La tesi più accreditata
dai media circa il comportamento che
ha indotto Salvini a staccare la spina al governo gialloverde poggia quasi
unicamente sull’idea che ingenuità e ubris
ne siano state la causa. Per la prima, egli si sarebbe fidato di una presunta
telefonata con Zingaretti che gli assicurava la volontà di andare alle
elezioni. Telefonata smentita dallo stesso Salvini che, tuttavia, intervenendo lo scorso venerdì sera
alla puntata di In Onda di La 7, ha
tenuto a precisare che lui non è tipo da rivelare il contenuto di eventuali
messaggi scambiati con i leader di altre formazioni politiche. Insomma, forse
si è fidato di una generica promessa, avvalorata dall’interesse di Zingaretti
di andare alle urne per ridimensionare Renzi e riprendersi in parte i voti dei
Cinquestelle, senza tenere conto:
A)dell’esistenza in
Parlamento di una maggioranza alternativa.
B)della determinazione
del presidente della Repubblica, poco incline a sciogliere le Camere e ad
andare al voto a ridosso della presentazione della legge di bilancio.
C)dell’estrema
resistenza dei pentastellati nel difendere il posto di lavoro e al tempo stesso
nello scongiurare il dimezzamento della propria compagine parlamentare.
D)della mossa di Renzi
che, in un presumibile giro di valzer per difendere il controllo che esercita
sulla maggioranza di deputati e senatori del PD, questa volta avrebbe
addirittura anticipato altri capi tribù del suo partito – già inclini a tentare
un accordo di governo con i pentastellati sin dall’esito delle elezioni di
marzo 2018 – nel proporre un governo
M5S-PD per affrontare l’emergenza.
E)del ruolo della
governance europea nella crisi politica italiana. F)della prevedibile reazione
del sistema-Italia alla vittoria delle destre, data ormai per certa, non solo in
base ai sondaggi, ma sull’onda dei risultati delle elezioni europee.
In tale ottica,
l’ingenuità del leader leghista sarebbe stata favorita dalla ubris che ne avrebbe accecato il
giudizio, inducendolo a ritenere di essere ormai padrone della situazione, con
il conseguente e inevitabile ricorso alle urne da lui auspicato. In
conclusione, dunque, Salvini ha reiterato l’errore di Matteo Renzi, allorché questi con
il 22% della propria base elettorale (che non comprendeva neppure tutto il
partito di cui era segretario) – anche lui accecato da ubris – aveva osato sfidare con il Referendum istituzionale circa
il 75% del corpo elettorale rappresentato da tutti gli altri partiti. La
presunzione ha causato la caduta del primo Matteo, non ci si può dunque meravigliare
che abbia causato anche la caduta e l’isolamento del secondo. Matteo Renzi ha
sfidato la logica dei numeri e la tradizione nazionale che da sempre organizza
il consenso (regime fascista a parte dove c’era un solo partito) attraverso la
mediazione partitocratica. Appellandosi al popolo contro i partiti, ne ha
ricavato una solenne bocciatura. Matteo Salvini ha in fondo commesso lo stesso
errore: ha chiesto di essere giudicato dal popolo che probabilmente, a
differenza di quanto aveva fatto con Renzi, l’avrebbe premiato, ma ha ignorato
la supremazia dei partiti. Entrambi i leader nel momento di maggior gloria hanno
chiesto un plebiscito, dimentichi di trovarsi in una democrazia rappresentativa
e parlamentare. In più c’è da osservare che entrambi i Mattei, interpellati in
merito, hanno dichiarato che rifarebbero di nuovo quello che hanno fatto.
Ce n’è abbastanza
per ritenere che la tesi dell’ingenuità e dell’arroganza di Salvini, ancorché
semplicistica, sia credibile almeno per buona parte dell’opinione pubblica e
persino tra i simpatizzanti della Lega. Accanto a questa ricostruzione del
comportamento ingenuo di Salvini, ci sono però le motivazioni ufficiali dello
stesso leader leghista – stranamente presentate mai tutte insieme – che si
possono così riassumere:
1)ha tolto la fiducia al governo per l’atteggiamento
negativo del presidente del Consiglio, di alcuni ministri pentastellati e del
ministro dell’economia rispetto alle riforme concordate, tant’è che a un certo
punto della crisi si è detto disposto a fare un nuovo governo con ampi rimpasti
e alla condizione che cadessero i tanti “no” della componente grillina.
2)ha preso atto della impossibilità di disporre di almeno
50 miliardi per la realizzazione della flat tax e degli investimenti produttivi,
nonché della somma necessaria a sterilizzare l’aumento dell’IVA. 3)ha capito
che era già in atto un complotto tra Cinquestelle e Pd, benedetto da Bruxelles.
