Non nego che in poco più di due mesi e mezzo il governo
Renzi abbia prodotto risultati forse mai conseguiti da altri governi negli
ultimi venti anni:
1)Tracciato il percorso di una riforma
costituzionale per l’abolizione del bicameralismo perfetto, causa del rinvio
delle leggi all’infinito da un ramo all’altro del Parlamento, a prescindere poi
dalla fisionomia che assumerà il nuovo Senato e dai compiti che gli verranno
assegnati.
2)Approvata una riforma elettorale dalla
Camera dei deputati, che sarà anche manchevole, perché premia le coalizioni a
danno dei singoli partiti, ma che almeno garantisce la governabilità in un
Paese che continua a mantenere il primato negativo in Europa circa la durata
dei governi. E se appaiono giustificate le polemiche del Movimento Cinque
Stelle contro una legge che sembra concepita per il PD e per la coalizione di
Centrodestra, bisogna osservare che, prima di arrivare al patto del Nazareno
con Berlusconi, Renzi si era rivolto a Grillo probabilmente per concordare con
lui una legge diversa, vedendosi opporre il rifiuto di ogni trattativa.
Stupisce in proposito l’atteggiamento di alcuni noti giornalisti della carta
stampata e della TV che, prendendo a riferimento le prossime elezioni europee,
dove si vota col sistema proporzionale, si ostinano a ripetere che l’attuale
duello per il primato tra PD e Cinque Stelle, potrebbe ripetersi alle future
elezioni politiche, anche in presenza della nuova legge elettorale. Ipotesi
quanto mai ingannevole e tesi quanto mai
improbabile se si considera che il Centrodestra si gioverebbe quasi
sicuramente in futuro di una coalizione [Forza Italia-NCD-Fratelli d’Italia e
Lega Nord] che, in base a tutti i sondaggi, oggi si attesta al 34-35%,
percentuale difficilmente raggiungibile dal solo M5S.
3)Tagli della spesa pubblica e tetto nella
retribuzione dei dirigenti pubblici. Certo, misure timide e parziali. Resta
comunque apprezzabile la strada imboccata in questa direzione. È chiaro che se
il governo si fermasse qui, si tratterebbe solo di una goccia d’acqua prelevata
dal mare.
4)Taglio degli ormai arcinoti 80 Euro di Irpef
nella busta paga dei lavoratori dipendenti con reddito sino a 25.000 Euro
annui. Misura sicuramente elettorale e persino priva di equità, innanzi tutto
perché non tiene conto del reddito imponibile complessivo ma solo di quello da
lavoro dipendente. Infatti, può benissimo darsi il caso di chi non guadagna più
di 1500 Euro mensili ma possiede beni mobili e immobili di una certa rilevanza.
Eppure, qualcosa di nuovo sotto il sole, un beneficio di cui potranno comunque
giovarsi alcuni milioni di italiani. Resta comunque la considerazione che senza
una riforma fiscale in grado di riequilibrare tra loro i redditi degli
italiani, senza i controlli fiscali incrociati per combattere davvero
l’evasione fiscale – tra servizi resi e quelli usufruiti e detraibili per i
cittadini –, la stessa misura degli “80 Euro per sempre” si risolverebbe presto
in un gioco delle tre carte [in proposito, clicca per leggere il post Il ritorno di Berlusconi].
5)Una serie di altre misure che
hanno fatto discutere, ma che se non altro si è avuto il coraggio di proporre,
tra cui l’abolizione delle Province, come enti politici, e i provvedimenti sul
lavoro che qualche segnale positivo sul fronte dell’occupazione sembra lo stiano dando.
Insomma, se si trattasse di andare a votare
per le elezioni politiche italiane, si potrebbe tranquillamente e almeno per il
momento, “fare fiducia” a Renzi, non tanto e non solo in base a ciò che ha
realizzato sin qui, ma nella prospettiva e nella speranza che continui con la
sua determinazione nel portare avanti le riforme necessarie alla sopravvivenza
del Paese. Il fatto è che Domenica 25 maggio si va a votare per l’Europa e qui
la questione si complica.
Com’è noto il potere nella UE è esercitato da
tre organismi: la BCE, la Commissione Europea, il Consiglio Europeo. C’è poi il
MES [Fondo salva stati/banche] e il Parlamento Europeo. Sotto la supervisione
della BCE, Presidente della Commissione Europea promuove le leggi, e il
Consiglio Europeo degli stati membri ha il potere di approvarle o respingerle,
mentre il Parlamento Europeo ha una funzione meramente consultivo-decorativa.
