quasi impossibilità di formare un nuovo governo [vedi il post: Lo stallo premeditato della politica italiana, cliccando sul titolo per leggere]. È vero altresì che il Centrodestra ha raccolto circa il 38% dei voti espressi ma solo presentandosi con 4 partiti uniti in coalizione e poiché i leader di tre di questi partiti [quelli che hanno ottenuto seggi in Parlamento] si sono presentati singolarmente alle consultazioni quirinalizie, vale il buon diritto di Luigi Di Maio a considerarsi l’unico vero e proprio vincitore, il solo titolato, per così dire, a “dare le carte” a tutti. Così, nell’impossibilità di raggiungere la maggioranza dei consensi parlamentari “per la contraddizion che nol consente(Dante, Inferno, XXVII, 120), in virtù del Rosatellum - vero e proprio capolavoro di ingegneria democristiana - il leader del Movimento Cinque Stelle restaura i forni della Prima Repubblica, dichiarandosi disponibile a far sostenere il governo da lui presieduto, indifferentemente dal Pd o dalla Lega. C’è chi parla di cinismo, dimenticando che la politica dei due forni fu di fatto praticata dalla Dc per quasi cinquant’anni. Come si può giudicare intercambiabile – si continua a ripetere – un’alleanza con il Pd e con la Lega che hanno una visione della società radicalmente opposta e programmi così differenti? Per la verità, Di Maio non manca di realismo e non a caso parla di contratto che naturalmente sarebbe diverso in funzione di contraenti diversi, senza con ciò snaturare il programma complessivo del Movimento, ma solo limitandone la portata.

 Con il Pd e con Leu potrebbe infatti concordare: 1) Lo ius soli [che piace a Fico, presidente della Camera dei deputati e ad una parte dei militanti pentastellati e che è nel programma del Pd e di Leu], 2) Il reddito di inclusione dei cittadini, un ibrido cioè tra il reddito di inclusione del Pd e il reddito di cittadinanza del M5S, ricorrendo per finanziarlo alla reintroduzione dell’IMU sulla prima casa [cara a Leu, ma anche al Fatto Quotidiano di Travaglio che dell’accordo M5S-Pd-Leu è uno degli autorevoli sostenitori], l’introduzione di una patrimoniale “una tantum”, una “sforbiciata”alle pensioni di reversibilità, il ricalcolo dei vitalizi degli ex parlamentari, esteso alle pensioni di tutti i cittadini oltre una certa soglia e ridefinito con il metodo contributivo, la sopressione di tutte i bonus alternativi al predetto reddito di inclusione dei cittadini, 3)Una velata riforma dei centri per l’impiego, funzionale al punto precedente, 4)Una minirevisione della legge Fornero, 5)Una miniriforma del Jobs Act, 6)Un aggiustamento della riforma della cosiddetta buona scuola che lo stesso Renzi ha giudicato necessario, 7)Una politica per l’immigrazione sulla scia della svolta data dal ministro Minniti e che ha ricevuto l’apprezzamento di Di Maio, 8) Misure contro la corruzione e il conflitto di interesse. Come si vede, c’è n’è d’avanzo per un contratto di legislatura e forse anche più.

 Con la Lega, naturalmente le misure sarebbero parzialmente diverse: 1)Il reddito di sostegno al lavoro dei cittadini, finanziato con misure da definire ma in parte alternative a quelle  di cui al precedente punto 2 dell’eventuale accordo con il Pd, 2)La riforma radicale dei centri per l’impiego, funzionale al punto precedente, 3)La riduzione delle aliquote fiscali, per incentivare i consumi e agevolare le imprese, 4)Una parziale revisione della legge Fornero, finanziata in parte con il ricalcolo e/o la soppressione dei vitalizi degli ex parlamentari e con l’introduzione di un tetto sulle pensioni, 5)L’abolizione del Jobs Act, 6)La riforma della scuola, 7)Una politica sull’immigrazione più radicale di quella inaugurata da Minniti, 8)Una maggiore fermezza con l’Europa. Questo e poco altro potrebbe contenere il contratto Di Maio – Salvini.

 Come si vede, il realismo di Di Maio ha un senso e non dovrebbe essere difficile accordarsi sui programmi  con il Pd o con la Lega. Il vero problema resta l’accordo sulle persone e i veti incrociati dei partiti che dovrebbero dar vita ad un nuovo governo, in sostituzione di quello di Gentiloni che continua tranquillamente a fare politica quasi il Pd e i suoi alleati avessero vinto le elezioni. Di certo, sino alla fine del mese non accadrà nulla di nuovo: l’Assemblea del Pd, le elezioni regionali del Molise e del Friuli Venezia Giulia, da tenersi rispettivamente il 21, 22 e 29 aprile sconsigliano accordi prematuri. Dal mese di maggio qualcosa potrebbe cambiare, per l’eventuale alleanza con il Pd, in funzione del ruolo di Renzi e dell’atteggiamento dei “suoi” parlamentari. Il fatto è che senza il di Renzi, anche con l’apporto di Leu, difficilmente si avrebbe una maggioranza M5S-Pd al Senato. Più semplice in teoria l’intesa dei Cinquestelle con tutto il Centrodestra, giacché Salvini non sembra così ingenuo da rompere l’alleanza con Forza Italia, con cui governa diverse amministrazioni regionali e comunali, e Di Maio questo lo sa da sempre. Per stipulare un contratto di governo M5S-Centrodestra basterebbero cinque minuti, riproponendo l’intesa già verificata con l’elezione dei presidenti delle Camere e degli uffici di presidenza. Il compromesso potrebbe essere questo: Salvini, nonostante il maggior numero di voti e di seggi del Centrodestra rinuncia alla Presidenza del Consiglio in favore di Di Maio, il quale accetta la presenza di due o tre ministri di Forza Italia nel governo [se ne troveranno pure 2-3 incensurati e non compromessi coi precedenti governi!], ma senza trattare con Berlusconi, bensì con il leader riconosciuto del Centrodestra e con i capigruppo dei 3 partiti. Poco importa poi se nel voto di fiducia al governo dovessero mancare alcuni voti di Forza Italia, ciò che è già avvenuto per l’elezione di Fico alla presidenza della Camera dei deputati quando mancarono all’appello ben 59 voti [mentre la Casellati fu votata da tutti i senatori pentastellati]. La maggioranza di governo non ne soffrirebbe perché Lega e Cinquestelle, com’è noto, hanno i voti sufficienti per governare anche da soli.

sergio magaldi



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