mercoledì 25 aprile 2018

DAL 4 MARZO AL 25 APRILE



 

 

  A quasi due mesi dal voto degli italiani, ripropongo di seguito i 5 post con cui ho commentato sin qui i tentativi di dare un governo al Paese, sino al mandato esplorativo conferito dal Colle al Presidente della Camera per accertare se vi siano le condizioni di un’alleanza tra Cinquestelle e Partito Democratico. Dalle dichiarazioni di Martina, segretario reggente del Pd, dopo il colloquio del pomeriggio di ieri tra la delegazione del partito e Roberto Fico, sembra aprirsi uno spiraglio che, Renzi permettendo, porterà ad un governo per un programma non del tutto lontano da quello che individuavo nel post del 14 aprile u.s. e cioè: 

 

 Il Movimento Cinque Stelle con il Pd e con Leu potrebbe concordare: 1) Lo ius soli [che piace a Fico, presidente della Camera dei deputati e ad una parte dei militanti pentastellati e che è nel programma del Pd e di Leu], 2) Il reddito di inclusione dei cittadini, un ibrido cioè tra il reddito di inclusione del Pd e il reddito di cittadinanza del M5S, ricorrendo per finanziarlo alla reintroduzione dell’IMU sulla prima casa [cara a Leu, ma anche al Fatto Quotidiano di Travaglio che dell’accordo M5S-Pd-Leu è uno degli autorevoli sostenitori], l’introduzione di una patrimoniale “una tantum”, una “sforbiciata”alle pensioni di reversibilità, il ricalcolo dei vitalizi degli ex parlamentari, esteso alle pensioni di tutti i cittadini oltre una certa soglia e ridefinito con il metodo contributivo, la soppressione di tutte i bonus alternativi al predetto reddito di inclusione dei cittadini, 3)Una velata riforma dei centri per l’impiego, funzionale al punto precedente, 4)Una minirevisione della legge Fornero, 5)Una miniriforma del Jobs Act, 6)Un aggiustamento della riforma della cosiddetta buona scuola che lo stesso Renzi ha giudicato necessario, 7)Una politica per l’immigrazione sulla scia della svolta data dal ministro Minniti e che ha ricevuto l’apprezzamento di Di Maio, 8) Misure contro la corruzione e il conflitto di interesse. Come si vede, c’è n’è d’avanzo per un contratto di legislatura e forse anche più”.

 

 Alla luce del lavoro compiuto dal prof. Giacinto Della Cananea per conto dei Cinquestelle e della presa di posizione delle molteplici anime del Pd, mi accorgo di aver persino esagerato in ottimismo ed è molto probabile che i punti 3-4-5 e forse 8 restino lettera morta. Se dovesse davvero realizzarsi l’intesa tra Cinquestelle e Pd si potrà parlare di un vero governo del cambiamento, come continua a ripetere Di Maio? Restano molti dubbi e una sola certezza: la futura vittoria elettorale della Lega.

 

Al di là delle manovre per la cosiddetta governabilità, non si può dimenticare che oggi cade la ricorrenza della Liberazione dall’occupazione nazifascista:

 

E come potevamo noi cantare

con il piede straniero sopra il cuore,

fra i morti abbandonati nelle piazze

sull’erba dura di ghiaccio, al lamento

d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero

della madre che andava incontro al figlio

crocifisso sul palo del telegrafo?

Alle fronde dei salici, per voto,

anche le nostre cetre erano appese,

oscillavano lievi al triste vento.

 

[Salvatore Quasimodo, Alle fronde dei salici]

 

 Il 25 aprile del 1945 rappresentò il sogno di tanti italiani per un Paese più giusto e meno corrotto, dove la libertà non restasse un principio astratto ma si incarnasse concretamente nella realtà di ogni giorno per il riconoscimento dei diritti umani e sociali dei cittadini. Senza retorica, dovremmo chiederci a distanza di 73 anni quanta strada abbia fatto quel sogno e quanta strada potrebbe fare in futuro.      

 

 

LA SCELTA ELETTORALE DEL 4 MARZO

Giovedì 1 marzo 2018

 In prossimità delle elezioni politiche del 4 marzo, mi viene in mente una volta di più il Saggio Sulla Lucidità [Universale Economica Feltrinelli  Milano, 2011, pp.302] del premio Nobel per la letteratura, José Saramago. Lì, un paese democratico immaginario che in realtà nasconde una vocazione autoritaria e un comune denominatore tra i partiti: i cittadini sono considerati tali solo nel giorno delle elezioni, per il resto del tempo sono sudditi. Qui, un paese altrettanto democratico, almeno nelle apparenze, dove tutto si decide altrove e dove la classe politica non fa neppure il tentativo di proporre una legge elettorale decente, ma ne assume una d’accatto, un ibrido indecente, dal momento che il fine della tornata elettorale non è quello di governare il Paese, ma quello di dividersi posti di potere e lucrose prebende.

