Michele Serra, Gli sdraiati, laFeltrinelli-I Narratori, Milano 2013, pp.108 |
“Ma dove cazzo sei?
Ti ho telefonato almeno quattro volte, non
rispondi mai.”
Così inizia il dialogo-monologo che l’autore
del breve saggio romanzato di 108 pagine intrattiene col figlio poco più che
adolescente. E prosegue implacabile nel descrivere le tracce della sua presenza
e del suo “passaggio” in casa: il lavello della cucina pieno di piatti sporchi,
i posacenere colmi di cicche, gli asciugamani zuppi sparsi sul pavimento del
bagno, luci e apparecchi elettronici lasciati accesi. E il giudizio conclusivo
e inappellabile su questo primo “contatto” col figlio:
“Tu sei il consumista perfetto. Il sogno di
ogni gerarca o funzionario della presente dittatura, che per tenere in piedi le
sue mura deliranti ha bisogno che ognuno bruci più di quanto scalda, mangi più
di quanto lo nutre, illumini più di quanto può vedere, fumi più di quanto può
fumare, compri più di quanto lo soddisfa.”
[p.15, Edizioni Mondolibri].
È
il segno inequivocabile della “Grande Guerra Finale” tra generazioni che
si va preparando per la metà del secolo in corso, quando i Vecchi, difesi da
“mercenari asiatici e africani giovanissimi”, spareranno sui loro coetanei, gli
sdraiati e i tatuati, per i quali il concetto del tempo sembra essersi
rovesciato: in posizione orizzontale quando gli adulti sono in piedi, eretti
nell’ora in cui chi ha lavorato tutto il giorno finalmente si riposa. Ma c’è
anche la tenerezza del ricordare com’è stato più facile amare il proprio figlio
quando era piccolo. Non un merito, in fondo – riflette lucido e cinico l’autore
– perché “l’amore naturale che si porta ai figli bambini non è un merito” ma un istinto comune
anche agli animali. E sulla guerra in atto tra Vecchi e Giovani deve esserci
una responsabilità dei padri almeno pari a quella dei figli. Forse c’entra
qualcosa in tutto questo l’aver fatto crescere i figli troppo in fretta,
affrancandoli da quella inconscia e “felice marginalità infantile” che una
volta teneva i bambini, loro malgrado, a giusta distanza dagli adulti e dai
genitori. E da questo interrogativo la coscienza del padre scivola
pericolosamente tra il senso di colpa nei confronti del figlio [le fughe, i
silenzi, la mancanza di autorevolezza] e le sollecitazioni del “Pensiero
Reazionario” [come lo chiama l’autore] che rivendica metodi forti e autoritari
nell’azione educativa. Dicotomia insita nel mestiere di padre, mestiere
impossibile lo definisce Freud, perché – gli fa eco Sartre – educare non è
trasmettere regole ma creare le premesse per l’assunzione del rischio della
libertà.
La rappresentazione del figlio adolescente,
nelle pagine che seguono, assume la connotazione di una vera e propria
caricatura dell’uso della tecnologia nel nostro tempo, sebbene l’autore
dichiari il realismo “scientifico” di ciò che descrive:
“Eri sdraiato
sul divano, dentro un accrocco spiegazzato di cuscini e briciole […]. Sopra la
pancia tenevi appoggiato il computer acceso. Con la mano destra digitavi
qualcosa sullo smartphone. La sinistra, semi-inerte, reggeva con due dita, per
un lembo, un lacero testo di chimica, a evitare che sprofondasse per sempre
nella tenebrosa intercapedine tra lo schienale e i cuscini,laddove una volta
ritrovai anche un würstel crudo, uno dei tuoi alimenti prediletti. La
televisione era accesa, a volume altissimo, su una serie americana nella quale
due fratelli obesi, con un lessico rudimentale, spiegavano come si bonifica una
villetta dai ratti. Alle orecchie tenevi le cuffiette, collegate all’iPod
occultato in qualche anfratto: è possibile, dunque, che tu stessi anche
ascoltando musica.”[p.50].
Da questo quadretto emerge
che il conflitto generazionale si spiega innanzi tutto col diverso humus
in cui si trovano a vivere padri e figli. “Nulla di nuovo sotto il sole”,
dunque, anche se l’era tecnologica ha contribuito, forse come mai in passato,
ad amplificare le differenze, e la prosa serrata di Michele Serra ci fa
partecipi [con più comicità o amarezza?] di una percezione radicale del
contrasto. In realtà è stato sempre così e letteratura e cinema ne hanno reso
ampia testimonianza: più di mezzo secolo fa Marcello Rubini [Marcello
Mastroianni], il giornalista di La dolce vita, tenta inutilmente di
“recuperare” un rapporto con suo padre proprio nel momento in cui ne coglie tutta
la debolezza, ma il padre [Annibale Ninchi] fugge in taxi davanti ai
suoi occhi e sordo al suo richiamo, come vergognoso di essersi lasciato andare
e per la vecchiaia incombente.
Anche all’autore del libro viene il sospetto,
nonostante le analisi in cui sembra sostenere il contrario, che la maggiore
responsabilità del conflitto dipenda dai padri, almeno a giudicare dall’esito
della sua cosiddetta “Grande guerra finale” e a chi avesse qualche
dubbio in proposito giova ricordargli il mito di Kronos [Saturno – Tempo]
che divora i suoi figli…
Ma la diversità non può essere la giustificazione
dell’estraneità e/o della conflittualità e la cosa che emoziona di più in
queste pagine è il ricorrente invito che il padre rivolge al figlio di salire
con lui al Colle della Nasca [pp. 25, 33, 41, 49, 57, 69, 83, 91, e 95 ],
perché è “il luogo più bello del mondo”, perché a sua volta vi andò con suo
padre quando aveva solo 11 anni, perché permetterà a padre e figlio di
ritrovarsi in una dimensione che da quell’istante apparterrà soltanto a loro.
sergio
magaldi
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