A parte la palese
contraddizione tra i punti 1 e 3, restano difficili da comprendere le ragioni
di Matteo Salvini se non ci si pone da altri punti di osservazione. Il primo
dei quali è capire se dietro il suo comportamento
ci sia stata una vera tattica e una vera strategia come sostengono coloro (e
non sono molti) che rifiutano la tesi dell’ingenuità e della presunzione del
leader leghista. Premesso che la strategia era e resta la presa del potere,
legittimamente conseguito attraverso le elezioni, la tattica prevedeva varie
possibilità: a)andare subito alle urne b)formare un nuovo governo gialloverde,
sostituendo incapaci ed “europeisti” c)passare all’opposizione di un governo
giallorosso che essendo tenuto per le palle da Renzi e dall’austerità dei
signori di Bruxelles finirà presto con l’andare a sbattere e allora non rimarrà
che il ricorso alle urne.
Ancorché sofisticata,
questa tattica non sembra molto più convincente di quella semplicistica, basata
sull’ingenuità e la presunzione del leader leghista e contrabbandata con
qualche credibilità dalle élite e dai media. Perché ha la sua debolezza nel punto c. Infatti, se è vero che Renzi è
in grado di staccare la spina al governo in qualsiasi momento (e questo lascia
trasparire tutta la debolezza del nuovo segretario del PD), si può
ragionevolmente supporre che lo farà solo dopo la sterilizzazione dell’IVA e
l’approvazione di una nuova legge elettore e comunque quando sarà certo di
trarne vantaggi, riaffermando la propria supremazia all’interno del PD o, com’è
più probabile, costituendo gruppi autonomi di un nuovo partito al centro dello
schieramento politico che diverrebbe l’ago della bilancia per qualsiasi
maggioranza di governo, tanto più in presenza di una legge elettorale di tipo
proporzionale. In tale prospettiva, le elezioni non sarebbero più una
passeggiata per Salvini: è poco probabile che egli sia in grado per allora di
conservare il consenso che ancora oggi gli attribuiscono i sondaggi. Non solo perché,
come sosteneva un gran capo delle vecchie tribù democristiane, spesso “il
potere logora chi non ce l’ha”, ma soprattutto perché il sistema proporzionale
chiama più ospiti a partecipare al medesimo banchetto, dove per giunta le vivande
sono addirittura calate (leggi: riduzione del numero dei parlamentari).
D’altra parte, se
si evita di ricorrere alle categorie dell’ingenuità e della presunzione nel
valutare la mossa di Salvini, occorre riconoscere che egli deve aver soppesato
la debolezza di quel punto c presente
nella tattica. Se l’ha fatto ed è andato oltre anche se a malincuore, deve aver
avuto le sue buone ragioni. Rinunciare ad un ruolo che in un anno gli ha
consentito di raddoppiare i voti della Lega (dal 17% delle politiche al 34%
delle europee) non deve essere stato facile, come pure rischiare di perdere
quel circa 33% di consenso elettorale nel Lazio e soprattutto quel circa 24%
delle regioni meridionali. Consenso labile questo del centro-sud, come si sa,
che nel tempo assegna sempre un surplus di voti al partito e al leader
momentaneamente sulla cresta dell’onda. Costretto a scegliere tra Lega e Lega
Nord, Salvini ha scelto la seconda, il nucleo fondativo, la ragion d’essere del
vecchio partito padano. Se avesse scelto la prima, sarebbe ancora al governo e
lotterebbe ancora spalla a spalla con i Cinquestelle per l’affermazione delle
proprie riforme e senza mollare nulla, ma la sua leadership nel partito sarebbe
ridotta agli sgoccioli. Poco interessa ai leghisti doc il governo di Roma se non porta all’autonomia finanziaria delle
regioni del nord (soprattutto Veneto e Lombardia) e quanto alla flat tax il nucleo storico della Lega
Nord lo vuole ma non alle condizioni estreme illustrate da Salvini: deficit di
50 miliardi, guerra con Bruxelles con tutti i rischi per le imprese del nord
che questo comporta. Meglio allora avere le mani libere fuori dal governo
romano e se in seguito le prospettive dovessero peggiorare, c’è sempre la
possibilità di rilanciare l’idea della secessione. Non a caso Zaia, governatore
del Veneto, in una intervista di ieri si è detto completamente d’accordo con
Salvini che ha staccato la spina.
In tale
prospettiva, il leader della Lega ha sempre saputo che il punto c della tattica mette a rischio la sua stessa strategia.
Cercherà di mediare tra le esigenze della Lega e della politica e quelle della
Lega Nord e dell’economia, ma non sarà facile e l’ascesa elettorale della Lega
Italia potrebbe arrestarsi definitivamente, proprio perché il capolavoro
politico di Salvini non è stato soltanto aver portato la Lega da Pontida a
Lampedusa – quasi la promessa di un nuovo Risorgimento – ma si è basato a
livello nazionale sul superamento del centrodestra e sull’alleanza con un
movimento che almeno ufficialmente si proclama né di destra né di sinistra.
Tant’è che Salvini, nonostante sia apparso come un catalizzatore dei voti di
estrema destra, ha finito per riscuotere consensi anche a sinistra, come
dimostra lo studio dei recenti flussi elettorali. Il ritorno nell’alveo del
centrodestra con Meloni e Berlusconi rischia per la Lega di far girare
all’indietro la ruota della Storia.
sergio magaldi
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