Le ventilate
dimissioni del Presidente della Repubblica, ormai date addirittura per
imminenti, pongono non da oggi diversi interrogativi nell’opinione pubblica.
Com’è possibile – si chiede il cittadino medio – che Napolitano, dopo aver
accettato con indubbio spirito di sacrificio la permanenza al Quirinale, con
l’obiettivo di garantire almeno l’approvazione delle riforme
costituzionali e il varo di una nuova
legge elettorale, decida di andarsene proprio ora? È vero che il Presidente annunciò
sin dal momento della rielezione la volontà di non completare il nuovo
settennato, ma di qui a lasciare dopo un anno e mezzo… ce ne corre! Soprattutto
considerando che l’abolizione del bicameralismo perfetto, cui Napolitano
sembrava tenere particolarmente, è ancora in cantiere?
Le risposte che il suddetto
cittadino ha saputo trovare, confortato dal buon senso dei media, sono state
per diversi giorni quelle legate allo stato di salute e/o alla condizione
esistenziale del Presidente: “Forse è disgustato delle continue e inconcludenti
manovre dei partiti, forse è gravemente ammalato o forse, giunto ormai alla
soglia dei novanta anni, è semplicemente stanco della ribalta”. Con l’auspicio
che non fosse la malattia la ragione dell’improvviso abbandono, il medesimo
cittadino non sapeva nascondere un senso di frustrazione, una sostanziale
disillusione e una profonda inquietudine per il futuro.
Gli avvenimenti
dell’ultima settimana hanno tuttavia fatto sorgere nuovi interrogativi nella
mente del cittadino medio.
Il Presidente del
Consiglio sembra essersi alienato molte delle simpatie di cui godeva: in Europa,
con la critica di Juncker, della Merkel e della Germania, nonché di coloro che
continua a definire i “tecnocrati europei”, con il lancio del principio di flessibilità di contro a quello di stabilità – concetto ribadito anche questa mattina in
Parlamento con l’affermazione che gli investimenti dovrebbero essere esclusi
dal patto di stabilità perché non vanno considerati come spesa ma come
interventi produttivi con l’obiettivo dello sviluppo, della crescita e
dell’occupazione – e infine con la presentazione di una manovra che la
commissione europea giudica carente e bisognosa di misure correttive. In Italia,
con l’approvazione del Jobs Act e l’abolizione del “famoso” articolo 18 che gli
è valsa la guerra della minoranza del suo partito e quella del sindacato, con
lo sciopero generale del 12 Dicembre e rompendo con Maurizio Landini, al
vertice della FIOM e sino a qualche tempo fa suo interlocutore privilegiato.
Il cittadino medio ha
intanto potuto riflettere sugli ultimi interventi del presidente Napolitano. Il
10 Dicembre all’Accademia dei Lincei:
“ […] Indicò
infine, con grande sapienza storica, la strada maestra delle "ragionevoli
speranze", da coltivare "con perseveranza" e con "ogni
sobrietà, giorno per giorno". Mi auguro siano risultate tali quelle
ricavabili dalle mie considerazioni sulla politica, tenendoci ben lontani sia
dai "senza speranze" sia dai banditori di "smisurate speranze"
[…] In questo inaspettato prolungamento del mio mandato istituzionale ho avuto
la fortuna di incontrare molti giovani all'inizio della loro esperienza
parlamentare e di governo, cui sono giunti spesso senza alcun ben determinato
retroterra. A ciascuno di loro ho cercato di ricordare quanto sia importante
impegnarsi a fondo e con umiltà nell'attività politica, con spirito di servizio
e scrupolo nell'approfondimento di merito delle principali questioni che
coinvolgono la nostra comunità. Sono convinto che questa sia la strada migliore
per porre i loro talenti al servizio del Parlamento e del paese, impedendo
l'avvitarsi di cieche spirali di contrapposizione faziosa e talora persino
violenta, e invece alimentando, appunto, "ragionevoli speranze" per
il futuro dell'Italia e dell'Europa.
Il giorno successivo [11 Dicembre] al Teatro Regio di
Torino, nel primo dei due giorni dedicati all’incontro di amicizia tra Italia e
Germania, alla presenza di Joachim Gauck, Presidente della Repubblica Federale
Tedesca:
“ […]in occasione - ad esempio - delle elezioni per
il Parlamento europeo. Alla vigilia di quelle elezioni, io e lei,
Presidente [Germania] Gauck, lanciammo un "appello" insieme al
Presidente polacco Komorowski, per mettere i cittadini dell'Unione in guardia
contro le derive del populismo e di un antieuropeismo che ha trovato fertile
humus in una crisi economica difficilissima da gestire. Abbiamo chiamato gli
elettori a riacquisire e diffondere la consapevolezza che all'integrazione
dobbiamo settant'anni di crescita e progresso sociale e civile e innanzitutto -
premessa essenziale - di pace in Europa. Come sottovalutare questa conquista
preziosa, culminata a fine secolo nell'unificazione dell'Europa dell'Ovest, del
Centro e dell'Est entro le istituzioni e le regole dei Trattati, a partire da
quelli di Roma?”