 Con questa legge, infatti, ogni fazione è ben consapevole di non poter vincere, per questo fa promesse strabilianti agli elettori, tanto sa che da sola non potrà governare e che perciò non sarà chiamata a rendere conto di quanto promesso: l’unico obiettivo reale è quello di non perdere o di “perdere discretamente”: il M5S si accontenta di ottenere una percentuale di voti più alta degli altri come singolo movimento o partito e questo è già un piano ambizioso tenuto conto di come sta governando Roma, il Centrodestra di averne una più alta come coalizione e, al suo interno, la Lega di avere più voti di Forza Italia, ma i leghisti finirebbero per gridare alla vittoria se già gli riuscisse di avvicinarsi alle percentuali del partito di Berlusconi, dal momento che nelle precedenti elezioni il rapporto era stato del 22% [Pdl] contro il 4% [Lega Nord]. Chi rischia di più è come al solito Renzi: il PD non potrà essere né il singolo partito più votato e neanche aspirare a rappresentare – insieme agli altri partitini e movimenti improvvisati – la coalizione più votata, inoltre sa di dover pagare la scissione interna ma, com’è noto, l’ex sindaco fiorentino ama le sfide impossibili, come fu in un altro 4 del mese [Dicembre 2016], quando con una truppa in Parlamento che non arrivava a rappresentare il 22% dei voti espressi [considerando il No al Referendum della frangia del suo partito che poi si sarebbe scissa] lanciò il proprio guanto contro il 78% rappresentato da tutti gli altri partiti, di fronte ad un elettorato che tradizionalmente ha sempre ubbidito a parrocchie e partiti. Una sfida rilanciata anche in questa occasione, nell’approvare una legge elettorale ridicola che, nell’intento di punire i Cinquestelle, castiga prima di tutto il PD e premia il centrodestra di Berlusconi. Quanto ai frazionisti di Liberi e Uguali con una percentuale superiore al 5% sarà trionfo, al 3% sarà comunque vittoria, tanto più che sono stati gli unici, in questa grottesca campagna elettorale, a non aver solleticato la pancia degli italiani con appetitose ricette ma, anzi, ad aver preso di mira il loro portafoglio, con la promessa di ripristinare le tasse sulla casa di abitazione, con una patrimoniale cervellotica in teoria e iniqua in pratica, spiegata da Bersani in TV come meglio non si potrebbe, e con la proposta addirittura di aumentare l’IRPEF, naturalmente, bontà loro, con modalità progressive.

 E continuando le associazioni con il clima elettorale descritto da Saramago: lì una pioggia torrenziale nel giorno del voto che favorisce il disegno di un elettorato finalmente cosciente di dover disertare le urne, qui l’auspicio che la neve che in questi giorni cade copiosa sulla penisola faccia aumentare il numero degli astenuti, accanto a quello delle schede bianche e nulle.

 Certo, non è bello giungere a queste conclusioni, perché la democrazia è un bene prezioso, spesso conquistato col sangue, e il voto resta uno strumento insostituibile di partecipazione alla vita di una comunità. Mai come questa volta però si è caduti così in basso, e quando si conosca in anticipo la sorte che toccherà ai voti deposti nell’urna e si abbia consapevolezza del grande bluff perpetrato ai danni dell’elettorato, il cittadino ha il dovere di riflettere e valutare fino in fondo se non sia giunta l’ora di adottare nuove strategie. Astensionescheda bianca [la scelta forse meno adatta in simili circostanze, perché altri potrebbero usarla al posto nostro], scheda annullata nella cabina [la scelta più responsabile perché la distingue da quella dell’astensionismo dei pigri e dei qualunquisti], queste sono le reali minacce per l’oligarchia al potere, non certo il voto dato a questo o quel partito, proprio come accade nel libro di Saramago:

 Il segno che qualcosa di grave stia per accadere è già nella pioggia torrenziale che si abbatte sulla capitale all’alba del giorno fissato per le elezioni. I rappresentanti dei tre partiti in lizza, presenti nel seggio elettorale quattordici, si scambiano le proprie opinioni in merito:

“Sarebbe stato preferibile rinviare le elezioni” è l’osservazione del rappresentante del p.d.m. [Partito di mezzo o di centro], mentre il rappresentante del p.d.d. [Partito di destra] si limita ad annuire e quello del p.d.s. [Partito di sinistra], se non fosse stato trattenuto dall’improvviso arrivo di un membro del seggio, “c’è da presumere – osserva Saramago – che non avrebbe mancato di esprimersi sulla linea di un chiaro ottimismo storico, con una frase come questa, per esempio, I votanti del mio partito sono persone che non si intimoriscono per così poco, non è gente da restarsene a casa per quattro misere gocce d’acqua che cadono dalle nuvole”.[op. cit. pp.11-12]

 La pioggia passa, gli elettori sia pure in misura ridotta cominciano a recarsi ai seggi ma, al termine dello scrutinio nell’intero paese, il risultato è imbarazzante, con meno del 25% di voti validi così ripartiti: 13% alla destra, 9% al centro, 2,5% alla sinistra. Pochi i voti nulli e le astensioni, tutto il resto, più del 70% al fantomatico partito della scheda bianca.

 La ripetizione della tornata elettorale non ha miglior esito, al contrario: destra 8%, centro 8%, sinistra 1%, zero nulli e astenuti, 83% schede bianche.

Il primo ministro riconobbe che la gravità della situazione era estrema, che la patria era stata vittima di un infame attentato contro i fondamenti basilari della democrazia rappresentativa”[p.39].

