A
quasi due mesi dal voto degli italiani, ripropongo di seguito i 5 post con cui
ho commentato sin qui i tentativi di dare un governo al Paese, sino al mandato esplorativo conferito dal
Colle al Presidente della Camera per accertare se vi siano le condizioni di
un’alleanza tra Cinquestelle e Partito Democratico. Dalle dichiarazioni di
Martina, segretario reggente del Pd, dopo il colloquio del pomeriggio di ieri
tra la delegazione del partito e Roberto Fico, sembra aprirsi uno spiraglio
che, Renzi permettendo, porterà ad un governo per un programma non del tutto
lontano da quello che individuavo nel post del 14 aprile u.s. e cioè:
“Il Movimento Cinque Stelle con il Pd e con Leu potrebbe concordare:
1) Lo ius soli [che piace a Fico,
presidente della Camera dei deputati e ad una parte dei militanti pentastellati
e che è nel programma del Pd e di Leu], 2) Il reddito di inclusione dei cittadini, un ibrido cioè tra il reddito di inclusione del
Pd e il reddito di cittadinanza del M5S, ricorrendo per finanziarlo alla
reintroduzione dell’IMU sulla prima casa [cara a Leu, ma anche al Fatto
Quotidiano di Travaglio che dell’accordo M5S-Pd-Leu è uno degli autorevoli
sostenitori], l’introduzione di una patrimoniale “una tantum”, una “sforbiciata”alle
pensioni di reversibilità, il ricalcolo dei vitalizi degli ex parlamentari,
esteso alle pensioni di tutti i cittadini oltre una certa soglia e ridefinito
con il metodo contributivo, la soppressione di tutte i bonus alternativi al
predetto reddito di inclusione dei cittadini, 3)Una velata riforma dei centri per l’impiego, funzionale al punto precedente, 4)Una minirevisione
della legge Fornero, 5)Una miniriforma del
Jobs Act, 6)Un aggiustamento della riforma della
cosiddetta buona scuola che lo stesso Renzi ha giudicato necessario, 7)Una politica per
l’immigrazione sulla scia della svolta data dal ministro Minniti e che ha ricevuto l’apprezzamento di Di Maio,
8) Misure contro
la corruzione e il conflitto di interesse. Come
si vede, c’è n’è d’avanzo per un contratto di legislatura e forse
anche più”.
Alla
luce del lavoro compiuto dal prof. Giacinto Della Cananea per conto dei
Cinquestelle e della presa di posizione delle molteplici anime del Pd, mi
accorgo di aver persino esagerato in ottimismo ed è molto probabile che i punti
3-4-5 e forse 8 restino lettera morta. Se dovesse davvero realizzarsi l’intesa
tra Cinquestelle e Pd si potrà parlare di un vero governo del cambiamento, come
continua a ripetere Di Maio? Restano molti dubbi e una sola certezza: la futura
vittoria elettorale della Lega.
Al di là delle manovre per la cosiddetta
governabilità, non si può dimenticare che oggi cade la ricorrenza della Liberazione dall’occupazione
nazifascista:
E come potevamo noi
cantare
con il piede straniero
sopra il cuore,
fra i morti abbandonati
nelle piazze
sull’erba dura di
ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli,
all’urlo nero
della madre che andava
incontro al figlio
crocifisso sul palo del
telegrafo?
Alle fronde dei salici,
per voto,
anche le nostre cetre
erano appese,
oscillavano lievi al
triste vento.
[Salvatore Quasimodo, Alle fronde
dei salici]
Il 25 aprile del 1945 rappresentò
il sogno di tanti italiani per un Paese più giusto e meno corrotto, dove la
libertà non restasse un principio astratto ma si incarnasse concretamente nella
realtà di ogni giorno per il riconoscimento dei diritti umani e sociali dei
cittadini. Senza retorica, dovremmo chiederci a distanza di 73 anni quanta
strada abbia fatto quel sogno e quanta strada potrebbe fare in futuro.
LA SCELTA
ELETTORALE DEL 4 MARZO
Giovedì 1 marzo 2018
In prossimità delle elezioni politiche del 4
marzo, mi viene in mente una volta di più il Saggio Sulla Lucidità [Universale Economica Feltrinelli Milano, 2011,
pp.302] del premio Nobel per la letteratura, José Saramago. Lì, un
paese democratico immaginario che in realtà nasconde una vocazione autoritaria
e un comune denominatore tra i partiti: i cittadini sono considerati tali solo
nel giorno delle elezioni, per il resto del tempo sono sudditi. Qui, un paese
altrettanto democratico, almeno nelle apparenze, dove tutto si decide altrove e
dove la classe politica non fa neppure il tentativo di proporre una legge
elettorale decente, ma ne assume una d’accatto, un ibrido indecente, dal
momento che il fine della tornata elettorale non è quello di governare il
Paese, ma quello di dividersi posti di potere e lucrose prebende.
