Com’è noto Luigi XIV
[1638-1715], re di Francia, fu detto “Re sole” perché sul suo vasto impero non
tramontava mai il sole ed è ricordato sui libri di scuola anche per
l’affermazione “L’état c’èst moi”, cioè “Lo stato sono io”. Cosa accomuna il
Luigi di cui si parla in questi giorni con il sovrano francese? Niente,
naturalmente, se non il nome e un paio di analogie approssimative ma utili per
farsi qualche idea: Luigi Di Maio [1986 - ?] nasce nel mezzogiorno d’Italia,
dove il sole è di casa, e può vantare una frase non detta ma implicitamente
ribadita più volte durante questa congiuntura della politica italiana e cioè,
“Il governo sono io”.
Intendiamoci, il capo politico dei
Cinquestelle fa questa implicita affermazione a buon diritto, il suo movimento
avendo ottenuto circa il 33% dei consensi degli italiani che si sono recati
fiduciosamente alle urne, con una legge elettorale [vedi il post: La scelta elettorale del 4 marzo, cliccando sul titolo per leggere] fatta per escludere i
pentastellati, favorire l’accordo Pd-Forza Italia e in ultima ipotesi per
determinare la quasi impossibilità di formare un nuovo governo [vedi il
post: Lo stallo premeditato della politica italiana, cliccando sul
titolo per leggere]. È vero altresì che il Centrodestra ha raccolto circa il
38% dei voti espressi ma solo presentandosi con 4 partiti uniti in coalizione e
poiché i leader di tre di questi partiti [quelli che hanno ottenuto seggi in
Parlamento] si sono presentati singolarmente alle consultazioni quirinalizie,
vale il buon diritto di Luigi Di Maio a considerarsi l’unico vero e proprio
vincitore, il solo titolato, per così dire, a “dare le carte” a tutti. Così,
nell’impossibilità di raggiungere la maggioranza dei consensi parlamentari “per
la contraddizion che nol consente”(Dante,
Inferno, XXVII, 120), in virtù del Rosatellum - vero e proprio
capolavoro di ingegneria democristiana - il leader del Movimento
Cinque Stelle restaura i forni della Prima Repubblica, dichiarandosi
disponibile a far sostenere il governo da lui presieduto, indifferentemente dal
Pd o dalla Lega. C’è chi parla di cinismo, dimenticando che la politica dei due
forni fu di fatto praticata dalla Dc per quasi cinquant’anni. Come si può
giudicare intercambiabile – si continua a ripetere – un’alleanza con il
Pd e con la Lega che hanno una visione della società radicalmente opposta e
programmi così differenti? Per la verità, Di Maio non manca di realismo e non a
caso parla di contratto che naturalmente sarebbe diverso in funzione di
contraenti diversi, senza con ciò snaturare il programma complessivo del
Movimento, ma solo limitandone la portata.
Con il Pd e con Leu potrebbe infatti
concordare: 1) Lo ius soli [che piace a Fico, presidente della Camera
dei deputati e ad una parte dei militanti pentastellati e che è nel programma
del Pd e di Leu], 2) Il reddito di inclusione dei cittadini, un ibrido
cioè tra il reddito di inclusione del Pd e il reddito di cittadinanza del M5S,
ricorrendo per finanziarlo alla reintroduzione dell’IMU sulla prima casa [cara
a Leu, ma anche al Fatto Quotidiano di Travaglio che dell’accordo
M5S-Pd-Leu è uno degli autorevoli sostenitori], l’introduzione di una
patrimoniale “una tantum”, una “sforbiciata”alle pensioni di reversibilità, il
ricalcolo dei vitalizi degli ex parlamentari, esteso alle pensioni di tutti i
cittadini oltre una certa soglia e ridefinito con il metodo contributivo, la
sopressione di tutte i bonus alternativi al predetto reddito di inclusione dei
cittadini, 3)Una velata riforma dei centri per l’impiego, funzionale al
punto precedente, 4)Una minirevisione della legge Fornero, 5)Una
miniriforma del Jobs Act, 6)Un aggiustamento della riforma della
cosiddetta buona scuola che lo stesso Renzi ha giudicato necessario, 7)Una
politica per l’immigrazione sulla scia della svolta data dal ministro
Minniti e che ha ricevuto l’apprezzamento di Di Maio, 8) Misure contro
la corruzione e il conflitto di interesse. Come si vede, c’è n’è d’avanzo
per un contratto di legislatura e forse anche più.
