domenica 8 settembre 2019

MATTEO SALVINI: TRA LEGA E LEGA NORD






 La tesi più accreditata dai media circa il comportamento che ha indotto Salvini a staccare la spina al governo gialloverde poggia quasi unicamente sull’idea che ingenuità e ubris ne siano state la causa. Per la prima, egli si sarebbe fidato di una presunta telefonata con Zingaretti che gli assicurava la volontà di andare alle elezioni. Telefonata smentita dallo stesso Salvini che, tuttavia, intervenendo lo scorso venerdì sera alla puntata di In Onda di La 7, ha tenuto a precisare che lui non è tipo da rivelare il contenuto di eventuali messaggi scambiati con i leader di altre formazioni politiche. Insomma, forse si è fidato di una generica promessa, avvalorata dall’interesse di Zingaretti di andare alle urne per ridimensionare Renzi e riprendersi in parte i voti dei Cinquestelle, senza tenere conto:

A)dell’esistenza in Parlamento di una maggioranza alternativa.
B)della determinazione del presidente della Repubblica, poco incline a sciogliere le Camere e ad andare al voto a ridosso della presentazione della legge di bilancio.
C)dell’estrema resistenza dei pentastellati nel difendere il posto di lavoro e al tempo stesso nello scongiurare il dimezzamento della propria compagine parlamentare.
D)della mossa di Renzi che, in un presumibile giro di valzer per difendere il controllo che esercita sulla maggioranza di deputati e senatori del PD, questa volta avrebbe addirittura anticipato altri capi tribù del suo partito – già inclini a tentare un accordo di governo con i pentastellati sin dall’esito delle elezioni di marzo 2018 – nel proporre  un governo M5S-PD per affrontare l’emergenza.
E)del ruolo della governance europea nella crisi politica italiana. F)della prevedibile reazione del sistema-Italia alla vittoria delle destre, data ormai per certa, non solo in base ai sondaggi, ma sull’onda dei risultati delle elezioni europee.

 In tale ottica, l’ingenuità del leader leghista sarebbe stata favorita dalla ubris che ne avrebbe accecato il giudizio, inducendolo a ritenere di essere ormai padrone della situazione, con il conseguente e inevitabile ricorso alle urne da lui auspicato. In conclusione, dunque, Salvini ha reiterato  l’errore di Matteo Renzi, allorché questi con il 22% della propria base elettorale (che non comprendeva neppure tutto il partito di cui era segretario) – anche lui accecato da ubris – aveva osato sfidare con il Referendum istituzionale circa il 75% del corpo elettorale rappresentato da tutti gli altri partiti. La presunzione ha causato la caduta del primo Matteo, non ci si può dunque meravigliare che abbia causato anche la caduta e l’isolamento del secondo. Matteo Renzi ha sfidato la logica dei numeri e la tradizione nazionale che da sempre organizza il consenso (regime fascista a parte dove c’era un solo partito) attraverso la mediazione partitocratica. Appellandosi al popolo contro i partiti, ne ha ricavato una solenne bocciatura. Matteo Salvini ha in fondo commesso lo stesso errore: ha chiesto di essere giudicato dal popolo che probabilmente, a differenza di quanto aveva fatto con Renzi, l’avrebbe premiato, ma ha ignorato la supremazia dei partiti. Entrambi i leader nel momento di maggior gloria hanno chiesto un plebiscito, dimentichi di trovarsi in una democrazia rappresentativa e parlamentare. In più c’è da osservare che entrambi i Mattei, interpellati in merito, hanno dichiarato che rifarebbero di nuovo quello che hanno fatto.

 Ce n’è abbastanza per ritenere che la tesi dell’ingenuità e dell’arroganza di Salvini, ancorché semplicistica, sia credibile almeno per buona parte dell’opinione pubblica e persino tra i simpatizzanti della Lega. Accanto a questa ricostruzione del comportamento ingenuo di Salvini, ci sono però le motivazioni ufficiali dello stesso leader leghista – stranamente presentate mai tutte insieme – che si possono così riassumere:

1)ha tolto la fiducia al governo per l’atteggiamento negativo del presidente del Consiglio, di alcuni ministri pentastellati e del ministro dell’economia rispetto alle riforme concordate, tant’è che a un certo punto della crisi si è detto disposto a fare un nuovo governo con ampi rimpasti e alla condizione che cadessero i tanti “no” della componente grillina.
2)ha preso atto della impossibilità di disporre di almeno 50 miliardi per la realizzazione della flat tax e degli investimenti produttivi, nonché della somma necessaria a sterilizzare l’aumento dell’IVA. 3)ha capito che era già in atto un complotto tra Cinquestelle e Pd, benedetto da Bruxelles.

