Tutto sembra ormai predisposto per il lancio del nuovo
governo M5S-PD-LEU e gruppi misti di varia natura. Un governo di legislatura,
con 5 “pilastri” che non sono quelli
della fede islamica ma quelli annunciati da Zingaretti perché il partito
democratico torni ad occuparsi della cosa pubblica, salvando al tempo stesso il
lauto stipendio di tanti parlamentari. Si sostanziano delle solite
dichiarazioni di principio e hanno per tema, rispettivamente: la ricollocazione
piena e senza riserve dell’Italia in Europa [leggi: ritorno servile sotto
Eurogermania], il pieno riconoscimento della democrazia rappresentativa [leggi:
nessuna concessione a istanze di democrazia diretta, care ai pentastellati], lo
sviluppo basato sulla sostenibilità ambientale [leggi: niente che significhi
qualcosa di serio], la discontinuità nella politica sull’immigrazione [leggi:
tutti potranno tornare a sbarcare sui lidi del Belpaese], le ricette
economico-sociali per ridistribuire la ricchezza e avviare gli investimenti
produttivi [leggi: la solita patrimoniale sugli immobili e un programma generico che presuppone tempi diversi e/o
provvedimenti forse in contraddizione tra di loro, come potrebbero esserlo il salario
minimo e la contemporanea crescita produttiva delle imprese].
Indisponibile, invece, il segretario del PD ad un governo
istituzionale o comunque di breve durata come suggeriva Renzi. E, del resto,
Zingaretti avrebbe preferito andare direttamente al voto per una serie di
motivi abbastanza comprensibili: disfarsi della massiccia rappresentanza
parlamentare controllata da Renzi e recuperare una buona parte dei voti perduti
nelle precedenti elezioni a vantaggio dei Cinquestelle. Bisogna tuttavia tener
conto non solo di Renzi, ma di Franceschini, Del Rio, Gentiloni, Orlando etc… e
anche, naturalmente, di Mattarella e allora, nella ritrovata, apparente unità
del partito, il segretario del PD si limita a porre qualche condizione al
governo con i pentastellati: che sia di legislatura e che si basi sui 5
pilastri, che prefiguri una lunga e fruttuosa intesa politica tra le due forze
[leggi: accordi elettorali nelle elezioni amministrative], che infine
rappresenti una discontinuità con il precedente governo, nel nome del
presidente del Consiglio, dei ministri più rappresentativi e soprattutto nella
cancellazione di alcuni provvedimenti (leggi: quelli sulla sicurezza e non
solo).
Ai 5 punti “irrinunciabili” di Zingaretti, Di Maio ne affianca
10, il primo dei quali è la riduzione del numero dei parlamentari e su queste
basi si vedranno oggi pomeriggio le delegazioni di PD e M5S. Con quante
possibilità di condividere i 15 punti e/o di trovare una sintesi comune? Molte,
al di là delle dichiarazioni di principio poco conciliabili ma che sembrano
formulate unicamente per incantare i rispettivi elettorati. Lo scoglio più
difficile da superare sembra proprio quello sulla riduzione dei parlamentari,
ma il paradosso è che proprio su questo punto potrebbero essere gettate le basi
per un’intesa politica di lunga durata: riduzione dei parlamentari (non 345 ma
in numero minore) nel contesto di una nuova legge elettorale anti-Lega, secondo
una prassi già sperimentata con il Rosatellum, concepito per far vincere il PD
con l’aiuto di Forza Italia contro il cosiddetto populismo e che invece ha
avuto l’effetto di rendere possibile la maggioranza gialloverde.
Sia come sia, il governo M5S-PD-LEU che, a meno di
clamorose quanto impensabili sorprese, nascerà la prossima settimana, non può
essere definito un “inciucio”, perché è sostenuto da una maggioranza
parlamentare altrettanto legittima di quella che ha governato il Paese negli
ultimi 14 mesi. Il problema semmai è un altro e riguarda la concezione della
democrazia: sostenere come ha fatto Renzi nel suo discorso in Senato (altri lo
hanno imitato magari fuori del Parlamento) che andare a votare significherebbe
far vincere la Lega di Salvini, denuncia un atteggiamento elitario e
oligarchico che nulla ha a che vedere con i principi della democrazia,
rappresentativa o diretta che sia.
L’intesa PD-M5S ha molte implicazioni. Renzi controllerà
di fatto il nuovo esecutivo pur non facendone parte e Zingaretti più che
segretario del suo partito ne sarà il notaio, dal momento che per tenere tutti
uniti sceglie l’uovo oggi piuttosto che la gallina domani. I Cinquestelle non
sono da meno: evitano il dimezzamento della rappresentanza parlamentare e
salvano lo stipendio per tutti gli oltre 300 tra deputati e senatori, ma nel
loro orizzonte s’intravede già il grigiore dell’insignificanza che li destina
ad essere una ruota di scorta del sistema. La Lega, dal canto suo, paga il
momentaneo scotto di una mossa in apparenza inopportuna, incomprensibile anche
per molti dei suoi, ma è forse l’unica forza a mantenere intatta la prospettiva
di un cambiamento nel panorama asfittico e opportunistico della politica
italiana.
Cosa ha portato Salvini a fare la scelta che ha fatto? Lo
si è capito in Senato, nonostante il poco lucido discorso, quando invece di
ribattere punto su punto le accuse di un neodemocristiano, dalla cronaca reso eroe
per un giorno – lui che i media hanno sempre irriso come un burattino nelle
mani dei due vicepresidenti – il leader della Lega si è limitato a poche parole
significative per spiegare il suo gesto. Frasi purtroppo non comprensibili a
tutti o addirittura da iniziati, per di più inframmezzate dalla solita
inguardabile ostentazione del rosario: che senso ha rimanere in un governo accanto a un movimento che
ha bocciato le autonomie, che alla proposta di riforma fiscale basata su tre
aliquote progressive di riduzione delle tasse (dunque neanche la flat tax) si
sente opporre – come ingenuamente ha riferito lo stesso Nicola Morra ai
giornalisti qualche ora più tardi – che non ci sono le coperture finanziarie,
che si schiera ipocritamente per il NO TAV, quando è lo stesso presidente del
Consiglio ad approvarla, che in luogo degli investimenti produttivi propone in
modo demagogico il salario minimo a imprese già sull’orlo del fallimento? Con
quale faccia la Lega si sarebbe rivolta ai suoi dopo la finanziaria? Meglio
perdere qualcosa oggi che perdere tutto domani! Questo il messaggio in codice
di Salvini. C’erano altre strade? Può darsi. Servirsi della clausola contenuta
nel contratto di governo per dirimere le contese? Presentare comunque la
cosiddetta flat tax in Parlamento, mediare sulla legge per le autonomie,
spiegare che il salario minimo viene dopo la ripresa delle aziende in crisi?
Forse sì e forse no.
sergio
magaldi
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