  A nulla era valso ricorrere allo stadio d’assedio, con l’esercito ad occupare strade, stazioni e aeroporti per impedire la diffusione del contagio, il diffondersi della propaganda a favore del partito della scheda bianca. Il convincimento del presidente della repubblica, del primo ministro e del governo fu quello di ricorrere ad altri metodi meno appariscenti e più utili. Primo fra tutti, quello di infiltrare agenti dei servizi speciali in seno alle masse e nei gangli più sensibili della società. Inutile sperare, come aveva fatto sino ad allora il ministro della difesa, di convincere “i degenerati, i delinquenti, i sovversivi della scheda bianca a riconoscere i propri errori e implorare la misericordia, al pari della penitenza, di una nuova tornata elettorale alla quale, nel momento designato sarebbero accorsi in massa a purgare i peccati di un delirio che avrebbero giurato di non ripetere mai più”[p.57].

 La questione posta da Saramago, per quanto paradossale possa sembrare, pone inquietanti interrogativi sull’esercizio del potere in una democrazia rappresentativa. Un partito delle schede bianche del 70-80% forse non è ipotizzabile perché, se lo fosse, significherebbe che la maggioranza dei cittadini ha preso coscienza che la democrazia si è trasformata in partitocrazia, il regime democratico in una dittatura oligarchica e tirannica, e tale presa di coscienza sarebbe forse già l’anticamera di un cambiamento. Situazione paradossale quella prospettata da Saramago ma pur sempre possibile. La questione che interessa è però un’altra: in simili circostanze qual è la risposta che uno stato democratico deve dare per evitare che il partito delle schede bianche impedisca il retto funzionamento delle istituzioni democratiche, gettando il paese nell’anarchia e nel caos? La risposta non è certo quella che Saramago, descrive nel libro con ironia e pungente sarcasmo, anche se non è difficile immaginare che in una situazione concreta sarebbe l’unica ad essere adottata nelle nostre democrazie occidentali, più rispettose delle forme che della sostanza della democrazia. Chi ricorda più “il contratto sociale”? Chi lo spirito liberale che è alla base della rinuncia alla sovranità individuale? L’unica risposta possibile di fronte ad una forma così vasta di dissenso, sarebbe quella che il potere si facesse da parte per riscrivere da capo le regole del patto tra i cittadini. 

 

LO STALLO PREMEDITATO DELLA POLITICA ITALIANA 

Lunedì 19 marzo 2018


 Quando fu approvata la nuova legge elettorale c’era sicuramente un piano A ma già prendeva forma anche un piano B. I sondaggi davano allora il PD sopra il 25% e il Centrodestra tra il 38 e il 39%, con Forza Italia in vantaggio di 3 o 4 punti sulla Lega. L’idea era dunque un governo di larghe intese tra Renzi e Berlusconi al quale, a certe condizioni, forse avrebbe finito con l’accodarsi anche Matteo Salvini, uscito sconfitto dal confronto con il leader di Forza Italia ma con lui alleato in diverse amministrazioni comunali e regionali. Insomma, con tutta probabilità ne sarebbe uscita una maggioranza in grado di governare comodamente per i cinque anni successivi, relegando il M5S all’opposizione ma soprattutto decretandone il progressivo sfaldamento. La chiave, per comprendere la logica di questa dissennata legge elettorale, era riposta nella certezza che le coalizioni di centrodestra e di centrosinistra [ben poca cosa alla fine si sarebbe rivelata quest’ultima] prendessero un voto in più del M5S che correva da solo e addirittura nella speranza che il PD prendesse un voto in più del movimento guidato da Di Maio. In altri termini, il “Rosatellum” faceva propria la richiesta di Berlusconi [senza di che l’anziano leader non avrebbe dato il suo appoggio alla nuova legge elettorale] di consentire la presenza delle coalizioni nei collegi uninominali, garantendo al centrodestra il primato ma non anche la possibilità di formare un governo che sarebbe spettata in ogni caso al PD, sia che questo si fosse affermato come primo partito, sia che fosse stato il secondo dopo i pentastellati, ma nella prospettiva di essere il solo in grado di promuovere un governo di larghe intese. Un piano in apparenza ben congegnato, che tuttavia aveva quattro punti deboli: 1) l’ipotesi che il M5S non sarebbe andato oltre il 27-28% e che il PD si sarebbe avvicinato a questa percentuale o l’avrebbe addirittura superata, 2) la convinzione che il centrodestra non avrebbe raggiunto il 40% dei voti e dunque ottenuto probabilmente la possibilità di governare da solo, 3) uno sguardo poco attento della realtà da parte del PD nel fare il calcolo di chi avrebbe potuto vincere realmente in ciascuno dei collegi uninominali, anche per la presenza di LEU e considerando la compattezza degli elettori di Lega e Forza Italia al nord e la forte disoccupazione e il malcontento dei cittadini al sud 4) la probabile affermazione, fidandosi dei sondaggi, di Forza Italia sulla Lega.

