Lo
scorso 8 luglio, Massimo Recalcati pubblicava su la Repubblica un interessante articolo in merito alle interviste
rilasciate da Sartre a pochi giorni dalla sua scomparsa. L’occasione gli era
offerta dalla traduzione in italiano del testo integrale di quelle interviste
[Jean-Paul Sartre, Benny Lévy, La
speranza oggi, Mimesis, maggio 2019, pp.163] curato da Maria Russo,
un’attenta studiosa del geniale poligrafo francese.
Pubblicate per la prima volta da Le Nouvel Observateur il 10, il 17 e il 24 marzo del 1980 – mentre
Sartre dal 20 marzo è ricoverato all’ospedale Broussais di Parigi, dove morirà
il 15 aprile – queste interviste fecero molto discutere, incontrando l’ostilità
dei “sartriani” e in particolare di Simone de Beauvoir già prima della loro
apparizione. Tant’è che secondo la testimonianza di Jean Daniel, direttore del
giornale, fu lo stesso Sartre a contattarlo telefonicamente:
«La
sua voce era perfettamente limpida, parlava con estrema autorità: “Credo di
sapere che siete nei guai”, mi disse, “so che i miei amici vi hanno assediato.
Sono io, Sartre, che vi chiedo di pubblicare questo testo, e di pubblicarlo
integralmente. Se non desiderate farlo, lo pubblicherò altrove, ma vi sarei
riconoscente se lo faceste voi. So che i miei amici vi hanno contattato, ma so
anche che sbagliano, l’itinerario del mio pensiero sfugge loro, a tutti,
compreso al Castoro…»[1]
Cosa
c’era di tanto scandaloso nel testo delle interviste che Sartre aveva rilasciato al suo
segretario personale – l’ex maoista Pierre Victor, convertitosi all’ebraismo,
sua fede di nascita, riprendendo, proprio su consiglio di Sartre, il vero nome
di Benny Lévy – e, causa la quasi totale
cecità, affidato alla rilettura della figlia adottiva, l’ebreo-algerina Arlette
Elkaïm? Ce lo dice Massimo Recalcati, proprio all’inizio del suo articolo:
«Come era possibile
che il filosofo che aveva sostenuto che "l’inferno sono gli Altri",
che aveva messo in rilievo la natura necessariamente conflittuale delle relazioni
umane, che aveva irriso la morale borghese della solidarietà e dell’Uomo (basti
ricordare il giudizio tagliente sul romanzo di Camus, La peste, reo di diffondere una "morale da
crocerossina"), in quella intervista riabilitasse sentimenti come la
speranza, la reciprocità, la fratellanza, la condivisione?»
Com’era possibile – si domanda ancora Recalcati – credere che il
“vero” Sartre abbia da ultimo sostenuto che «il rapporto di fraternità è il
rapporto primario tra gli esseri umani»? Eppure – conclude il giornalista di la
Repubblica – “Questa "morale della speranza" resta
l’ultima parola che Sartre, prima di congedarsi dalla vita, ci lascia in
eredità: è possibile che il desiderio dell’uomo non sia solo aspirato dal
desiderio (impossibile) di essere Dio, di essere causa sui, ma sia impegnato nella costruzione di una comunità
nuova, di una comunità ispirata alla fratellanza. Per l’ultimissimo Sartre si
deve abbandonare una teleologia della totalità nel nome di una morale fondata
su un nuovo desiderio di comunità. Non inseguire una totalizzazione
impossibile, ma dare corpo al principio di speranza in una comunità più
solidale e giusta. La tensione politica si annoda qui a quella morale: «Bisogna
immaginare un corpo di persone che lottano insieme». Il fine ultimo della
storia che il marxismo
eredita
dall’hegelismo è superato non da una prospettiva nichilistica, ma
dall’introduzione di un "altro fine", una sorta di
"obbligo" che ci vincola all’esistenza dell’Altro. Si tratta di una
dipendenza che non esclude affatto la libertà. Piuttosto bisogna ripensare il
carattere primario della fratellanza. È il passo levinassiano dell’ultimissimo
Sartre. Dove, evidentemente, la fratellanza non contiene nessuna omogeneità,
nessuna eguaglianza. Tuttavia, l’incontro con il volto dell’Altro non
solleva più solo l’angoscia medusizzante dell’alienazione e del conflitto
infernale, ma una prossimità che mi concerne e mi impegna: «Ciò che serve per
una morale è ampliare l’idea di fraternità fino a che essa diventi il rapporto
unico e evidente tra tutti gli uomini». È questo che sospinge Sartre verso
Levinas e verso l’ebraismo messianico, ovvero l’utopia di un regno che esclude
la violenza e lo sfruttamento”.