In questa ottica risulta evidente il primato della finanza e di Eurogermania
perché, con qualche eccezione per alcuni paesi del nord europeo che però non
hanno rilevanza politica, l’unico stato florido e in pieno sviluppo del
continente è quello tedesco. Pertanto, l’elezione di qualche deputato in più di
un partito rispetto ad un altro non sembra così importante, anche se un
successo degli euroscettici [Front National della francese Le Pen
– PPV dell’olandese Geert Wilders
– UKIP dell’inglese Nigel Farage, con gli alleati italiani di Fratelli
d’Italia e della Lega Nord] potrebbe condizionare la politica
interna di ciascuno di questi paesi, ma solo nel senso di un ulteriore
allontanamento dalla realizzazione dell’Europa dei popoli. Anche l’elezione del
Presidente della Commissione Europea non ha l’importanza che si fa finta di
attribuirgli. A fronte dei poteri esercitati da chi controlla il flusso del
denaro, dalla BCE e da Eurogermania, come definire il potere del Presidente
uscente, il portoghese José Manuel Barroso, e quello del vicepresidente,
l’italiano Antonio Tajani?
Inoltre, basta vedere il programma dei
candidati alla Presidenza. Il leader greco Alexis Tsipras dichiara di volersi
battere per mettere fine alla politica di austerità che ha arricchito la
Germania a danno degli altri paesi europei e per fare dell’Europa un’entità
politica e di popoli, con un vero Parlamento e con una Banca in grado di
ripianare debiti e risorse tra gli stati membri dell’Unione. Bene, il fatto è
che Tsipras non ha alcuna possibilità di vincere e la sua presenza come
candidato ha solo valore di testimonianza. Gli altri quattro candidati, di cui
due tedeschi, sembrano attestarsi su posizioni equivalenti tra loro,
dichiarando a parole di voler adottare misure per rilanciare l’Europa, ma
guardandosi bene dal volerne intaccare l’attuale funzionamento. In questa
direzione si muovono sia il liberal democratico belga Guy Verhofstadt, sia i
tedeschi Martin Schulz [PSE] e Ska Keller [Verdi] e persino il lussemburghese
Jean Claude Junker, candidato del Partito Popolare Europeo, di cui fanno parte
tutti i gruppi conservatori e/o dei cosiddetti moderati, tra i quali la CDU di
Angela Merker, il Nuovo Centrodestra di Alfano e Forza Italia di Berlusconi. Cioè dello
schieramento che sin qui ha orchestrato le strategie europee. Bene, cambierebbe
qualcosa in Europa, se il PPE, con i suoi attuali 13 commissari su 28 [i
restanti, spartiti tra i liberali dell’ALDE – tra cui figura Oli Rehn, il
commissario UE per gli affari economici e monetari – e i socialisti del PSE]
perdesse il primato a vantaggio dell’Alleanza Progressista dei socialisti e
democratici? I quali già in passato e per vent’anni hanno avuto la
preminenza in Europa?
In questa prospettiva, il voto al PD nelle
elezioni di Domenica prossima equivale ad un voto dato all’Alleanza
Progressista dei Socialisti e dei Democratici di Martin Schulz, nella speranza
che il socialdemocratico si batta realmente per ridurre lo strapotere del suo
stesso Paese, l’unica strada percorribile se si vuole uscire dalla crisi che
attanaglia l’Europa. Dal canto mio, non riesco ad immaginare un tedesco che
affronti l’impopolarità di opporsi ad un altro tedesco, soprattutto se
quest’ultimo si è visto confermare di recente il successo elettorale in patria
e se il partito del primo ha da poco formato con l’altro una grosse
koalition per governare il Paese, mantenendo intatta l’egemonia in Europa.
Naturalmente, potrei sbagliarmi e occorre aggiungere che non è soltanto colpa
della Germania se l’Europa è in crisi, perché la corruzione della classe
politica, soprattutto in Italia, in Grecia e in Spagna, non è un fattore di
secondaria importanza.
Se questa è la realtà che abbiamo di fronte,
cosa rimane da fare al cittadino che voglia davvero contribuire al cambiamento
della politica europea e che tuttavia abbia l’intenzione di continuare a
sentirsi europeo? Perché l’uscita dall’euro, come propongono gli euroscettici,
sarebbe pagata a caro prezzo, con un costo ancora più oneroso per i cittadini
di quando furono costretti ad entrare nella moneta unica senza neppure una
consultazione popolare e vedendosi addirittura dimezzare il proprio reddito da
un giorno all’altro. E il ritorno alla cosiddetta sovranità nazionale, come
sostiene la francese Le Pen e i suoi alleati di destra più o meno oltranzisti,
significherebbe un passo indietro, il passo del gambero nella direzione
dei conflitti nazionali permanenti.
E allora? La tentazione di non andare a votare
è forte, ma potrebbe essere un errore perché ridurrebbe ulteriormente le nostre
aspettative. L’unica alternativa sembra essere non tanto un voto di
testimonianza ma forse qualcosa di più. Forse la condivisione di un movimento
che finisca con l’affiancarsi a Tsipras, senza patirne l’eredità ideologica, e
che non pretenda di uscire dall’euro e di ritornare alle litigiose e apparenti
sovranità nazionali, come propugnano le destre, ma che sia abbastanza forte nel
nostro Paese e così inquieto sul versante continentale, tanto da indurre
l’Europa ad un reale cambiamento di prospettiva.
sergio
magaldi
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