 Considerando che dei quattro punti, solo il secondo è stato intuito correttamente, sembra lecito chiedersi se Renzi, proponendo o almeno condividendo il “Rosatellum” per le elezioni del 4 marzo ’18 non abbia messo in campo la stessa ingenua spregiudicatezza utilizzata per il voto referendario del 4 dicembre del 2016: allora sfidando con il suo 22 % [al netto della percentuale di chi avrebbe dato vita a LEU], il 78% dell’elettorato gestito dai partiti del No, ora facendosi schiacciare da una parte dal M5S, dall’altra dalla coalizione di Centrodestra. E non si venga a parlare di personalismo: anzi, fu proprio l’aver personalizzato il referendum che gli valse il 40% di Sì a fronte di un potenziale 22%. Questa volta, infatti, senza personalizzazioni, stando alle parole stesse del suo segretario, il PD si attesta tra il 18 e il 19 %. Si possono rimproverare a Renzi alcuni errori nella gestione del governo, altri nel rapporto con le minoranze e con i padri nobili del suo partito, ma ciò che decide della sua trasformazione da leader nazionale in cui la gente aveva creduto e sperato, in un comune politico dagli orizzonti regionali, sono appunto le scelte che sono alla base del voto referendario e della legge elettorale. 

 Eppure, una battuta paradossale di Michele Emiliano fa riflettere: il PD è il vero vincitore delle elezioni, attenzione, il partito, non Matteo Renzi. Già, perché il PD diventa l’ago della bilancia di questa legislatura. Schiacciato tra M5S e Centrodestra, resta indispensabile per il governo. E qui veniamo al piano B: astuzia di quel tanto di sangue democristiano che continua a circolare nel partito democratico, un paracadute pensato non da Renzi ma dagli Zanda, i Rosato, i Letta, i Franceschini ecc… Se tutto fosse andato male [come poi è stato] il Partito democratico avrebbe comunque raggiunto cinque obiettivi fondamentali: 1) liberarsi una volta per tutte del mancato enfant prodige, 2) ricompattare il partito tra minoranza e maggioranza, forse addirittura riassorbendo i fuoriusciti di Leu, 3) essere comunque decisivo per la formazione di qualsiasi governo, 4) mantenere il più a lungo possibile il governo Gentiloni, sia pure per la cosiddetta “normale amministrazione”, che intanto gli ha consentito di mettere a segno la riforma penitenziaria e che presto potrebbe fargli avere voce in capitolo nella nomina dei grand commis di stato. Bastando a questo fine rivendicare il diritto di stare all’opposizione e lasciando (ipocritamente) ai vincitori (M5S e Lega) il compito di governare, ben sapendo che l’introduzione del reddito di cittadinanza (M5S), che comporta l’inevitabile e ulteriore salasso fiscale delle classi medie, mal si concilia con la flat tax (Lega) con la quale, al contrario, ci si propone di tagliare le tasse soprattutto a vantaggio delle imprese, 5) tranquillizzare l’Europa e i mercati con uno stallo premeditato della politica italiana che di fatto impedisce iniziative “pericolose” di qualsiasi segno, come dimostra il fatto che sino ad oggi, al di là delle preoccupazioni espresse dal valletto della Merkel, i mercati non si siano mossi.

 Teoricamente, si dà un solo caso in cui il piano B potrebbe fallire: qualora si decidesse di tornare a votare prima dell’estate. Ipotesi improbabile perché sul Colle spira ancora la brezza democristiana e tutti i partiti confidano nella saggezza del presidente della Repubblica, il quale prendendosi un po' di tempo e muovendosi con circospezione e passo felpato alla fine saprà trovare la giusta soluzione alla crisi, laddove per correttezza non ha speso una sola parola per impedire il varo di una legge elettorale a dir poco machiavellica. Così, mentre il governo Gentiloni resterà in carica, sia pure sminuito nelle sue funzioni (ciò che non dispiace ai mercati), la politica italiana si aggirerà dalle parti del Quirinale per un lungo periodo e senza praticamente occuparsi di altro, con l’alibi che ai tedeschi sono occorsi sette mesi per varare un nuovo governo e che perciò se agli italiani ne occorresse anche qualcuno di più non si potrebbe certo gridare allo scandalo. Certo, alla fine, una soluzione bisognerà trovarla e qui le ipotesi sono almeno tre: 1) un governo di “larghissime” intese per tornare alle urne con una nuova legge elettorale, ma non prima di un anno o addirittura due: il tempo giusto perché la situazione decanti e perché l’elettorato del sud, disilluso dalla mancata introduzione del reddito di cittadinanza, scelga rapidamente un altro cavallo come ha sempre fatto in passato: in massa democristiano, poi con Forza Italia, quindi con l’Ulivo, ancora col Centrodestra del PDL, poi con il PD di Renzi nel voto europeo del 2014, ora con il M5S, 2) un governo del PD con uno dei due contendenti [M5S o Centrodestra], reso possibile dalla rinuncia all'opposizione, dopo diversi mesi, per l’appello del Capo dello Stato, per spirito di sacrificio e magari in cambio di ministeri “chiave”, 3) un governo M5S e LEGA per qualche minuta riforma e per varare una nuova legge elettorale in tempi brevi. 