Alle stesse conclusioni giunge anche la curatrice del libro in un
suo intervento ad un recente convegno di studi su Sartre: “[…] Si può
andare oltre le porte chiuse dell’inferno relazionale descritto ne L’essere
e il nulla e considerare l’altro come un proprio simile” [2],
cioè come un fratello. Insomma, se la preistoria dell’umanità è caratterizzata
dal delitto di Caino e successivamente dalla lotta di classe descritta da Marx
è perché non si è riflettuto abbastanza sulla comune origine degli esseri umani e sulla necessità di ricercare un fine comune.
La
risposta dei “sartriani” era stata molto semplice. Come credere che a parlare
sia davvero Sartre, soprattutto quando afferma: «Non sento di essere il prodotto del caso, un granello di polvere
nell'universo, ma qualcuno che era aspettato, preparato, prefigurato. In breve,
un essere che solo un Creatore potrebbe mettere qui. E questa idea di una mano
creatrice si riferisce a Dio.» [da
Le Nouvel Observateur, marzo
1980]. Per Simone de Beauvoir, i “sartriani” e la redazione al completo di Les Temps Modernes quel “senile atto di
un voltagabbana” si spiega solo con le manipolazioni di Benny Lévy. Ancora nel
2005 Gisèle Halimi, avvocato e militante femminista, vecchia amica di Sartre,
dichiarerà: «Questa
intervista è incontestabilmente un falso [...] Sartre non era più in possesso
delle sue piene facoltà mentali»
Secondo
la curatrice dell’edizione italiana, non si tratta di una senile conversione di
Sartre dall’ateismo alla fede, e in particolare all’ebraismo, sulla scia del
suo segretario personale, come sembra credere Simone de Beauvoir, così come non
era stata un’adesione al cristianesimo l’aver scritto Bariona nel 1940 [3].
Infatti, solo se la si considera isolatamente, l’espressione di Sartre di non
essere “il prodotto del caso, un
granello di polvere nell'universo, ma qualcuno che era aspettato, preparato,
prefigurato etc…” può essere intesa come una professione di fede.
Diversamente, il suo significato è quello del Sartre di sempre, e cioè è l’idea
che si trova in ogni essere umano, cresciuto nella fede che viene abbandonata
non appena egli scopre l’assenza di
Dio, oppure è il riconoscimento di una Legge che governa l’universo ma sulla
quale nulla si può dire di più. Pure, l’autenticità della dichiarazione del
filosofo francese, nel senso del superamento dell’ateismo, è considerata plausibile
ancora oggi, persino nei circoli religiosi più tradizionali. Si legge in
proposito su una pagina recente dei Carmelitani Scalzi del vicentino:
«Un ateismo, quello sartriano, sempre in crisi con se stesso,
consapevole del proprio dramma, della propria impermanenza e contraddittorietà:
“La decisiva assenza di fede è una fede incrollabile”. In questo senso non
stupisce la possibilità che questa fede impossibile sia, almeno per una volta,
capitolata. E’ quanto forse successe nel Natale del 1940, nel campo di
prigionia dei nazisti di Treviri in cui erano rinchiusi tanto il
trentacinquenne Sartre quanto alcuni sacerdoti cattolici, i quali gli proposero
di scrivere un dramma natalizio: “Un
medesimo rifiuto del nazismo mi legava ai preti prigionieri nel campo. La Natività mi era apparsa
il soggetto capace di realizzare l’unione più larga tra cristiani e non
credenti. Si era convenuto, che dicessi quello che avrei voluto. Per me,
l’importante in questa esperienza era che, prigioniero, potessi rivolgermi agli
altri prigionieri ed evocare i nostri problemi comuni”. Ne risultò Bariona o il Figlio del tuono, pièce teatrale scritta, diretta e anche
recitata dallo stesso Sartre (nei panni di uno dei re magi). Se ne può leggere
una lusinghiera presentazione fatta da Mons. Ciattini, Vescovo di Massa
Marittima-Piombino e la sua citazione da parte del Card. Ravasi in occasione
della presentazione del volume L'Infanzia
di Gesù di papa Benedetto XVI: menzioni meritate giacché il dramma
è realmente toccante e religiosamente coinvolto, e nessun spettatore o lettore
penserebbe che a comporlo sia stato un ateo e miscredente […] Non ci è dato sapere se in quel momento il filosofo
francese, come il suo alter-ego Bariona,
avesse realmente vissuto un momento di fede: lui lo nega esplicitamente nella
prefazione alla pubblicazione del dramma, avvenuta nel 1962, ma sembra un
classico caso di excusatio non
petita. Mentre è del tutto franca e netta questa sua affermazione
in un’intervista del 1980, la cui autenticità venne ribadita dallo stesso
autore poco prima di morire: “Non sento di essere il prodotto del caso, un
granello di polvere nell’universo, ma qualcuno che era aspettato, preparato,
prefigurato. In breve, un essere che solo un Creatore potrebbe mettere qui. E
questa idea di una mano creatrice si riferisce a Dio” (da Le Nouvel Observateur, marzo 1980).
