mercoledì 4 aprile 2012

TABU' RELIGIOSI, MASCHILISMO E POTERE in "Una separazione", film di Asghar Farhadi





Una separazione, film di Asghar Farhadi, Iran, 2011, 123 minuti


 Con il pretesto di raccontare una lite tra famiglie, Asghar Farhadi, il regista iraniano che nel 2009 ha vinto a Berlino l’Orso d’argento per About Ely, pone una serie di quesiti sulla società iraniana e sulle responsabilità del regime che la governa. Lo fa con garbo, necessariamente costretto da una censura che ha già condannato il regista Yafar Panahi, al quale Asghar non ha mancato di esprimere la propria solidarietà.

 Ne nasce un film intenso per ritmo, contenuti e valori, degno dell’Oscar 2012 per il miglior film straniero e meritevole di quattro riconoscimenti alla sesta edizione degli Asian Film Awards: miglior film, regia, sceneggiatura e montaggio.

 Dopo lunghissima attesa, Simin [Leila Hatami] che insegna e appartiene alla buona borghesia, ottiene per sé e per la propria famiglia il permesso di espatrio: il marito Nader [Peyman Moadi] che lavora in un ufficio e la figlia undicenne Termeh [Sarina Farhadi] che frequenta la scuola. Ma Nader non vuol saperne di lasciare il vecchio padre malato di Alzheimer. Si giunge così alla separazione [che in Iran può essere solo consensuale] davanti ad un giudice che parlerà nascosto alla macchina da presa. Nader non ha difficoltà a separarsi e a lasciar partire la moglie, ma è irremovibile sulla figlia. Quando Simin chiede al giudice di poter partire con Termeh, “[…]Perché qui non c’è futuro per i giovani”, il magistrato diventa minaccioso e la incalza: “Perché signora cosa c’è che non va in questo paese?”.

 La separazione si conclude con un nulla di fatto, ma Simin va a vivere nella casa dei genitori, lasciando figlia, marito e suocero malato di Alzheimer. In realtà, Simin ha confidato a Termeh che sarà per poco tempo e che aspetta solo il momento che suo marito le dica di tornare. Ma Nader, i cui valori sono improntati di laicismo e buoni principi, ha però un carattere inflessibile e determinato e non vuole “umiliarsi”. Per assistere il padre assume Razieh [Sareh Bayat], una donna devota di Allah che lavora di nascosto a suo marito, oppresso dai creditori e con problemi depressivi.

 Il giorno dopo la partenza della nuora, peggiorano le condizioni di salute del padre di Nader che improvvisamente non è più nemmeno in grado di regolare le proprie necessità fisiche. La badante, combattuta tra l’umana pietà e i tabù imposti dalla fede, per risolvere il dilemma chiamerà al telefono l’ufficio preposto ai comportamenti conformi alla religione. D’ora in avanti, sarà proprio Razieh la causa involontaria che scatenerà il conflitto tra due famiglie, l’una discretamente agiata e culturalmente elevata, l’altra povera e la cui unica ricchezza sembra essere la fede. E, nonostante tutto, sarà proprio la fede, o meglio il timore che Dio la castighi, ad evitare che la donna commetta un’ingiustizia che, pure, avrebbe riportato la pace tra le famiglie!

 Lo sguardo del regista si muove impietoso tra le contraddizioni dei protagonisti: le donne [Razieh, Simin e sua figlia] sono migliori degli uomini ma neppure loro, in una realtà soffocante dove per sopravvivere c’è bisogno del compromesso, rifuggono dal pregiudizio e dalle piccole menzogne. Gli uomini sono anche peggio: tra laicismo, orgoglio e senso di giustizia, Nader cerca la pietà e l’amore solo come forme di potere, e il marito di Razieh è violento, maschilista, incapace di comprendere e di vivere. Certo, non solo per colpa sua.

 Un’indagine, quella di Asghar, non solo sulle condizioni della società iraniana, ma più in generale sulla convivenza umana.


sergio magaldi

Nessun commento:

Posta un commento