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Gioele Magaldi, ALCHIMIA – un problema storiografico ed ermeneutico – MIMESIS EDIZIONI, Milano 2010, pp.140, 14,00 Euro.
Segnalo questo saggio che ha il merito di proporre tanto agli studiosi della materia, quanto ai “curiosi”, affascinati dall’Arte Reale, un’analisi e una riflessione sul significato stesso di “Alchimia”, al di là delle sempre più frequenti monografie sulla tradizione alchemica, presenti sul mercato editoriale.
In via preliminare – osserva l’autore – dobbiamo metterci d’accordo su cosa intendiamo quando parliamo di alchimia e il metodo socratico gli appare quanto mai attuale: “A distanza di secoli, la fondamentale domanda che Socrate usava rivolgere a qualsivoglia interlocutore, onde delimitare, chiarire e sottoporre alla comune consapevolezza il senso che costui dava a una parola, a un concetto, spesso irriflessivamente gettato nella discussione, conserva intatto il suo valore metodologico: “Tì estì?”, “Che cos’è?”, “Che cosa intendi dire?”
Un secondo problema appare quello della “delimitazione storiografica” dell’ambito alchemico, giacché “proprio le opere più dichiaratamente ‘alchemiche’ offrono spesso l’imbarazzante spettacolo della sconfessione reciproca da parte dei sedicenti cultori dell’arte”, mentre talora sono i generi letterari più diversi a fornirci le “chiavi” giuste per penetrarne i segreti.
La storiografia procede così nel definire “vero alchimista” sia colui che anticipa le operazioni e le conquiste della chimica, sia chi possedendo strumenti, procedure e metodologie della scienza strutturale della materia, spinge la propria ricerca sempre più avanti senza tuttavia discostarsi dall’ordine naturale e dalle sue leggi. In tal senso, dunque, l’alchimia (spagiria o archimica) è vista ad un tempo come antesignana della chimica moderna (per lo più dal chimico “illuminato”) o addirittura come suo coronamento, nel senso della completezza e della perfezione (dall’alchimista altrettanto illuminato).
Una simile impostazione ermeneutica ha come presupposto e/o conseguenza che l’alchimia occidentale finisca col descrivere le proprie operazioni utilizzando il linguaggio della ricerca di laboratorio: “atanor”, “forno”, “fuoco”, “alambicco”, “materia prima” “calcinazione” etc… e che taluni prendano alla lettera tali termini, andando in cerca dell’oro materiale e tralasciando l’oro filosofico, divisi anche tra loro sia nel rinvenimento della materia prima, sia nel ricostruire le varie fasi dell’Opera, mentre altri assegnano a quel linguaggio una valenza meramente simbolica, riconducibile ad una impostazione psicologica, terapeutica e/o ermetica dell’alchimia, intesa come “arte di trasfigurazione dell’anima”, ricerca dell’elisir di lunga vita, capacità di trasformare se stessi da pietra grezza in pietra filosofale, dall’oscuro metallo plumbeo della condizione umana all’oro splendente in cui possiamo mutarci, rettificando noi stessi in virtù della scintilla divina che è in noi.
Naturalmente, anche in questa prospettiva, le strade si dividono fra i tanti e diversi interpreti: agli interessati sarà comunque utile seguirle tutte, condotti per mano dall’autore.
Il solito saggio intellettualistico e privo di novità. A quando un Renè Alleau o un Bernard Husson italiano ?
RispondiEliminaL'Alchima non è materia per eruditi accademici privi di ogni fede, nè per junghiani eccentrici, nè per occultisti dell'ultima ora.
Si legga attentamente il saggio introduttivo di Piero Fenili al testo di Helmuth Gebelein, edizioni mediterranee, " Alchimia".