Con
questa legge, infatti, ogni fazione è ben consapevole di non poter vincere, per
questo fa promesse strabilianti agli elettori, tanto sa che da sola non potrà
governare e che perciò non sarà chiamata a rendere conto di quanto promesso:
l’unico obiettivo reale è quello di non perdere o di “perdere discretamente”:
il M5S si accontenta di ottenere una percentuale di voti più
alta degli altri come singolo movimento o partito e questo è già un piano
ambizioso tenuto conto di come sta governando Roma, il Centrodestra di
averne una più alta come coalizione e, al suo interno, la Lega di avere più
voti di Forza Italia, ma i leghisti finirebbero per gridare alla
vittoria se già gli riuscisse di avvicinarsi alle percentuali del partito di
Berlusconi, dal momento che nelle precedenti elezioni il rapporto era stato del
22% [Pdl] contro il 4% [Lega Nord]. Chi rischia di più è come al solito Renzi:
il PD non potrà essere né il singolo partito più votato e
neanche aspirare a rappresentare – insieme agli altri partitini e movimenti
improvvisati – la coalizione più votata, inoltre sa di dover pagare la
scissione interna ma, com’è noto, l’ex sindaco fiorentino ama le sfide
impossibili, come fu in un altro 4 del mese [Dicembre 2016], quando con una
truppa in Parlamento che non arrivava a rappresentare il 22% dei voti espressi
[considerando il No al Referendum della frangia del suo partito che poi si
sarebbe scissa] lanciò il proprio guanto contro il 78% rappresentato da tutti
gli altri partiti, di fronte ad un elettorato che tradizionalmente ha sempre
ubbidito a parrocchie e partiti. Una sfida rilanciata anche in questa
occasione, nell’approvare una legge elettorale ridicola che, nell’intento di
punire i Cinquestelle, castiga prima di tutto il PD e premia il centrodestra di
Berlusconi. Quanto ai frazionisti di Liberi e Uguali con una
percentuale superiore al 5% sarà trionfo, al 3% sarà comunque vittoria, tanto
più che sono stati gli unici, in questa grottesca campagna elettorale, a non
aver solleticato la pancia degli italiani con appetitose ricette ma, anzi, ad
aver preso di mira il loro portafoglio, con la promessa di ripristinare le
tasse sulla casa di abitazione, con una patrimoniale cervellotica in teoria e
iniqua in pratica, spiegata da Bersani in TV come meglio non si potrebbe, e con
la proposta addirittura di aumentare l’IRPEF, naturalmente, bontà loro, con
modalità progressive.
E
continuando le associazioni con il clima elettorale descritto da Saramago: lì
una pioggia torrenziale nel giorno del voto che favorisce il disegno di un
elettorato finalmente cosciente di dover disertare le urne, qui l’auspicio che
la neve che in questi giorni cade copiosa sulla penisola faccia aumentare il
numero degli astenuti, accanto a quello delle schede bianche e nulle.
Certo,
non è bello giungere a queste conclusioni, perché la democrazia è un bene
prezioso, spesso conquistato col sangue, e il voto resta uno strumento
insostituibile di partecipazione alla vita di una comunità. Mai come questa
volta però si è caduti così in basso, e quando si conosca in anticipo la sorte
che toccherà ai voti deposti nell’urna e si abbia consapevolezza del grande
bluff perpetrato ai danni dell’elettorato, il cittadino ha il dovere di
riflettere e valutare fino in fondo se non sia giunta l’ora di adottare nuove
strategie. Astensione, scheda bianca [la scelta
forse meno adatta in simili circostanze, perché altri potrebbero usarla al
posto nostro], scheda annullata nella cabina [la scelta più responsabile perché la
distingue da quella dell’astensionismo dei pigri e dei qualunquisti], queste
sono le reali minacce per l’oligarchia al potere, non certo il voto dato a
questo o quel partito, proprio come accade nel libro di Saramago:
Il
segno che qualcosa di grave stia per accadere è già nella pioggia torrenziale
che si abbatte sulla capitale all’alba del giorno fissato per le elezioni. I
rappresentanti dei tre partiti in lizza, presenti nel seggio elettorale
quattordici, si scambiano le proprie opinioni in merito:
“Sarebbe
stato preferibile rinviare le elezioni” è l’osservazione del
rappresentante del p.d.m. [Partito di mezzo o di centro], mentre il
rappresentante del p.d.d. [Partito di destra] si limita ad annuire e quello del
p.d.s. [Partito di sinistra], se non fosse stato trattenuto dall’improvviso
arrivo di un membro del seggio, “c’è da presumere – osserva Saramago
– che non avrebbe mancato di esprimersi sulla linea di un chiaro ottimismo
storico, con una frase come questa, per esempio, I votanti del mio partito sono
persone che non si intimoriscono per così poco, non è gente da restarsene a
casa per quattro misere gocce d’acqua che cadono dalle nuvole”.[op.
cit. pp.11-12]
La
pioggia passa, gli elettori sia pure in misura ridotta cominciano a recarsi ai
seggi ma, al termine dello scrutinio nell’intero paese, il risultato è
imbarazzante, con meno del 25% di voti validi così ripartiti: 13% alla destra,
9% al centro, 2,5% alla sinistra. Pochi i voti nulli e le astensioni, tutto il
resto, più del 70% al fantomatico partito della scheda bianca.
La
ripetizione della tornata elettorale non ha miglior esito, al contrario: destra
8%, centro 8%, sinistra 1%, zero nulli e astenuti, 83% schede bianche.
“Il
primo ministro riconobbe che la gravità della situazione era estrema, che la
patria era stata vittima di un infame attentato contro i fondamenti basilari
della democrazia rappresentativa”[p.39].