 Poco probabili le soluzioni 1 e 3 non fosse altro per la difficoltà di trovare una nuova legge elettorale con premio di maggioranza, l’unica che consentirebbe il governo del Paese. A chi dovrebbe andare il premio, alle liste o alle coalizioni? Problema insolubile perché con il premio alle liste vincerebbe il M5S, con il premio alle coalizioni a vincere sarebbe il Centrodestra. In particolare poi, la soluzione n.3 appare anche più improbabile perché la Lega, rompendo ogni legame con le altre forze del Centrodestra, si consegnerebbe di fatto nelle mani dei pentastellati e difficilmente da sola potrebbe raggiungere una percentuale di voti superiore a quella del M5S. E nell’eventualità che anche Berlusconi finisse per assecondare Salvini nell’alleanza a scopo elettorale con i Cinquestelle, si ripresenterebbe intatta la questione: premio di maggioranza alle liste dei singoli partiti o alle coalizioni? In conclusione, tutto lascia pensare alla soluzione n.2, anche se l’esperienza di scuola democristiana insegna che le vie del potere sono infinite.


 

LEADER, REGISTI E FANTASMI

Martedì 27 marzo 2018

 

 

 L’elezione in breve tempo di Roberto Fico alla presidenza della Camera dei deputati e quella di Maria Elisabetta Alberti Casellati  [cui i social aggiungono già il “vien dal mare” di fantozziana memoria] alla presidenza del Senato rivela una sorprendente efficienza da parte del nuovo Parlamento. Merito del “Rosatellum”? Certamente no, piuttosto di una intesa raggiunta con tempestività e determinazione nonostante qualche manifesto tentativo di sabotaggio: con due leader giovani e dinamici, un regista di consumata esperienza, un paio di fantasmi discreti che non hanno disturbato, anzi che non si sono neppure lasciati vedere. Ciò non significa, d’altra parte, che tutto fosse stato concordato in anticipo, compreso lo strappo di venerdì sera tra Lega e Forza Italia, come certa dietrologia va ripetendo. D’altra parte, neanche è vero il contrario – come pure si è largamente sentito dire sui media dai soliti opinionisti – e cioè che Berlusconi sia uscito sconfitto dalle manovre per l’elezione delle cariche istituzionali.

 In realtà, nel rispetto dei patti, subito dopo il 4 marzo, il cavaliere aveva riconosciuto a Salvini il ruolo di leader, serbando per sé quello di regista. E questa nomina autoreferenziale Berlusconi ha inteso esercitare quando ha chiesto per Forza Italia la presidenza del Senato, cioè quando ha aggiunto al patto stipulato con la Lega una clausola che non c’era nei patti alla vigilia delle elezioni. Salvini, dando prova di lungimiranza politica, ha accettato la condizione non pattuita nella prospettiva, tutta da verificare, di essere chiamato a Palazzo Chigi. I candidati forzisti erano tre: Romani, Bernini e Casellati. A questo punto sono intervenuti pesantemente i consiglieri del regista, imponendo non solo il candidato unico [Romani], ma pretendendo che il leader del M5S si sedesse allo stesso tavolo di Berlusconi per siglare l’accordo, bastando per ogni trattativa la riunione di tutti i capigruppo uscenti, come è sempre avvenuto e come era stato giustamente proposto dai Cinquestelle.

 La mossa di alcuni registi improvvisati e consiglieri del principe – sventata all’ultimo momento dal buon senso di Salvini e di Berlusconi – sembrava orientata verso un unico obiettivo: rompere le trattative del leader della Lega con Di Maio o isolarlo, ben sapendo che i pentastellati non avrebbero mai accettato di incontrare Berlusconi e che avevano posto come unico vincolo che il candidato del Centrodestra non avesse una condanna passata in giudicato [Romani]. Tanto è vero che poi, rispettando i patti, i Cinquestelle hanno votato forse compatti [240 i voti della Casellati a fronte del potenziale di 247 seggi – fatti salvi gli assenti – di cui dispongono complessivamente M5S e Centrodestra al Senato] per una candidata incensurata e membro politico del Consiglio Superiore della Magistratura, ma fedelissima di Berlusconi e con la quale a suo tempo aveva polemizzato Travaglio in Tv, ricordando tra l’altro alla Sottosegretaria di Stato del Ministero della Sanità di aver assunto la figlia Ludovica a Capo della propria segreteria. Delle intenzioni dei consiglieri del regista è tuttavia rimasta traccia nell’elezione di Roberto Fico alla presidenza della Camera dei deputati, dove Forza Italia certamente non ha votato compatta: del potenziale di 481 voti, Fico ne ha ottenuti infatti 422, dunque, fatti salvi gli assenti, 59 voti in meno.

  A che si deve questa azione di disturbo? Un’intesa segreta con una frazione di fantasmi? Ma fantasmi vecchi e nuovi non si sono visti. Il loro ectoplasma si è manifestato solo a cose fatte per dire che quello tra Cinquestelle e Centrodestra è stato un accordo da Prima Repubblica [?!] e per ribadire l’opposizione ad un governo che ancora non c’è, ripetendo come un mantra che “oneri e onori del governo spettano ai vincitori”. Questo richiamarsi quasi ossessivo all’opposizione fa venire in mente che dopo la battaglia referendaria condotta in nome del 22% dell’elettorato contro il 78% rappresentato dagli altri partiti, dopo una legge elettorale che voleva essere astuta ma che di fatto ha finito con lo schiacciare i suoi maggiori proponenti tra Cinquestelle e Centrodestra, ora si aneli alla terza e forse definitiva disfatta, scegliendo una sorta di Aventino come mezzo per rigenerarsi. Opposizione per fare che? Per sperare che il nuovo probabile governo cosiddetto populista fallisca e che si possa tornare a fare i cani da guardia di Bruxelles e della Merkel? E se così non fosse nelle intenzioni, avendo percepito qualche vago segno di autocritica in merito alla politiche sin qui perseguite sull’immigrazione, sulla sicurezza, sul lavoro, sugli investimenti, sulla mancata riforma del fisco e su una distribuzione della ricchezza che ormai condanna alla povertà oltre 12 milioni di italiani, quale concrete possibilità avrebbero per essere concorrenziali con i Cinquestelle e con la Lega? Nessuna!

