giovedì 22 maggio 2014

CONSIDERAZIONI SUL VOTO EUROPEO




   Non nego che in poco più di due mesi e mezzo il governo Renzi abbia prodotto risultati forse mai conseguiti da altri governi negli ultimi venti anni:

 1)Tracciato il percorso di una riforma costituzionale per l’abolizione del bicameralismo perfetto, causa del rinvio delle leggi all’infinito da un ramo all’altro del Parlamento, a prescindere poi dalla fisionomia che assumerà il nuovo Senato e dai compiti che gli verranno assegnati.

 2)Approvata una riforma elettorale dalla Camera dei deputati, che sarà anche manchevole, perché premia le coalizioni a danno dei singoli partiti, ma che almeno garantisce la governabilità in un Paese che continua a mantenere il primato negativo in Europa circa la durata dei governi. E se appaiono giustificate le polemiche del Movimento Cinque Stelle contro una legge che sembra concepita per il PD e per la coalizione di Centrodestra, bisogna osservare che, prima di arrivare al patto del Nazareno con Berlusconi, Renzi si era rivolto a Grillo probabilmente per concordare con lui una legge diversa, vedendosi opporre il rifiuto di ogni trattativa. Stupisce in proposito l’atteggiamento di alcuni noti giornalisti della carta stampata e della TV che, prendendo a riferimento le prossime elezioni europee, dove si vota col sistema proporzionale, si ostinano a ripetere che l’attuale duello per il primato tra PD e Cinque Stelle, potrebbe ripetersi alle future elezioni politiche, anche in presenza della nuova legge elettorale. Ipotesi quanto mai ingannevole e tesi quanto mai  improbabile se si considera che il Centrodestra si gioverebbe quasi sicuramente in futuro di una coalizione [Forza Italia-NCD-Fratelli d’Italia e Lega Nord] che, in base a tutti i sondaggi, oggi si attesta al 34-35%, percentuale difficilmente raggiungibile dal solo M5S.

 3)Tagli della spesa pubblica e tetto nella retribuzione dei dirigenti pubblici. Certo, misure timide e parziali. Resta comunque apprezzabile la strada imboccata in questa direzione. È chiaro che se il governo si fermasse qui, si tratterebbe solo di una goccia d’acqua prelevata dal mare.

 4)Taglio degli ormai arcinoti 80 Euro di Irpef nella busta paga dei lavoratori dipendenti con reddito sino a 25.000 Euro annui. Misura sicuramente elettorale e persino priva di equità, innanzi tutto perché non tiene conto del reddito imponibile complessivo ma solo di quello da lavoro dipendente. Infatti, può benissimo darsi il caso di chi non guadagna più di 1500 Euro mensili ma possiede beni mobili e immobili di una certa rilevanza. Eppure, qualcosa di nuovo sotto il sole, un beneficio di cui potranno comunque giovarsi alcuni milioni di italiani. Resta comunque la considerazione che senza una riforma fiscale in grado di riequilibrare tra loro i redditi degli italiani, senza i controlli fiscali incrociati per combattere davvero l’evasione fiscale – tra servizi resi e quelli usufruiti e detraibili per i cittadini –, la stessa misura degli “80 Euro per sempre” si risolverebbe presto in un gioco delle tre carte [in proposito, clicca per leggere il post Il ritorno di Berlusconi].

5)Una serie di altre misure che hanno fatto discutere, ma che se non altro si è avuto il coraggio di proporre, tra cui l’abolizione delle Province, come enti politici, e i provvedimenti sul lavoro che qualche segnale positivo sul fronte dell’occupazione sembra lo stiano dando.

 Insomma, se si trattasse di andare a votare per le elezioni politiche italiane, si potrebbe tranquillamente e almeno per il momento, “fare fiducia” a Renzi, non tanto e non solo in base a ciò che ha realizzato sin qui, ma nella prospettiva e nella speranza che continui con la sua determinazione nel portare avanti le riforme necessarie alla sopravvivenza del Paese. Il fatto è che Domenica 25 maggio si va a votare per l’Europa e qui la questione si complica.

 Com’è noto il potere nella UE è esercitato da tre organismi: la BCE, la Commissione Europea, il Consiglio Europeo. C’è poi il MES [Fondo salva stati/banche] e il Parlamento Europeo. Sotto la supervisione della BCE, Presidente della Commissione Europea promuove le leggi, e il Consiglio Europeo degli stati membri ha il potere di approvarle o respingerle, mentre il Parlamento Europeo ha una funzione meramente consultivo-decorativa. In questa ottica risulta evidente il primato della finanza e di Eurogermania perché, con qualche eccezione per alcuni paesi del nord europeo che però non hanno rilevanza politica, l’unico stato florido e in pieno sviluppo del continente è quello tedesco. Pertanto, l’elezione di qualche deputato in più di un partito rispetto ad un altro non sembra così importante, anche se un successo degli euroscettici [Front National della francese Le Pen – PPV  dell’olandese Geert Wilders – UKIP dell’inglese Nigel Farage, con gli alleati italiani di Fratelli d’Italia e della Lega Nord] potrebbe condizionare la politica interna di ciascuno di questi paesi, ma solo nel senso di un ulteriore allontanamento dalla realizzazione dell’Europa dei popoli. Anche l’elezione del Presidente della Commissione Europea non ha l’importanza che si fa finta di attribuirgli. A fronte dei poteri esercitati da chi controlla il flusso del denaro, dalla BCE e da Eurogermania, come definire il potere del Presidente uscente, il portoghese José Manuel Barroso, e quello del vicepresidente, l’italiano Antonio Tajani?