A
nulla era valso ricorrere allo stadio d’assedio, con l’esercito ad occupare
strade, stazioni e aeroporti per impedire la diffusione del contagio, il
diffondersi della propaganda a favore del partito della scheda bianca. Il
convincimento del presidente della repubblica, del primo ministro e del governo
fu quello di ricorrere ad altri metodi meno appariscenti e più utili. Primo fra
tutti, quello di infiltrare agenti dei servizi speciali in seno alle masse e
nei gangli più sensibili della società. Inutile sperare, come aveva fatto sino
ad allora il ministro della difesa, di convincere “i degenerati, i
delinquenti, i sovversivi della scheda bianca a riconoscere i propri errori e
implorare la misericordia, al pari della penitenza, di una nuova tornata
elettorale alla quale, nel momento designato sarebbero accorsi in massa a
purgare i peccati di un delirio che avrebbero giurato di non ripetere mai più”[p.57].
La questione posta da Saramago, per quanto paradossale
possa sembrare, pone inquietanti interrogativi sull’esercizio del potere in una
democrazia rappresentativa. Un partito delle schede bianche del 70-80% forse
non è ipotizzabile perché, se lo fosse, significherebbe che la maggioranza dei
cittadini ha preso coscienza che la democrazia si è trasformata in
partitocrazia, il regime democratico in una dittatura oligarchica e tirannica,
e tale presa di coscienza sarebbe forse già l’anticamera di un cambiamento.
Situazione paradossale quella prospettata da Saramago ma pur sempre possibile.
La questione che interessa è però un’altra: in simili circostanze qual è la
risposta che uno stato democratico deve dare per evitare che il partito delle
schede bianche impedisca il retto funzionamento delle istituzioni democratiche,
gettando il paese nell’anarchia e nel caos? La risposta non è certo quella che
Saramago, descrive nel libro con ironia e pungente sarcasmo, anche se non è
difficile immaginare che in una situazione concreta sarebbe l’unica ad essere
adottata nelle nostre democrazie occidentali, più rispettose delle forme che
della sostanza della democrazia. Chi ricorda più “il contratto sociale”? Chi lo
spirito liberale che è alla base della rinuncia alla sovranità individuale?
L’unica risposta possibile di fronte ad una forma così vasta di dissenso,
sarebbe quella che il potere si facesse da parte per riscrivere da capo le
regole del patto tra i cittadini.
LO STALLO
PREMEDITATO DELLA POLITICA ITALIANA
Lunedì 19 marzo 2018
Quando fu approvata la nuova legge elettorale
c’era sicuramente un piano A ma già prendeva forma anche un piano B. I sondaggi
davano allora il PD sopra il 25% e il Centrodestra tra il 38 e il 39%, con
Forza Italia in vantaggio di 3 o 4 punti sulla Lega. L’idea era dunque un
governo di larghe intese tra Renzi e Berlusconi al quale, a certe condizioni,
forse avrebbe finito con l’accodarsi anche Matteo Salvini, uscito sconfitto dal
confronto con il leader di Forza Italia ma con lui alleato in diverse
amministrazioni comunali e regionali. Insomma, con tutta probabilità ne sarebbe
uscita una maggioranza in grado di governare comodamente per i cinque anni
successivi, relegando il M5S all’opposizione ma soprattutto decretandone il
progressivo sfaldamento. La chiave, per comprendere la logica di questa
dissennata legge elettorale, era riposta nella certezza che le
coalizioni di centrodestra e di centrosinistra [ben poca cosa alla fine si
sarebbe rivelata quest’ultima] prendessero un voto in più del M5S che correva
da solo e addirittura nella speranza che il PD prendesse un
voto in più del movimento guidato da Di Maio. In altri termini, il “Rosatellum”
faceva propria la richiesta di Berlusconi [senza di che l’anziano leader non
avrebbe dato il suo appoggio alla nuova legge elettorale] di consentire la
presenza delle coalizioni nei collegi uninominali, garantendo al centrodestra
il primato ma non anche la possibilità di formare un governo che sarebbe
spettata in ogni caso al PD, sia che questo si fosse affermato come primo
partito, sia che fosse stato il secondo dopo i pentastellati, ma nella
prospettiva di essere il solo in grado di promuovere un governo di larghe
intese. Un piano in apparenza ben congegnato, che tuttavia aveva quattro punti
deboli: 1) l’ipotesi che il M5S non sarebbe andato oltre il 27-28% e che il PD
si sarebbe avvicinato a questa percentuale o l’avrebbe addirittura superata, 2)
la convinzione che il centrodestra non avrebbe raggiunto il 40% dei voti e
dunque ottenuto probabilmente la possibilità di governare da solo, 3) uno
sguardo poco attento della realtà da parte del PD nel fare il calcolo di chi
avrebbe potuto vincere realmente in ciascuno dei collegi uninominali, anche per
la presenza di LEU e considerando la compattezza degli elettori di Lega e Forza
Italia al nord e la forte disoccupazione e il malcontento dei cittadini al sud
4) la probabile affermazione, fidandosi dei sondaggi, di Forza Italia sulla
Lega.
