Sarebbe più convincente per tutti attribuire ai termini il
loro giusto significato in modo da evitare che si continui a contestare una
cosa per un’ altra
di Alberto Zei
A
seguito della contrastata campagna promozionale delle diverse tipologie dei
vaccini, andrebbe chiarito una volta per tutte che nessuno di questi “vaccini“
rispondeva alle caratteristiche preventive basate sugli anticorpi prodotti
direttamente contro il covid. Infatti il meccanismo terapeutico provocato dalla
sostanza inoculata non crea direttamente anticorpi contro il coronavirus ma
induce una relazione nell’organismo che genera degli spike (protuberanze
puntiformi) i quali a loro volta si posizionano sul recettori cellulari
ostruendo la penetrazione del virus all’interno della cellula.
Si è
trattato dunque di un espediente che stante le condizioni di emergenza ha
comunque impedito anche se solo in
parte, conseguenze più gravi.
Ma di quale vaccino si tratta - Dopo alcuni mesi dalla somministrazione del vaccino la protezione dei recettori cellulari che impediva al coronavirus di posizionarsi sugli stessi, si affievolisce. Ciò avviene in modo progressivo ma mediamente, in 4 o 5 mesi, la protezione si riduce sensibilmente tanto che dal punto di vista statistico la percentuale di copertura assume valori poco significativi.
Sembra
infatti accertato, stante il numero degli ammalati di covid dopo la prima efficacia
del vaccino, che il sistema immunitario rimanga depresso quando i recettori
cellulari si liberano dagli spike che hanno impedito al virus di penetrare
nelle cellule. Quindi l'effetto lasciato dalle attuali tipologie dei vaccini
somministrati – in luogo di alzare le difese nel futuro contro gli antigeni
della stessa specie coronavirus – finisce al contrario col diminuire la capacità
reattiva del sistema immunitario.
In
particolare, una delle attuali varianti del covid, denominata Omicron,
si è avvalsa della sintesi con un
virus influenzale. Questa combinazione tra i due agenti patogeni ha comportato
anche una variante nelle conseguenze patologiche: la componente influenzale di
maggior contagio ha ridotto quella della virulenza tipica del covid. Il
risultato al momento è la maggiore
contagiosità e la minore gravità dell’infezione.
Prospettive
future - Questa è la situazione attuale ma la prossima variante potrebbe essere
di differenti caratteristiche. Il meccanismo che domina il cambiamento di base
sull’introduzione del RNA del virus, è una proteasi (enzima) delle cellule umane, denominata furina. Senza scendere nei dettagli di questo enzima,
va solo detto che la furina fornisce
al virus che penetra nella
cellula il servizio di renderlo adeguato alla riproduzione. Il quadro operativo
della malattia è pertanto attivato da un segmento di RNA estraneo al virus originale ma presente al suo interno, in
quanto risulta ora introdotto nella
sequenza di replicazione. Sorge allora
la domanda perché mai non si elimina questo enzima. Se si trattasse di una
proteina del virus non sarebbe un problema eliminarla in qualche modo ma,
trattandosi del segmento di una proteasi umana
introdotta nel virus, le conseguenze si rifletterebbero anche sull’intero
organismo poiché la furina ha più di 200
funzioni riguardanti le cellule umane che, pertanto, ne risulterebbero
danneggiate.
La
questione che si pone è dunque come si possa venir fuori da una problematica di
questo genere dal momento che siamo di
fronte a un problema che non ammette soluzioni. La risposta è machiavellica.
Occorre aggirare l’ ostacolo. In altri termini, se non è possibile eliminare
questa proteina, dovrebbe però essere possibile intervenire indirettamente
affinché la stessa proteina non si comporti in modo favorevole alla
riproduzione del virus.
La
furina - Per meglio
comprendere il perché la furina è così importante, è bene accennare brevemente alla sua funzione
all’interno del virus, una volta che questo penetra nella cellula. La furina,
in estrema sintesi, è un segmento proteico posto all’interno della struttura
virale del RNA, come chiuso da una sub struttura che lo contiene.
Quando
il virus penetra all’interno della
cellula, questa struttura si apre per fare uscire quanto serve allo stesso virus
per duplicarsi. Nell’ attuale mutazione Omicron in cui prevale la contagiosità,
la funzione della furina è di produrre delle sostanze intercellulari che si
prestano alla rapida replicazione virale e
che hanno la caratteristica della notevole contagiosità. Per far questo
la furina dispone di due particolari aperture, ma secondo la tipologia virale, la furina apre la
porta alle sostanze necessarie al virus di questa
specie, ossia all’Omicron.
In
caso di ulteriore mutazione del codice genetico con una specie di maggiore virulenza, la
furina dispone dell’altra
apertura che in tal caso utilizzerebbe in luogo dell’attuale. Le due porte che caratterizzano la fuoriuscita delle
sostanze deputate alle necessità di riproduzione del ceppo virale attivo, mantengono la loro
alternanza a seconda della qualità dell’ infezione, ossia della contagiosità piuttosto che della virulenza
o viceversa.
Le
ondate virali - Le successive
mutazioni del covid prevarranno a secondo dei meccanismi naturali utilizzati da
questo virus per la sopravvivenza della
specie; condizioni queste sulle quali non sembra proprio che fino adesso si
possa intervenire con successo.
Le
note di speranza nel contesto delle
ondate di pandemia che si prevedono nel prossimo futuro è quello di intervenire
sulla furina che però non può essere eliminata perché, come già detto, è
indispensabile all’organismo umano.
Da
quanto è dato sapere l’ intervento della furina virale all’ interno della
cellula potrebbe però essere bloccato, almeno in teoria. La furina che apre la via all’ uscita di
componenti essenziali per la riproduzione del virus inizialmente veniva
contrastata con la somministrazione di sostanze terapeutiche, contenenti zinco.
Solo che, con il passare del tempo, il virus ha trovato il modo di fare aprire
la furina ugualmente. Quindi lo zinco almeno in parte, è stato ormai superato
dal meccanismo di sopravvivenza del coronavirus.
Il
vaccino del prossimo futuro - Ma se il vaccino non è un vaccino di quale
vaccino si parla?
Il
peccato originale, per così dire, è proprio nel farmaco che viene utilizzato
anche con risultati positivi contro il
coronavirus: gli viene attribuito il termine di vaccino mentre si tratta di
altro preparato con diverso meccanismo terapeutico.
In
un precedente articolo si è già detto in proposito che i vaccini somministrati
non avevano le caratteristiche di contrapporsi attraverso la formazione di
anticorpi all’infiltrazione virale del coronavirus. Si trattava di generare, attraverso l’inoculazione dello pseudo vaccino, degli spike che, come il
cappello lasciato sulla sedia del teatro per mantenere il posto occupato, si
posizionavano sopra i ricettori cellulari impedendo al covid di penetrare
all’interno della cellula. Ma per quanto tempo? Da quanto è dato sapere il
tempo di copertura non andava più là di qualche mese, abbandonando l’occupazione
del recettore in modo progressivo, tanto che al quinto mese la percentuale di
efficacia si riduceva poco sopra
del 10%. La questione più
importante è forse quella relativa alle conseguenze di questa copertura che
avrebbe dovuto, alla stregua dei vaccini, contribuire alle difese immunitarie
generando anticorpi proprio contro la malattia che il vaccino dovrebbe
prevenire.
Al
contrario, per quanto riguarda il coronavirus, quando la protezione dei
recettori occupati si esaurisce, la capacità di opporsi al covid, anziché aumentare
a seguito del vaccino somministrato,
diminuisce.
Nessun commento:
Posta un commento