Dove,
pure, il Presidente Napolitano non ha mancato di sottolineare la “complessiva
inadeguatezza a padroneggiare le implicazioni della creazione dell'Euro e di una politica monetaria
sovranazionale”, dicendosi al tempo stesso sostanzialmente fiducioso
nell’impegno dell’Unione a sconfiggere la recessione e a rilanciare la
crescita:
“ […] C'è
stata - questa è la verità - una complessiva inadeguatezza a padroneggiare le
implicazioni della creazione dell'Euro e di una politica monetaria sovranazionale,
a darvi tutte le proiezioni e gli sviluppi necessari sul piano delle politiche
fiscali ed economiche e ad avanzare sul terreno di una Unione Politica. Uscire
da quei limiti fatali e sciogliere in questa ottica i nodi di una crisi nata
fuori d'Europa ma degenerata in Europa nella più profonda e ostinata
recessione, questa è la nostra responsabilità. Di Italia e Germania in modo
particolare, per il peso che abbiamo avuto nei decenni più fecondi della
costruzione europea […] Di qui l'impegno che in termini generali non ha potuto
non essere condiviso, sia pure con accentuazioni diverse, dalle istituzioni
dell'Unione: l'impegno a sconfiggere la recessione, scongiurare la deflazione,
adottare misure idonee a rilanciare la crescita ponendola su basi di maggiore
produttività e competitività delle nostre economie. E ciò senza trascurare -
come egualmente sembra da tutti riconoscersi - la prospettiva del riequilibrio
e risanamento delle nostre finanze pubbliche, dei nostri bilanci”.
Parole nobili quelle del Presidente e
certamente condivisibili, nel loro stile vagamente notarile, dal partner
tedesco. Affermazioni che nella loro sagacia sembrano tese a ristabilire quel
clima idilliaco tra Italia e Germania che le politiche dell’Ulivo e del
Centro-Destra berlusconiano hanno coltivato per più di vent’anni [con il
risultato che abbiamo sotto gli occhi] e che Renzi, il giovane ribelle, ha
rischiato di mettere in questione.
Il 12 Dicembre, nel
secondo e ultimo giorno dell’incontro Italia-Germania, coincidente con lo
sciopero generale proclamato dai maggiori sindacati italiani:
“[…] Poi è la
giornata numero due del Forum di Dialogo italo-tedesco ed è anche la giornata -
ma le due cose sono indipendenti l'una dall'altra - dello sciopero generale
proclamato proprio per oggi che è il segno senza dubbio di una notevole
tensione nei rapporti tra sindacati e governo. Io non entro ovviamente nel
merito delle ragioni degli uni o degli altri, mi auguro che si discutano anche
sia le decisioni già prese, come quella della legge di riforma del mercato del
lavoro, sia quelle da prendere soprattutto per il rilancio dell'economia e
dell'occupazione in un contesto europeo, e che si trovi la via di una
discussione pacata. Naturalmente poi il governo ha le sue prerogative e le ha
anche il Parlamento, e ha il suo ruolo da svolgere il sindacato. Sarebbe bene
che ci fosse rispetto reciproco di queste prerogative e che non si andasse ad
una esasperazione come quella di cui oggi abbiamo il segno e che non fa bene al
Paese".
Parole anche queste ispirate da prudenza,
senso delle istituzioni e consapevolezza della distinzione dei poteri in uno
stato democratico, dalle quali, nondimeno, il cittadino mediamente informato,
anche se ignaro dei giochi della politica, può farsi l’idea, magari
erroneamente, che il Presidente abbia voluto tirare nuovamente le orecchie al
“giovane ribelle” di Palazzo Chigi.
Ecco allora che il suddetto cittadino – rallegrandosi
che le dimissioni del Presidente forse non sono dettate dalle condizioni di
salute – comincia a pensare, forse a torto, che altre siano le ragioni
dell’abbandono anticipato del Quirinale. Anche se Renzi gode ancora del favore
della maggioranza di quelli che vanno a votare, non piace più a quelli che
contano. Non ha portato a compimento le riforme costituzionali, né la legge
elettorale, né altre leggi significative [A rimproverarlo in tal senso, in
Italia, sono proprio quelli che difendono ancora il bicameralismo perfetto e le
lobby del privilegio], e per fare approvare l’unica vera riforma interessante per Eurogermania, il Jobs Act, ha
spaccato il partito e rotto con i sindacati, dimostrando una scarsissima
capacità di mediazione politica in un Paese che del compromesso ha sempre fatto
la propria bandiera, ma soprattutto ha lanciato una insostenibile sfida
all’Europa, per di più cercando un alleato nella Francia di Hollande.
Con la questione dell’elezione del nuovo
Presidente, con la maggioranza dei parlamentari del suo partito a lui
sfavorevole, Renzi non potrà fare eleggere il “suo” candidato al Quirinale, né
potrà minacciare lo scioglimento delle Camere, ritarderà le riforme, dovrà
giungere a compromessi, prima di tutto con l’Europa, insomma sarà solo contro
tutti e rischierà di alienarsi in breve tempo anche il favore popolare.
Sergio Magaldi
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