Considerando
che dei quattro punti, solo il secondo è stato intuito correttamente, sembra
lecito chiedersi se Renzi, proponendo o almeno condividendo il “Rosatellum” per
le elezioni del 4 marzo ’18 non abbia messo in campo la stessa ingenua
spregiudicatezza utilizzata per il voto referendario del 4 dicembre del 2016:
allora sfidando con il suo 22 % [al netto della percentuale di chi avrebbe dato
vita a LEU], il 78% dell’elettorato gestito dai partiti del No, ora
facendosi schiacciare da una parte dal M5S, dall’altra dalla coalizione di
Centrodestra. E non si venga a parlare di personalismo: anzi, fu proprio l’aver
personalizzato il referendum che gli valse il 40% di Sì a
fronte di un potenziale 22%. Questa volta, infatti, senza personalizzazioni,
stando alle parole stesse del suo segretario, il PD si attesta tra il 18 e il
19 %. Si possono rimproverare a Renzi alcuni errori nella gestione del governo,
altri nel rapporto con le minoranze e con i padri nobili del suo partito, ma
ciò che decide della sua trasformazione da leader nazionale in
cui la gente aveva creduto e sperato, in un comune politico dagli orizzonti
regionali, sono appunto le scelte che sono alla base del voto referendario e
della legge elettorale.
Eppure,
una battuta paradossale di Michele Emiliano fa riflettere: il PD è il vero
vincitore delle elezioni, attenzione, il partito, non Matteo Renzi. Già, perché
il PD diventa l’ago della bilancia di questa legislatura. Schiacciato tra M5S e
Centrodestra, resta indispensabile per il governo. E qui veniamo al piano B:
astuzia di quel tanto di sangue democristiano che continua a circolare nel
partito democratico, un paracadute pensato non da Renzi ma dagli Zanda, i
Rosato, i Letta, i Franceschini ecc… Se tutto fosse andato male [come poi è
stato] il Partito democratico avrebbe comunque raggiunto cinque obiettivi
fondamentali: 1) liberarsi una volta per tutte del mancato enfant
prodige, 2) ricompattare il partito tra minoranza e maggioranza, forse
addirittura riassorbendo i fuoriusciti di Leu, 3) essere comunque decisivo per
la formazione di qualsiasi governo, 4) mantenere il più a lungo possibile il
governo Gentiloni, sia pure per la cosiddetta “normale amministrazione”, che
intanto gli ha consentito di mettere a segno la riforma penitenziaria e che
presto potrebbe fargli avere voce in capitolo nella nomina dei grand
commis di stato. Bastando a questo fine rivendicare il diritto di
stare all’opposizione e lasciando (ipocritamente) ai vincitori (M5S e Lega) il
compito di governare, ben sapendo che l’introduzione del reddito di
cittadinanza (M5S), che comporta l’inevitabile e ulteriore salasso
fiscale delle classi medie, mal si concilia con la flat tax (Lega)
con la quale, al contrario, ci si propone di tagliare le tasse soprattutto a
vantaggio delle imprese, 5) tranquillizzare l’Europa e i mercati con uno stallo
premeditato della politica italiana che di fatto impedisce iniziative
“pericolose” di qualsiasi segno, come dimostra il fatto che sino ad oggi, al di
là delle preoccupazioni espresse dal valletto della Merkel, i mercati non si
siano mossi.
Teoricamente,
si dà un solo caso in cui il piano B potrebbe fallire: qualora si decidesse di
tornare a votare prima dell’estate. Ipotesi improbabile perché sul Colle spira
ancora la brezza democristiana e tutti i partiti confidano nella saggezza del
presidente della Repubblica, il quale prendendosi un po' di tempo e muovendosi
con circospezione e passo felpato alla fine saprà trovare la giusta soluzione
alla crisi, laddove per correttezza non ha speso una sola parola per impedire
il varo di una legge elettorale a dir poco machiavellica. Così, mentre il
governo Gentiloni resterà in carica, sia pure sminuito nelle sue funzioni (ciò
che non dispiace ai mercati), la politica italiana si aggirerà dalle parti del
Quirinale per un lungo periodo e senza praticamente occuparsi di altro, con
l’alibi che ai tedeschi sono occorsi sette mesi per varare un nuovo governo e
che perciò se agli italiani ne occorresse anche qualcuno di più non si potrebbe
certo gridare allo scandalo. Certo, alla fine, una soluzione bisognerà trovarla
e qui le ipotesi sono almeno tre: 1) un governo di “larghissime” intese per
tornare alle urne con una nuova legge elettorale, ma non prima di un anno o
addirittura due: il tempo giusto perché la situazione decanti e perché
l’elettorato del sud, disilluso dalla mancata introduzione del reddito di
cittadinanza, scelga rapidamente un altro cavallo come ha sempre fatto in
passato: in massa democristiano, poi con Forza Italia, quindi con l’Ulivo,
ancora col Centrodestra del PDL, poi con il PD di Renzi nel voto europeo del
2014, ora con il M5S, 2) un governo del PD con uno dei due contendenti [M5S o
Centrodestra], reso possibile dalla rinuncia all'opposizione, dopo diversi
mesi, per l’appello del Capo dello Stato, per spirito di sacrificio e magari in
cambio di ministeri “chiave”, 3) un governo M5S e LEGA per qualche minuta
riforma e per varare una nuova legge elettorale in tempi brevi.