 L’inaspettato ottimismo con cui da sabato si guarda alla formazione di un nuovo governo non deve trarre in inganno. È vero che Giorgetti, Salvini e Di Maio hanno sostenuto negli ultimi giorni cose abbastanza simili, persino rinunciando rispettivamente agli slogan della campagna elettorale, come “flat tax” e “reddito di cittadinanza”, per sostituirle con espressioni più accettabili e condivisibili da entrambe le parti. È vero altresì che lo stesso Grillo subito dopo il voto del 4 marzo, ma ben prima dell’elezione dei presidenti delle Camere, aveva chiarito essere il reddito di cittadinanza niente altro che un aiuto alla disoccupazione e al lavoro, non diversamente da quanto Salvini ha sostenuto poche ore fa. Il fatto è che anche in presenza di un accordo sul programma resta l’incognita sulle persone, perché se è vero che Salvini si è detto anche disposto a rinunciare alla leadership del nuovo governo, i Cinquestelle oggi fanno sapere che senza Di Maio a capo dell’esecutivo non parteciperanno al governo del Paese, mentre dal canto suo, l’autoproclamatosi regista del Centrodestra – possibilista su un governo Salvini o di una personalità terza [e incredibilmente viene fatto circolare il nome di Franco Frattini] in cui siano presenti anche i Cinquestelle – respinge con forza l’ipotesi di sostenere un governo presieduto da Di Maio. Al momento, dunque, sembra godere di poche prospettive anche l’idea più accreditata nelle ultime ore e cioè di  Salvini e Di Maio vicepresidenti di un governo affidato ad una personalità concordata da entrambi. In tale contesto, a meno di rotture clamorose o di clamorosi ripensamenti nell’area dei vincitori delle elezioni, c’è da supporre che il Gentiloni cosiddetto minus reggerà ancora a lungo le sorti del paese, con atti addirittura più impegnativi di quando era nel pieno dei poteri: ha già varato la riforma penitenziaria, l’espulsione dei diplomatici russi e si accinge ad un documento finanziario richiesto espressamente e astutamente dai signori di Bruxelles. Nella prospettiva dei veti incrociati e dei personalismi non sarà che i fantasmi, opportunamente evocati dalla sapienza del Colle, tornino alla fine improvvisamente visibili, memori di avere nel proprio DNA una vocazione al governo più che all’opposizione?

 

 

 

IL RE SOLE: LUIGI XIV e LUIGI DI MAIO

Lunedì 9 aprile 2018

Com’è noto Luigi XIV [1638-1715], re di Francia, fu detto “Re sole” perché sul suo vasto impero non tramontava mai il sole ed è ricordato sui libri di scuola anche per l’affermazione “L’état c’èst moi”, cioè “Lo stato sono io”. Cosa accomuna il Luigi di cui si parla in questi giorni con il sovrano francese? Niente, naturalmente, se non il nome e un paio di analogie approssimative ma utili per farsi qualche idea: Luigi Di Maio [1986 - ?] nasce nel mezzogiorno d’Italia, dove il sole è di casa, e può vantare una frase non detta ma implicitamente ribadita più volte durante questa congiuntura della politica italiana e cioè, “Il governo sono io”.

 Intendiamoci, il capo politico dei Cinquestelle fa questa implicita affermazione a buon diritto, il suo movimento avendo ottenuto circa il 33% dei consensi degli italiani che si sono recati fiduciosamente alle urne, con una legge elettorale  fatta per escludere i pentastellati, favorire l’accordo Pd-Forza Italia e in ultima ipotesi per determinare la quasi impossibilità di formare un nuovo governo. È vero altresì che il Centrodestra ha raccolto circa il 38% dei voti espressi ma solo presentandosi con 4 partiti uniti in coalizione e poiché i leader di tre di questi partiti [quelli che hanno ottenuto seggi in Parlamento] si sono presentati singolarmente alle consultazioni quirinalizie, vale il buon diritto di Luigi Di Maio a considerarsi l’unico vero e proprio vincitore, il solo titolato, per così dire, a “dare le carte” a tutti. Così, nell’impossibilità di raggiungere la maggioranza dei consensi parlamentari “per la contraddizion che nol consente(Dante, Inferno, XXVII, 120), in virtù del Rosatellum - vero e proprio capolavoro di ingegneria democristiana - il leader del Movimento Cinque Stelle restaura i forni della Prima Repubblica, dichiarandosi disponibile a far sostenere il governo da lui presieduto, indifferentemente dal Pd o dalla Lega. C’è chi parla di cinismo, dimenticando che la politica dei due forni fu di fatto praticata dalla Dc per quasi cinquant’anni. Come si può giudicare intercambiabile – si continua a ripetere – un’alleanza con il Pd e con la Lega che hanno una visione della società radicalmente opposta e programmi così differenti? Per la verità, Di Maio non manca di realismo e non a caso parla di contratto che naturalmente sarebbe diverso in funzione di contraenti diversi, senza con ciò snaturare il programma complessivo del Movimento, ma solo limitandone la portata.