 Inoltre, basta vedere il programma dei candidati alla Presidenza. Il leader greco Alexis Tsipras dichiara di volersi battere per mettere fine alla politica di austerità che ha arricchito la Germania a danno degli altri paesi europei e per fare dell’Europa un’entità politica e di popoli, con un vero Parlamento e con una Banca in grado di ripianare debiti e risorse tra gli stati membri dell’Unione. Bene, il fatto è che Tsipras non ha alcuna possibilità di vincere e la sua presenza come candidato ha solo valore di testimonianza. Gli altri quattro candidati, di cui due tedeschi, sembrano attestarsi su posizioni equivalenti tra loro, dichiarando a parole di voler adottare misure per rilanciare l’Europa, ma guardandosi bene dal volerne intaccare l’attuale funzionamento. In questa direzione si muovono sia il liberal democratico belga Guy Verhofstadt, sia i tedeschi Martin Schulz [PSE] e Ska Keller [Verdi] e persino il lussemburghese Jean Claude Junker, candidato del Partito Popolare Europeo, di cui fanno parte tutti i gruppi conservatori e/o dei cosiddetti moderati, tra i quali la CDU di Angela Merker, il Nuovo Centrodestra di Alfano e  Forza Italia di Berlusconi. Cioè dello schieramento che sin qui ha orchestrato le strategie europee. Bene, cambierebbe qualcosa in Europa, se il PPE, con i suoi attuali 13 commissari su 28 [i restanti, spartiti tra i liberali dell’ALDE – tra cui figura Oli Rehn, il commissario UE per gli affari economici e monetari – e i socialisti del PSE] perdesse il primato a vantaggio dell’Alleanza Progressista dei socialisti e democratici? I quali già in passato e per vent’anni hanno avuto la preminenza in Europa?

 In questa prospettiva, il voto al PD nelle elezioni di Domenica prossima equivale ad un voto dato all’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici di Martin Schulz, nella speranza che il socialdemocratico si batta realmente per ridurre lo strapotere del suo stesso Paese, l’unica strada percorribile se si vuole uscire dalla crisi che attanaglia l’Europa. Dal canto mio, non riesco ad immaginare un tedesco che affronti l’impopolarità di opporsi ad un altro tedesco, soprattutto se quest’ultimo si è visto confermare di recente il successo elettorale in patria e se il partito del primo ha da poco formato con l’altro una grosse koalition per governare il Paese, mantenendo intatta l’egemonia in Europa. Naturalmente, potrei sbagliarmi e occorre aggiungere che non è soltanto colpa della Germania se l’Europa è in crisi, perché la corruzione della classe politica, soprattutto in Italia, in Grecia e in Spagna, non è un fattore di secondaria importanza.

 Se questa è la realtà che abbiamo di fronte, cosa rimane da fare al cittadino che voglia davvero contribuire al cambiamento della politica europea e che tuttavia abbia l’intenzione di continuare a sentirsi europeo? Perché l’uscita dall’euro, come propongono gli euroscettici, sarebbe pagata a caro prezzo, con un costo ancora più oneroso per i cittadini di quando furono costretti ad entrare nella moneta unica senza neppure una consultazione popolare e vedendosi addirittura dimezzare il proprio reddito da un giorno all’altro. E il ritorno alla cosiddetta sovranità nazionale, come sostiene la francese Le Pen e i suoi alleati di destra più o meno oltranzisti, significherebbe un passo indietro, il passo del gambero nella direzione dei conflitti nazionali permanenti.

 E allora? La tentazione di non andare a votare è forte, ma potrebbe essere un errore perché ridurrebbe ulteriormente le nostre aspettative. L’unica alternativa sembra essere non tanto un voto di testimonianza ma forse qualcosa di più. Forse la condivisione di un movimento che finisca con l’affiancarsi a Tsipras, senza patirne l’eredità ideologica, e che non pretenda di uscire dall’euro e di ritornare alle litigiose e apparenti sovranità nazionali, come propugnano le destre, ma che sia abbastanza forte nel nostro Paese e così inquieto sul versante continentale, tanto da indurre l’Europa ad un reale cambiamento di prospettiva.

sergio magaldi

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