Poco
probabili le soluzioni 1 e 3 non fosse altro per la difficoltà di trovare una
nuova legge elettorale con premio di maggioranza, l’unica che consentirebbe il
governo del Paese. A chi dovrebbe andare il premio, alle liste o alle
coalizioni? Problema insolubile perché con il premio alle liste vincerebbe il
M5S, con il premio alle coalizioni a vincere sarebbe il Centrodestra. In
particolare poi, la soluzione n.3 appare anche più improbabile perché la Lega , rompendo ogni legame
con le altre forze del Centrodestra, si consegnerebbe di fatto nelle mani dei
pentastellati e difficilmente da sola potrebbe raggiungere una percentuale di
voti superiore a quella del M5S. E nell’eventualità che anche Berlusconi
finisse per assecondare Salvini nell’alleanza a scopo elettorale con i
Cinquestelle, si ripresenterebbe intatta la questione: premio di maggioranza
alle liste dei singoli partiti o alle coalizioni? In conclusione, tutto lascia
pensare alla soluzione n.2, anche se l’esperienza di scuola democristiana
insegna che le vie del potere sono infinite.
LEADER, REGISTI E
FANTASMI
Martedì 27 marzo 2018
L’elezione
in breve tempo di Roberto Fico alla presidenza della Camera dei deputati e
quella di Maria Elisabetta Alberti
Casellati [cui i social aggiungono già il “vien dal mare” di
fantozziana memoria] alla presidenza del Senato rivela una sorprendente
efficienza da parte del nuovo Parlamento. Merito del “Rosatellum”? Certamente
no, piuttosto di una intesa raggiunta con tempestività e determinazione
nonostante qualche manifesto tentativo di sabotaggio: con due leader giovani e
dinamici, un regista di consumata esperienza, un paio di fantasmi discreti che
non hanno disturbato, anzi che non si sono neppure lasciati vedere. Ciò non
significa, d’altra parte, che tutto fosse stato concordato in anticipo,
compreso lo strappo di venerdì sera tra Lega e Forza Italia, come certa
dietrologia va ripetendo. D’altra parte, neanche è vero il contrario – come
pure si è largamente sentito dire sui media dai soliti opinionisti – e cioè
che Berlusconi sia uscito sconfitto dalle
manovre per l’elezione delle cariche istituzionali.
In realtà, nel rispetto dei patti, subito dopo il 4 marzo, il
cavaliere aveva riconosciuto a Salvini il ruolo di leader, serbando per sé
quello di regista. E questa nomina
autoreferenziale Berlusconi ha inteso esercitare quando ha
chiesto per Forza Italia la presidenza del Senato, cioè quando ha aggiunto al
patto stipulato con la Lega
una clausola che non c’era nei patti alla vigilia delle elezioni. Salvini,
dando prova di lungimiranza politica, ha accettato la condizione non pattuita
nella prospettiva, tutta da verificare, di essere chiamato a Palazzo Chigi. I
candidati forzisti erano tre: Romani, Bernini e Casellati. A questo punto sono
intervenuti pesantemente i consiglieri del regista, imponendo non solo il
candidato unico [Romani], ma pretendendo che il leader del M5S si sedesse allo
stesso tavolo di Berlusconi per siglare l’accordo, bastando per ogni trattativa
la riunione di tutti i capigruppo uscenti, come è sempre avvenuto e come era
stato giustamente proposto dai Cinquestelle.
La mossa di alcuni registi improvvisati e consiglieri del principe
– sventata all’ultimo momento dal buon senso di Salvini e di Berlusconi –
sembrava orientata verso un unico obiettivo: rompere le trattative del leader
della Lega con Di Maio o isolarlo, ben sapendo che i pentastellati non
avrebbero mai accettato di incontrare Berlusconi e che avevano posto come unico
vincolo che il candidato del Centrodestra non avesse una condanna passata in
giudicato [Romani]. Tanto è vero che poi, rispettando i patti, i Cinquestelle
hanno votato forse compatti [240 i voti della Casellati a fronte del potenziale
di 247 seggi – fatti salvi gli assenti – di cui dispongono complessivamente M5S
e Centrodestra al Senato] per una candidata incensurata e membro politico del
Consiglio Superiore della Magistratura, ma fedelissima di Berlusconi e con la
quale a suo tempo aveva polemizzato Travaglio in Tv, ricordando tra l’altro
alla Sottosegretaria di Stato del Ministero della Sanità di aver assunto la
figlia Ludovica a Capo della propria segreteria. Delle intenzioni dei
consiglieri del regista è tuttavia rimasta traccia nell’elezione di Roberto
Fico alla presidenza della Camera dei deputati, dove Forza Italia certamente
non ha votato compatta: del potenziale di 481 voti, Fico ne ha ottenuti infatti
422, dunque, fatti salvi gli assenti, 59 voti in meno.
A che si deve questa azione di disturbo? Un’intesa segreta
con una frazione di fantasmi? Ma fantasmi vecchi e nuovi non si sono visti. Il
loro ectoplasma si è manifestato solo a cose fatte per dire che quello tra
Cinquestelle e Centrodestra è stato un accordo da Prima Repubblica [?!] e per
ribadire l’opposizione ad un governo che ancora non c’è, ripetendo come un
mantra che “oneri e onori del governo spettano ai vincitori”. Questo richiamarsi
quasi ossessivo all’opposizione fa venire in mente che dopo la battaglia
referendaria condotta in nome del 22% dell’elettorato contro il 78%
rappresentato dagli altri partiti, dopo una legge elettorale che voleva essere
astuta ma che di fatto ha finito con lo schiacciare i suoi maggiori proponenti
tra Cinquestelle e Centrodestra, ora si aneli alla terza e forse definitiva
disfatta, scegliendo una sorta di Aventino come mezzo per rigenerarsi.