 Con il Pd e con Leu potrebbe infatti concordare: 1) Lo ius soli [che piace a Fico, presidente della Camera dei deputati e ad una parte dei militanti pentastellati e che è nel programma del Pd e di Leu], 2) Il reddito di inclusione dei cittadini, un ibrido cioè tra il reddito di inclusione del Pd e il reddito di cittadinanza del M5S, ricorrendo per finanziarlo alla reintroduzione dell’IMU sulla prima casa [cara a Leu, ma anche al Fatto Quotidiano di Travaglio che dell’accordo M5S-Pd-Leu è uno degli autorevoli sostenitori], l’introduzione di una patrimoniale “una tantum”, una “sforbiciata”alle pensioni di reversibilità, il ricalcolo dei vitalizi degli ex parlamentari, esteso alle pensioni di tutti i cittadini oltre una certa soglia e ridefinito con il metodo contributivo, la sopressione di tutte i bonus alternativi al predetto reddito di inclusione dei cittadini, 3)Una velata riforma dei centri per l’impiego, funzionale al punto precedente, 4)Una minirevisione della legge Fornero, 5)Una miniriforma del Jobs Act, 6)Un aggiustamento della riforma della cosiddetta buona scuola che lo stesso Renzi ha giudicato necessario, 7)Una politica per l’immigrazione sulla scia della svolta data dal ministro Minniti e che ha ricevuto l’apprezzamento di Di Maio, 8) Misure contro la corruzione e il conflitto di interesse. Come si vede, c’è n’è d’avanzo per un contratto di legislatura e forse anche più.

 Con la Lega, naturalmente le misure sarebbero parzialmente diverse: 1)Il reddito di sostegno al lavoro dei cittadini, finanziato con misure da definire ma in parte alternative a quelle  di cui al precedente punto 2 dell’eventuale accordo con il Pd, 2)La riforma radicale dei centri per l’impiego, funzionale al punto precedente, 3)La riduzione delle aliquote fiscali, per incentivare i consumi e agevolare le imprese, 4)Una parziale revisione della legge Fornero, finanziata in parte con il ricalcolo e/o la soppressione dei vitalizi degli ex parlamentari e con l’introduzione di un tetto sulle pensioni, 5)L’abolizione del Jobs Act, 6)La riforma della scuola, 7)Una politica sull’immigrazione più radicale di quella inaugurata da Minniti, 8)Una maggiore fermezza con l’Europa. Questo e poco altro potrebbe contenere il contratto Di Maio – Salvini.

 Come si vede, il realismo di Di Maio ha un senso e non dovrebbe essere difficile accordarsi sui programmi  con il Pd o con la Lega. Il vero problema resta l’accordo sulle persone e i veti incrociati dei partiti che dovrebbero dar vita ad un nuovo governo, in sostituzione di quello di Gentiloni che continua tranquillamente a fare politica quasi il Pd e i suoi alleati avessero vinto le elezioni. Di certo, sino alla fine del mese non accadrà nulla di nuovo: l’Assemblea del Pd, le elezioni regionali del Molise e del Friuli Venezia Giulia, da tenersi rispettivamente il 21, 22 e 29 aprile sconsigliano accordi prematuri. Dal mese di maggio qualcosa potrebbe cambiare, per l’eventuale alleanza con il Pd, in funzione del ruolo di Renzi e dell’atteggiamento dei “suoi” parlamentari. Il fatto è che senza il  di Renzi, anche con l’apporto di Leu, difficilmente si avrebbe una maggioranza M5S-Pd al Senato. Più semplice in teoria l’intesa dei Cinquestelle con tutto il Centrodestra, giacché Salvini non sembra così ingenuo da rompere l’alleanza con Forza Italia, con cui governa diverse amministrazioni regionali e comunali, e Di Maio questo lo sa da sempre. Per stipulare un contratto di governo M5S-Centrodestra basterebbero cinque minuti, riproponendo l’intesa già verificata con l’elezione dei presidenti delle Camere e degli uffici di presidenza. Il compromesso potrebbe essere questo: Salvini, nonostante il maggior numero di voti e di seggi del Centrodestra rinuncia alla Presidenza del Consiglio in favore di Di Maio, il quale accetta la presenza di due o tre ministri di Forza Italia nel governo [se ne troveranno pure 2-3 incensurati e non compromessi coi precedenti governi!], ma senza trattare con Berlusconi, bensì con il leader riconosciuto del Centrodestra e con i capigruppo dei 3 partiti. Poco importa poi se nel voto di fiducia al governo dovessero mancare alcuni voti di Forza Italia, ciò che è già avvenuto per l’elezione di Fico alla presidenza della Camera dei deputati quando mancarono all’appello ben 59 voti [mentre la Casellati fu votata da tutti i senatori pentastellati]. La maggioranza di governo non ne soffrirebbe perché Lega e Cinquestelle, com’è noto, hanno i voti sufficienti per governare anche da soli.