 A parte la palese contraddizione tra i punti 1 e 3, restano difficili da comprendere le ragioni di Matteo Salvini se non ci si pone da altri punti di osservazione. Il primo dei quali è capire se dietro il  suo comportamento ci sia stata una vera tattica e una vera strategia come sostengono coloro (e non sono molti) che rifiutano la tesi dell’ingenuità e della presunzione del leader leghista. Premesso che la strategia era e resta la presa del potere, legittimamente conseguito attraverso le elezioni, la tattica prevedeva varie possibilità: a)andare subito alle urne b)formare un nuovo governo gialloverde, sostituendo incapaci ed “europeisti” c)passare all’opposizione di un governo giallorosso che essendo tenuto per le palle da Renzi e dall’austerità dei signori di Bruxelles finirà presto con l’andare a sbattere e allora non rimarrà che il ricorso alle urne.

 Ancorché sofisticata, questa tattica non sembra molto più convincente di quella semplicistica, basata sull’ingenuità e la presunzione del leader leghista e contrabbandata con qualche credibilità dalle élite e dai media. Perché ha la sua debolezza nel punto c. Infatti, se è vero che Renzi è in grado di staccare la spina al governo in qualsiasi momento (e questo lascia trasparire tutta la debolezza del nuovo segretario del PD), si può ragionevolmente supporre che lo farà solo dopo la sterilizzazione dell’IVA e l’approvazione di una nuova legge elettore e comunque quando sarà certo di trarne vantaggi, riaffermando la propria supremazia all’interno del PD o, com’è più probabile, costituendo gruppi autonomi di un nuovo partito al centro dello schieramento politico che diverrebbe l’ago della bilancia per qualsiasi maggioranza di governo, tanto più in presenza di una legge elettorale di tipo proporzionale. In tale prospettiva, le elezioni non sarebbero più una passeggiata per Salvini: è poco probabile che egli sia in grado per allora di conservare il consenso che ancora oggi gli attribuiscono i sondaggi. Non solo perché, come sosteneva un gran capo delle vecchie tribù democristiane, spesso “il potere logora chi non ce l’ha”, ma soprattutto perché il sistema proporzionale chiama più ospiti a partecipare al medesimo banchetto, dove per giunta le vivande sono addirittura calate (leggi: riduzione del numero dei parlamentari).

 D’altra parte, se si evita di ricorrere alle categorie dell’ingenuità e della presunzione nel valutare la mossa di Salvini, occorre riconoscere che egli deve aver soppesato la debolezza di quel punto c presente nella tattica. Se l’ha fatto ed è andato oltre anche se a malincuore, deve aver avuto le sue buone ragioni. Rinunciare ad un ruolo che in un anno gli ha consentito di raddoppiare i voti della Lega (dal 17% delle politiche al 34% delle europee) non deve essere stato facile, come pure rischiare di perdere quel circa 33% di consenso elettorale nel Lazio e soprattutto quel circa 24% delle regioni meridionali. Consenso labile questo del centro-sud, come si sa, che nel tempo assegna sempre un surplus di voti al partito e al leader momentaneamente sulla cresta dell’onda. Costretto a scegliere tra Lega e Lega Nord, Salvini ha scelto la seconda, il nucleo fondativo, la ragion d’essere del vecchio partito padano. Se avesse scelto la prima, sarebbe ancora al governo e lotterebbe ancora spalla a spalla con i Cinquestelle per l’affermazione delle proprie riforme e senza mollare nulla, ma la sua leadership nel partito sarebbe ridotta agli sgoccioli. Poco interessa ai leghisti doc il governo di Roma se non porta all’autonomia finanziaria delle regioni del nord (soprattutto Veneto e Lombardia) e quanto alla flat tax il nucleo storico della Lega Nord lo vuole ma non alle condizioni estreme illustrate da Salvini: deficit di 50 miliardi, guerra con Bruxelles con tutti i rischi per le imprese del nord che questo comporta. Meglio allora avere le mani libere fuori dal governo romano e se in seguito le prospettive dovessero peggiorare, c’è sempre la possibilità di rilanciare l’idea della secessione. Non a caso Zaia, governatore del Veneto, in una intervista di ieri si è detto completamente d’accordo con Salvini che ha staccato la spina.

 In tale prospettiva, il leader della Lega ha sempre saputo che il punto c della tattica mette a rischio la sua stessa strategia. Cercherà di mediare tra le esigenze della Lega e della politica e quelle della Lega Nord e dell’economia, ma non sarà facile e l’ascesa elettorale della Lega Italia potrebbe arrestarsi definitivamente, proprio perché il capolavoro politico di Salvini non è stato soltanto aver portato la Lega da Pontida a Lampedusa – quasi la promessa di un nuovo Risorgimento – ma si è basato a livello nazionale sul superamento del centrodestra e sull’alleanza con un movimento che almeno ufficialmente si proclama né di destra né di sinistra. Tant’è che Salvini, nonostante sia apparso come un catalizzatore dei voti di estrema destra, ha finito per riscuotere consensi anche a sinistra, come dimostra lo studio dei recenti flussi elettorali. Il ritorno nell’alveo del centrodestra con Meloni e Berlusconi rischia per la Lega di far girare all’indietro la ruota della Storia.

sergio magaldi

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