Opposizione per fare che? Per sperare che il nuovo probabile governo cosiddetto
populista fallisca e che si possa tornare a fare i cani da guardia di Bruxelles
e della Merkel? E se così non fosse nelle intenzioni, avendo percepito qualche
vago segno di autocritica in merito alla politiche sin qui perseguite sull’immigrazione,
sulla sicurezza, sul lavoro, sugli investimenti, sulla mancata riforma del
fisco e su una distribuzione della ricchezza che ormai condanna alla povertà
oltre 12 milioni di italiani, quale concrete possibilità avrebbero per essere
concorrenziali con i Cinquestelle e con la Lega ? Nessuna!
L’inaspettato ottimismo con cui da sabato si guarda alla
formazione di un nuovo governo non deve trarre in inganno. È vero che
Giorgetti, Salvini e Di Maio hanno sostenuto negli ultimi giorni cose
abbastanza simili, persino rinunciando rispettivamente agli slogan della
campagna elettorale, come “flat tax” e “reddito di cittadinanza”, per
sostituirle con espressioni più accettabili e condivisibili da entrambe le
parti. È vero altresì che lo stesso Grillo subito dopo il voto del 4 marzo, ma
ben prima dell’elezione dei presidenti delle Camere, aveva chiarito essere il
reddito di cittadinanza niente altro che un aiuto alla disoccupazione e al
lavoro, non diversamente da quanto Salvini ha sostenuto poche ore fa. Il fatto
è che anche in presenza di un accordo sul programma resta l’incognita sulle
persone, perché se è vero che Salvini si è detto anche disposto a rinunciare
alla leadership del nuovo governo, i Cinquestelle oggi fanno sapere che senza
Di Maio a capo dell’esecutivo non parteciperanno al governo del Paese, mentre
dal canto suo, l’autoproclamatosi regista del Centrodestra – possibilista su un
governo Salvini o di una personalità terza [e incredibilmente viene fatto
circolare il nome di Franco Frattini] in cui siano presenti anche i
Cinquestelle – respinge con forza l’ipotesi di sostenere un governo presieduto
da Di Maio. Al momento, dunque, sembra godere di poche prospettive anche l’idea
più accreditata nelle ultime ore e cioè di Salvini e Di Maio vicepresidenti
di un governo affidato ad una personalità concordata da entrambi. In tale
contesto, a meno di rotture clamorose o di clamorosi ripensamenti nell’area dei
vincitori delle elezioni, c’è da supporre che il Gentiloni cosiddetto minus
reggerà ancora a lungo le sorti del paese, con atti addirittura più
impegnativi di quando era nel pieno dei poteri: ha già varato la riforma
penitenziaria, l’espulsione dei diplomatici russi e si accinge ad un documento
finanziario richiesto espressamente e astutamente dai signori di Bruxelles.
Nella prospettiva dei veti incrociati e dei personalismi non sarà che i
fantasmi, opportunamente evocati dalla sapienza del Colle, tornino alla fine
improvvisamente visibili, memori di avere nel proprio DNA una vocazione al
governo più che all’opposizione?
IL RE SOLE:
LUIGI XIV e LUIGI DI MAIO
Lunedì 9 aprile 2018
Com’è noto
Luigi XIV [1638-1715], re di Francia, fu detto “Re sole” perché sul suo vasto
impero non tramontava mai il sole ed è ricordato sui libri di scuola anche per
l’affermazione “L’état c’èst moi”, cioè “Lo stato sono io”. Cosa accomuna il
Luigi di cui si parla in questi giorni con il sovrano francese? Niente,
naturalmente, se non il nome e un paio di analogie approssimative ma utili per
farsi qualche idea: Luigi Di Maio [1986 - ?] nasce nel mezzogiorno d’Italia,
dove il sole è di casa, e può vantare una frase non detta ma implicitamente
ribadita più volte durante questa congiuntura della politica italiana e cioè,
“Il governo sono io”.
Intendiamoci,
il capo politico dei Cinquestelle fa questa implicita affermazione a buon
diritto, il suo movimento avendo ottenuto circa il 33% dei consensi degli
italiani che si sono recati fiduciosamente alle urne, con una legge
elettorale fatta per escludere i
pentastellati, favorire l’accordo Pd-Forza Italia e in ultima ipotesi per
determinare la quasi impossibilità di formare un nuovo
governo. È vero altresì che il Centrodestra ha raccolto circa il 38% dei voti
espressi ma solo presentandosi con 4 partiti uniti in coalizione e poiché i
leader di tre di questi partiti [quelli che hanno ottenuto seggi in Parlamento]
si sono presentati singolarmente alle consultazioni quirinalizie, vale il buon
diritto di Luigi Di Maio a considerarsi l’unico vero e proprio vincitore, il
solo titolato, per così dire, a “dare le carte” a tutti. Così,
nell’impossibilità di raggiungere la maggioranza dei consensi parlamentari “per
la contraddizion che nol consente”(Dante,
Inferno, XXVII, 120), in virtù del Rosatellum -
vero e proprio capolavoro di ingegneria democristiana - il
leader del Movimento Cinque Stelle restaura i forni della Prima Repubblica,
dichiarandosi disponibile a far sostenere il governo da lui presieduto,
indifferentemente dal Pd o dalla Lega. C’è chi parla di cinismo, dimenticando
che la politica dei due forni fu di fatto praticata dalla Dc per quasi
cinquant’anni. Come si può giudicare intercambiabile – si continua a ripetere –
un’alleanza con il Pd e con la Lega che hanno una visione della società
radicalmente opposta e programmi così differenti? Per la verità, Di Maio non
manca di realismo e non a caso parla di contratto che
naturalmente sarebbe diverso in funzione di contraenti diversi, senza con ciò
snaturare il programma complessivo del Movimento, ma solo limitandone la
portata.