Affermazione che aveva scatenato lo scandalo dei suoi fedelissimi, in primis della sua compagna
Simone de Beauvoir, che lo aveva tacciato di essere un voltagabbana (en passant, menzioniamo l'articolo
"Dio nel teatro di Jean-Paul Sartre", uscito sulla rivista Teresianum nel 1965 […].Tuttavia, se Sartre si sia alla fine realmente
convertito, e quanto, è un problema che non possiamo sondare né
storiograficamente né teologicamente: in finale rimane una questione fra lui e
il Signore». [4]
Quanto al preteso ebraismo di Sartre, osserva
ancora la Russo :
“Non vi è motivazione per credere che Sartre, al termine della sua vita, si sia
avvicinato a una visione religiosa, nemmeno a quella cui si è convertito il suo
ultimo amico. A differenza di come ha inteso Beauvoir, non c’è un Sartre ebreo
contro un Sartre ateo, bensì la visione ebraica della storia e dell’esistenza
contro Hegel e contro Marx” [5]. C’è tuttavia in Sartre,
da un certo punto in poi, una rinnovata e particolare attenzione verso
l’ebraismo, testimoniata non solo da singolari questioni personali, ma
espressamente affermata nelle ultime interviste, laddove il “messianismo
ebraico” si sostituisce alla “mitologia progressista” [6], nel senso di colpire al
cuore la filosofia della storia di Hegel,
perché c’è una realtà della storia ebraica che il filosofo tedesco aveva
ignorato, dice ora Sartre, smentendo anche se stesso, allorché aveva scritto le
Riflessioni sulla questione ebraica: «Perché
nel momento in cui ho detto che non c’era una storia ebraica pensavo la storia
sotto una forma ben definita: la storia della Francia, la storia della
Germania, la storia dell’America […]. In ogni caso la storia di una realtà
politica sovrana con una terra e con rapporti
con altri Stati simili […]. Bisognava concepire la storia ebraica non
soltanto come storia di una dispersione degli ebrei nel mondo, ma anche come
l’unità di questa diaspora, l’unità degli ebrei dispersi» [7]
In che senso allora il messianismo
ebraico si sostituisce non solo alla “mitologia progressista” ma anche alla
prassi rivoluzionaria e alla concezione della Storia di Hegel e soprattutto di
Marx che Sartre aveva condiviso in Critica
della ragione dialettica? Innanzi tutto occorre abbandonare il concetto di
“fratellanza-terrore” perché – dice Sartre – dove c’è terrorismo non ci può
essere rivoluzione e poi perché Marx si è limitato a descrivere la “preistoria
dell’umanità”, mentre ciò che occorre è assumere un fine morale in grado di superare la sub-umanità di cui siamo ancora
i portatori: «Il rapporto più profondo tra gli uomini è quello che li unisce al
di là dei rapporti di produzione […] Tutta la distinzione delle sovrastrutture
di Marx è un buon lavoro, ma è interamente sbagliato, perché il rapporto
primario di un uomo con un altro uomo è un’altra cosa ed è ciò che bisogna che
noi scopriamo.» [8] In
tale prospettiva, continua Sartre, il fine
ebraico è ben diverso da quello del marxismo perché a differenza di
quest’ultimo «non è un fine definito a partire dalla situazione presente e
progettato nel futuro, con delle fasi che permetteranno di raggiungerlo
attraverso lo sviluppo di certi fatti oggi.» [9] La finalità ebraica – a
giudizio di Sartre – fa dell’ebreo un
soggetto metafisico: egli crede “più o meno coscientemente” in un mondo a venire dove gli esseri umani
vivranno finalmente gli uni per gli altri e questa idea è esattamente ciò che
noi intendiamo per rivoluzione: «La
soppressione della società presente e la sua sostituzione con una società più
giusta in cui gli uomini possono avere buoni rapporti gli uni con gli altri.» [10]
Per quanto utopistica possa apparire
questa concezione dell’ultimo Sartre, non si può negare che le sue radici si ritrovino
nell’esperienza maturata nel corso degli anni: individualista e anarchico
all’epoca di La Nausea e de L’Essere e il Nulla, egli scopre il
senso del collettivo e dei gruppi durante la guerra, la prigionia nazista e la
resistenza, tenta successivamente la mediazione tra esistenzialismo e marxismo e,
pur proponendosi come “compagno di strada” dei partiti comunisti, rivendica una
concezione del socialismo che rivaluti il ruolo del soggetto. Voce del terzo
mondo negli anni Sessanta contro il neocolonialismo, il comunismo sovietico e i
partiti comunisti dell’Occidente, attivista politico dopo il Sessantotto,
Sartre, infine disilluso, scopre che la rivoluzione è impossibile senza una
presa di coscienza e un fine morale
che si proponga una nuova umanità: un intento pedagogico di cui il messianismo
ebraico offre l’esempio.
