Un romanzo, questo di Niccolò Ammaniti, che sembra iniziare in “tono minore”, percorrendo le strade consuete della narrativa italiana contemporanea e che invece subito ti trasporta in uno scenario bizzarro, al limite tra realtà e surreale, animato di personaggi prevedibili e tuttavia presentati al limite dell’esasperazione, in un linguaggio niente affatto paludato, nel suo giusto equilibrio tra satira e dissacrazione.
Da una parte Saverio e le Belve di Abaddon, setta satanica di Oriolo Romano, cui il diavolo non riuscirà a rubare l’anima, dall’altra Fabrizio Ciba, noto scrittore, un narciso sempre in cerca di successo e di avventure. In mezzo, una turba di personaggi che interpretano se stessi secondo i canoni etico-estetici richiesti dall’odierna società globalizzata. Tra loro, un parvenu, naturalmente ricchissimo e cafone, che metterà a disposizione dei propri ospiti, per una festa che rappresenti anche un evento straordinario nella vita cittadina e nazionale, la maestosa Villa Ada romana, acquistata da un comune imbelle e poco preoccupato (come sempre) di difendere le bellezze artistiche e naturali del proprio territorio.
In virtù di fattori naturali e/o storicamente determinati, forse anche imputabili a quel tanto o poco di sovrannaturale che penetra nelle vicende umane, il paradiso annunciato dalle cronache mondane, nel quale tutti vorrebbero essere invitati, si trasforma ben presto in un inferno dantesco dove ognuno finisce col trovare quel che cerca veramente e merita, o quasi.
Un romanzo in più tratti incalzante per chi nella lettura ama il ritmo e rifugge dai
cosiddetti “tempi morti” della narrazione, che qualche volta ti costringono a pensare,
ma più spesso annoiano. Un finale da castigat ridendo mores che tuttavia non dispiace.
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