Con
il Pd e con Leu potrebbe infatti concordare: 1) Lo ius soli [che
piace a Fico, presidente della Camera dei deputati e ad una parte dei militanti
pentastellati e che è nel programma del Pd e di Leu], 2) Il reddito di
inclusione dei cittadini, un ibrido cioè tra il reddito di inclusione del
Pd e il reddito di cittadinanza del M5S, ricorrendo per finanziarlo alla
reintroduzione dell’IMU sulla prima casa [cara a Leu, ma anche al Fatto
Quotidiano di Travaglio che dell’accordo M5S-Pd-Leu è uno degli
autorevoli sostenitori], l’introduzione di una patrimoniale “una tantum”, una
“sforbiciata”alle pensioni di reversibilità, il ricalcolo dei vitalizi degli ex
parlamentari, esteso alle pensioni di tutti i cittadini oltre una certa soglia
e ridefinito con il metodo contributivo, la sopressione di tutte i bonus
alternativi al predetto reddito di inclusione dei cittadini, 3)Una velata
riforma dei centri per l’impiego, funzionale al punto precedente, 4)Una
minirevisione della legge Fornero, 5)Una miniriforma del Jobs Act,
6)Un aggiustamento della riforma della cosiddetta buona scuola che
lo stesso Renzi ha giudicato necessario, 7)Una politica per l’immigrazione
sulla scia della svolta data dal ministro Minniti e che ha ricevuto
l’apprezzamento di Di Maio, 8) Misure contro la corruzione e il
conflitto di interesse. Come si vede, c’è n’è d’avanzo per un contratto di
legislatura e forse anche più.
Con la Lega , naturalmente le misure
sarebbero parzialmente diverse: 1)Il reddito di sostegno al lavoro dei
cittadini, finanziato con misure da definire ma in parte alternative a
quelle di cui al precedente punto 2 dell’eventuale accordo con il Pd, 2)La
riforma radicale dei centri per l’impiego, funzionale al punto precedente,
3)La riduzione delle aliquote fiscali, per incentivare i consumi e
agevolare le imprese, 4)Una parziale revisione della legge Fornero,
finanziata in parte con il ricalcolo e/o la soppressione dei vitalizi degli ex
parlamentari e con l’introduzione di un tetto sulle pensioni, 5)L’abolizione
del Jobs Act, 6)La riforma della scuola, 7)Una politica
sull’immigrazione più radicale di quella inaugurata da Minniti, 8)Una
maggiore fermezza con l’Europa. Questo e poco altro potrebbe contenere il
contratto Di Maio – Salvini.
Come
si vede, il realismo di Di Maio ha un senso e non dovrebbe essere difficile
accordarsi sui programmi con il Pd o con la Lega. Il vero problema
resta l’accordo sulle persone e i veti incrociati dei partiti che dovrebbero
dar vita ad un nuovo governo, in sostituzione di quello di Gentiloni che
continua tranquillamente a fare politica quasi il Pd e i suoi alleati avessero
vinto le elezioni. Di certo, sino alla fine del mese non accadrà nulla di
nuovo: l’Assemblea del Pd, le elezioni regionali del Molise e del Friuli
Venezia Giulia, da tenersi rispettivamente il 21, 22 e 29 aprile sconsigliano
accordi prematuri. Dal mese di maggio qualcosa potrebbe cambiare, per
l’eventuale alleanza con il Pd, in funzione del ruolo di Renzi e
dell’atteggiamento dei “suoi” parlamentari. Il fatto è che senza il sì di
Renzi, anche con l’apporto di Leu, difficilmente si avrebbe una maggioranza
M5S-Pd al Senato. Più semplice in teoria l’intesa dei Cinquestelle con tutto il
Centrodestra, giacché Salvini non sembra così ingenuo da rompere l’alleanza con
Forza Italia, con cui governa diverse amministrazioni regionali e comunali, e
Di Maio questo lo sa da sempre. Per stipulare un contratto di governo
M5S-Centrodestra basterebbero cinque minuti, riproponendo l’intesa già
verificata con l’elezione dei presidenti delle Camere e degli uffici di
presidenza. Il compromesso potrebbe essere questo: Salvini, nonostante il
maggior numero di voti e di seggi del Centrodestra rinuncia alla Presidenza del
Consiglio in favore di Di Maio, il quale accetta la presenza di due o tre
ministri di Forza Italia nel governo [se ne troveranno pure 2-3 incensurati e
non compromessi coi precedenti governi!], ma senza trattare con Berlusconi,
bensì con il leader riconosciuto del Centrodestra e con i capigruppo dei 3
partiti. Poco importa poi se nel voto di fiducia al governo dovessero mancare
alcuni voti di Forza Italia, ciò che è già avvenuto per l’elezione di Fico alla
presidenza della Camera dei deputati quando mancarono all’appello ben 59 voti
[mentre la Casellati
fu votata da tutti i senatori pentastellati]. La maggioranza di governo non ne
soffrirebbe perché Lega e Cinquestelle, com’è noto, hanno i voti sufficienti
per governare anche da soli.