Con la Lega, naturalmente le misure sarebbero
parzialmente diverse: 1)Il reddito di sostegno al lavoro dei cittadini,
finanziato con misure da definire ma in parte alternative a quelle di cui al precedente punto 2 dell’eventuale
accordo con il Pd, 2)La riforma radicale dei centri per l’impiego,
funzionale al punto precedente, 3)La riduzione delle aliquote fiscali,
per incentivare i consumi e agevolare le imprese, 4)Una parziale revisione
della legge Fornero, finanziata in parte con il ricalcolo e/o la
soppressione dei vitalizi degli ex parlamentari e con l’introduzione di un
tetto sulle pensioni, 5)L’abolizione del Jobs Act, 6)La riforma della
scuola, 7)Una politica sull’immigrazione più radicale di quella
inaugurata da Minniti, 8)Una maggiore fermezza con l’Europa. Questo
e poco altro potrebbe contenere il contratto Di Maio – Salvini.
Come si vede, il realismo di Di Maio ha un
senso e non dovrebbe essere difficile accordarsi sui programmi con il Pd o con la Lega. Il vero problema
resta l’accordo sulle persone e i veti incrociati dei partiti che dovrebbero
dar vita ad un nuovo governo, in sostituzione di quello di Gentiloni che
continua tranquillamente a fare politica quasi il Pd e i suoi alleati avessero
vinto le elezioni. Di certo, sino alla fine del mese non accadrà nulla di
nuovo: l’Assemblea del Pd, le elezioni regionali del Molise e del Friuli
Venezia Giulia, da tenersi rispettivamente il 21, 22 e 29 aprile sconsigliano
accordi prematuri. Dal mese di maggio qualcosa potrebbe cambiare, per
l’eventuale alleanza con il Pd, in funzione del ruolo di Renzi e
dell’atteggiamento dei “suoi” parlamentari. Il fatto è che senza il sì
di Renzi, anche con l’apporto di Leu, difficilmente si avrebbe una maggioranza
M5S-Pd al Senato. Più semplice in teoria l’intesa dei Cinquestelle con tutto il
Centrodestra, giacché Salvini non sembra così ingenuo da rompere l’alleanza con
Forza Italia, con cui governa diverse amministrazioni regionali e comunali, e
Di Maio questo lo sa da sempre. Per stipulare un contratto di governo M5S-Centrodestra
basterebbero cinque minuti, riproponendo l’intesa già verificata con l’elezione
dei presidenti delle Camere e degli uffici di presidenza. Il compromesso
potrebbe essere questo: Salvini, nonostante il maggior numero di voti e di
seggi del Centrodestra rinuncia alla Presidenza del Consiglio in favore di Di
Maio, il quale accetta la presenza di due o tre ministri di Forza Italia nel
governo [se ne troveranno pure 2-3 incensurati e non compromessi coi precedenti governi!], ma senza trattare con Berlusconi, bensì con il leader riconosciuto del
Centrodestra e con i capigruppo dei 3 partiti. Poco importa poi se nel voto di
fiducia al governo dovessero mancare alcuni voti di Forza Italia, ciò che è già
avvenuto per l’elezione di Fico alla presidenza della Camera dei deputati
quando mancarono all’appello ben 59 voti [mentre la Casellati fu votata da
tutti i senatori pentastellati]. La maggioranza di governo non ne soffrirebbe
perché Lega e Cinquestelle, com’è noto, hanno i voti sufficienti per governare
anche da soli.
sergio
magaldi
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