SCACCO ALLA COALIZIONE

Giovedì 14 aprile 2018


 Con un capolavoro di sperimentata tecnica democristiana, il Capo dello Stato conferisce a Maria Elisabetta Alberti Casellati il mandato esplorativo per accertare se vi siano le condizioni per formare un nuovo governo. E sin qui nulla di speciale o di inatteso, ma il colpo di genio sta nell’averle affidato con ferma determinazione e autorevolezza [per gli amanti delle stelle, Sergio Mattarella è nato sotto il segno del Leone]: 1)Un mandato unicamente mirato alla costatazione di una eventuale maggioranza Centrodestra-Cinquestelle, 2)Un tempo limitato di 48 ore. Il tutto, mostrando una lettura sapiente e formale delle regole democratiche, perché la Casellati oltre ad essere, come presidente del Senato, la seconda carica dello Stato, è anche esponente della coalizione che nelle recenti votazioni ha riportato il maggior numero di voti.

 Così, a meno di clamorosi e improbabili scenari dell’ultimo momento, il Quirinale liquida definitivamente la possibilità di un governo Centrodestra-Cinquestelle e c’è da scommettere che nella prossima settimana Sergio Mattarella riprenderà in proprio le consultazioni per accertare se non sia invece praticabile una maggioranza diversa e cioè quella tra i Cinquestelle e il PD. I numeri la rendono possibile alla Camera con 333 voti [ne occorrono almeno 316 sul totale di 630], più problematica al Senato dove la maggioranza è di 160 voti sul totale di 318 e M5S e PD ne dispongono insieme di 161, anche se con i 4 voti di LEU salirebbero a 165.

 In un precedente post non a caso scrivevo: Nella prospettiva dei veti incrociati e dei personalismi non sarà che i fantasmi, opportunamente evocati dalla sapienza del Colle, tornino alla fine improvvisamente visibili, memori di avere nel proprio DNA una vocazione al governo più che all’opposizione?

 Naturalmente, l’ipotesi molto dipende dalla cosiddetta moral suasion che il Colle riuscirà ad esercitare su quella parte del PD che non si è ancora arresa all’idea di un’alleanza con i Cinquestelle. Facendo leva sulla necessità di dare al più presto un governo al Paese, il Presidente potrebbe fare appello allo “spirito di servizio” dei suoi ex compagni ed amici di partito e in particolare a quello di Matteo Renzi che a quanto pare mantiene il controllo dei gruppi parlamentari. Si dice che il neo senatore fiorentino potrebbe convincersi a patto che Di Maio rinunci alla leadership. In questo caso, dubito però che il leader pentastellato accetterebbe. Resta già abbastanza difficile comprendere come Di Maio, praticamente certo di guidare un governo Centrodestra-Cinquestelle, della maggioranza del 70% degli elettori, in cambio di 2 o 3 ministri incensurati di Forza Italia, possa preferire di governare con PD e LEU con una maggioranza esigua e con soggetti continuamente in rotta fra di loro, dovendo per di più rinunciare alla guida del governo. Se Di Maio si inoltra per la strada impervia della maggioranza con i partiti della cosiddetta sinistra, qualche assicurazione accompagnata dalla suddetta moral suasion deve averla ricevuta dall’alto.

 Quanto al programma di governo [che paradossalmente non ha mai costituito un vero impedimento] non ci dovrebbero essere problemi. Come ho già scritto altrove, il Movimento Cinque Stelle “Con il Pd e con Leu potrebbe infatti concordare: 1) Lo ius soli [che piace a Fico, presidente della Camera dei deputati e ad una parte dei militanti pentastellati e che è nel programma del Pd e di Leu], 2) Il reddito di inclusione dei cittadini, un ibrido cioè tra il reddito di inclusione del Pd e il reddito di cittadinanza del M5S, ricorrendo per finanziarlo alla reintroduzione dell’IMU sulla prima casa [cara a Leu, ma anche al Fatto Quotidiano di Travaglio che dell’accordo M5S-Pd-Leu è uno degli autorevoli sostenitori], l’introduzione di una patrimoniale “una tantum”, una “sforbiciata”alle pensioni di reversibilità, il ricalcolo dei vitalizi degli ex parlamentari, esteso alle pensioni di tutti i cittadini oltre una certa soglia e ridefinito con il metodo contributivo, la soppressione di tutte i bonus alternativi al predetto reddito di inclusione dei cittadini, 3)Una velata riforma dei centri per l’impiego, funzionale al punto precedente, 4)Una minirevisione della legge Fornero, 5)Una miniriforma del Jobs Act, 6)Un aggiustamento della riforma della cosiddetta buona scuola che lo stesso Renzi ha giudicato necessario, 7)Una politica per l’immigrazione sulla scia della svolta data dal ministro Minniti e che ha ricevuto l’apprezzamento di Di Maio, 8) Misure contro la corruzione e il conflitto di interesse. Come si vede, c’è n’è d’avanzo per un contratto di legislatura e forse anche più”.

sergio magaldi

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