SCACCO ALLA COALIZIONE
Giovedì 14 aprile 2018
Con un capolavoro di sperimentata tecnica
democristiana, il Capo dello Stato conferisce a Maria Elisabetta Alberti
Casellati il mandato esplorativo per accertare se vi siano le condizioni per
formare un nuovo governo. E sin qui nulla di speciale o di inatteso, ma il
colpo di genio sta nell’averle affidato con ferma determinazione e
autorevolezza [per gli amanti delle stelle, Sergio Mattarella è nato sotto il
segno del Leone]: 1)Un mandato unicamente mirato alla costatazione di una
eventuale maggioranza Centrodestra-Cinquestelle, 2)Un tempo limitato di 48 ore.
Il tutto, mostrando una lettura sapiente e formale delle regole democratiche,
perché la Casellati oltre
ad essere, come presidente del Senato, la seconda carica dello Stato, è anche
esponente della coalizione che nelle recenti votazioni ha riportato il maggior
numero di voti.
Così,
a meno di clamorosi e improbabili scenari dell’ultimo momento, il Quirinale
liquida definitivamente la possibilità di un governo Centrodestra-Cinquestelle
e c’è da scommettere che nella prossima settimana Sergio Mattarella riprenderà
in proprio le consultazioni per accertare se non sia invece praticabile una
maggioranza diversa e cioè quella tra i Cinquestelle e il PD. I numeri la
rendono possibile alla Camera con 333 voti [ne occorrono almeno 316 sul totale
di 630], più problematica al Senato dove la maggioranza è di 160 voti sul
totale di 318 e M5S e PD ne dispongono insieme di 161, anche se con i 4 voti di
LEU salirebbero a 165.
In
un precedente post non a caso scrivevo: Nella
prospettiva dei veti incrociati e dei personalismi non sarà che i fantasmi,
opportunamente evocati dalla sapienza del Colle, tornino alla fine
improvvisamente visibili, memori di avere nel proprio DNA una vocazione al governo
più che all’opposizione?
Naturalmente, l’ipotesi molto dipende dalla cosiddetta moral
suasion che il Colle riuscirà ad esercitare su quella parte del PD che
non si è ancora arresa all’idea di un’alleanza con i Cinquestelle. Facendo leva
sulla necessità di dare al più presto un governo al Paese, il Presidente
potrebbe fare appello allo “spirito di servizio” dei suoi ex compagni ed amici
di partito e in particolare a quello di Matteo Renzi che a quanto pare mantiene
il controllo dei gruppi parlamentari. Si dice che il neo senatore fiorentino
potrebbe convincersi a patto che Di Maio rinunci alla leadership. In questo
caso, dubito però che il leader pentastellato accetterebbe. Resta già
abbastanza difficile comprendere come Di Maio, praticamente certo di guidare un
governo Centrodestra-Cinquestelle, della maggioranza del 70% degli elettori, in
cambio di 2 o 3 ministri incensurati di Forza Italia, possa preferire di
governare con PD e LEU con una maggioranza esigua e con soggetti continuamente
in rotta fra di loro, dovendo per di più rinunciare alla guida del governo. Se
Di Maio si inoltra per la strada impervia della maggioranza con i partiti della
cosiddetta sinistra, qualche assicurazione accompagnata dalla suddetta moral
suasion deve averla ricevuta dall’alto.
Quanto al programma di governo [che paradossalmente non ha mai
costituito un vero impedimento] non ci dovrebbero essere problemi. Come ho già
scritto altrove, il Movimento Cinque Stelle “Con il Pd e con Leu
potrebbe infatti concordare: 1) Lo ius soli [che piace a Fico,
presidente della Camera dei deputati e ad una parte dei militanti pentastellati
e che è nel programma del Pd e di Leu], 2) Il reddito di inclusione dei
cittadini, un ibrido cioè tra il reddito di inclusione del Pd e il reddito di
cittadinanza del M5S, ricorrendo per finanziarlo alla reintroduzione dell’IMU
sulla prima casa [cara a Leu, ma anche al Fatto Quotidiano di
Travaglio che dell’accordo M5S-Pd-Leu è uno degli autorevoli sostenitori],
l’introduzione di una patrimoniale “una tantum”, una “sforbiciata”alle pensioni
di reversibilità, il ricalcolo dei vitalizi degli ex parlamentari, esteso alle
pensioni di tutti i cittadini oltre una certa soglia e ridefinito con il metodo
contributivo, la soppressione di tutte i bonus alternativi al predetto reddito
di inclusione dei cittadini, 3)Una velata riforma dei centri per l’impiego,
funzionale al punto precedente, 4)Una minirevisione della legge Fornero, 5)Una
miniriforma del Jobs Act, 6)Un aggiustamento della riforma della cosiddetta
buona scuola che lo stesso Renzi ha giudicato necessario, 7)Una politica
per l’immigrazione sulla scia della svolta data dal ministro Minniti e che
ha ricevuto l’apprezzamento di Di Maio, 8) Misure contro la corruzione e
il conflitto di interesse. Come si vede, c’è n’è d’avanzo per
un contratto di legislatura e forse anche più”.
sergio magaldi