L’idea di fratellanza su cui si
basano le ultime analisi di Sartre ha forse una fondazione mitologica, come
sembra suggerirgli il suo intervistatore? Niente affatto, è la risposta di
Sartre, perché la fratellanza poggia su una origine comune: la nascita di tutti
da una stessa madre, la madre-terra, e per essere coerente ed affermare in
pieno la condizione umana questa origine
comune deve anche ricercare e sperare di costruire un fine comune di cui la democrazia è la prima pietra, perché la democrazia
– osserva Sartre – non è soltanto «una forma politica di potere […] ma una
vita, una forma di vita.» [11]
Naturalmente si tratta di una
speranza che paradossalmente nasce proprio dalla disperazione di osservare il
mondo così com’è, e l’uomo resta in fondo quello che è sempre stato per Sartre:
una “passione inutile”, ma è proprio la forza di quella passione a mantenere
viva la speranza, come nelle ultime
parole pronunciate lucidamente da Sartre solo qualche giorno prima di
andarsene:
«Davanti a questa terza guerra
mondiale che potrebbe essere dichiarata un giorno, davanti a questo insieme
miserabile che è il nostro pianeta, mi torna la tentazione di cadere nella
disperazione: l’idea che non finirà mai, che non ci sia uno scopo, che non ci
sono che fini particolari per i quali combattiamo. Facciamo delle piccole
rivoluzioni, ma non c’è un fine umano, non c’è qualcosa che interessa l’uomo,
non ci sono che disordini […] In ogni caso, il mondo sembra brutto, malvagio e
senza speranza. Questa è la silenziosa disperazione di un vecchio che vi morirà
dentro. Ma appunto, io resisto e so che morirò nella speranza; ma questa
speranza bisogna fondarla.
Occorre tentare di spiegare perché il
mondo oggi, che è orribile, non è che un momento nel lungo sviluppo storico,
che la speranza è sempre stata una delle forze dominanti delle rivoluzioni e
delle insurrezioni, e che sento la speranza come una concezione del futuro.» [12]
[1] Jean-Paul Sartre, Benny
Lévy, La speranza oggi, Mimesis,
maggio 2019, p.11. Castoro è – com’è noto – il nomignolo con cui Sartre si
rivolgeva abitualmente a Simone de Beauvoir
[2] Maria Russo, Necessità e libertà in Sartre, cfr. www.grupporicercasartriana.org
[3] Maria Russo, introduzione a La speranza oggi, cit., p.13.
[4] Cfr., F. Iacopo Iadarola ocd, sito dei
Carmelitani Scalzi della Provincia Veneta,
01 gennaio 2016
[5] Op.Cit., p.29
[6] Così si esprime (e riporta Maria Russo) il
filosofo e saggista vivente Bernard-Henri Lévy (da non confondere con Bénny
Lévy, segretario personale di Sartre) in Le
siècle de Sartre, trad.it., Il Saggiatore, Milano 2004,pp. 501 e 511.
[7] Op.Cit., p.126
[8] Ibid. p.102
[9] Ibid.
p.130
[10]Ibid.
p.131
[11]Ibid. p.98
[12]Ibid. p.135
Splendido articolo, modernissimo Sartre. Per chi ha avuto tutta la vita il coraggio della Ricerca, non è peregrino supporre che l'ultimo dono di una vita instancabile sia proprio il più pregiato e aspramente guadagnato dono della Speranza.
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