L'iniziazione al grado di maestro |
Quale
che sia l’origine della leggenda di Hiram [in proposito vedi il post Le fonti tradizionali della leggenda di Hiram e clicca sul titolo per
leggere], appare evidente la sua centralità nella Massoneria, sia nella cerimonia
di iniziazione al terzo grado della Massoneria azzurra, il grado di maestro, sia per ciò che attiene alla
prosecuzione dei lavori nei gradi del Rito Scozzese Antico ed Accettato, almeno
sino al 17.mo grado del Cavaliere
d’Oriente e d’Occidente.
Il Compagno della Loggia azzurra sente parlare
di Hiram allorché è elevato al grado di maestro. Egli apprende che Hiram è il
grande architetto prescelto dal re Salomone per la costruzione del Tempio.
Hiram aveva diviso gli operai in tre
categorie: apprendisti, compagni e maestri, dando a ciascuna categoria precise
parole di passo per farsi riconoscere e riscuotere il salario dovuto. Un
giorno, com’è noto, tre compagni invidiosi, ritenendo di meritare il salario di
maestro, chiedono minacciosi a Hiram la parola segreta. Il grande architetto,
naturalmente, si oppone gridando ai tre compagni parole che dovremmo meditare a
lungo e in ogni circostanza: ‘Non così io
l’ho ricevuta! Non così si deve chiederla!’. E sul punto di morire, per le
violenze inferte, egli così ammonisce i compagni:
‘Lavora,
persevera, impara. Solo così avrai diritto alla maggior ricompensa!’.
Il massone che è sul punto di ricevere la maestria è condotto alla scoperta della
tomba di Hiram presso un albero di acacia e attraverso una drammatizzazione,
che è il cuore stesso della cerimonia iniziatica, prende coscienza dell’eterno
ciclo della morte e della rinascita.
Quale, allora, il significato del
ripresentarsi della leggenda nel quarto grado, nel primo cioè dei gradi del
Rito Scozzese Antico ed Accettato?
Salomone, benché
sconvolto per la scomparsa del grande architetto, nomina un nuovo
sovrintendente perché i lavori per la costruzione del Tempio possano riprendere
con forza e vigore. Quale maggiore continuità si potrebbe stabilire tra le
vicende che ispirano il rituale del terzo grado della Massoneria Azzurra e
quelle da cui inizia il cammino dello ‘scozzese’?
Il
Maestro Hiram
Diversi autori hanno tentato di ricostruire la
prima apparizione della leggenda di Hiram nella tradizione massonica. In
proposito, c’è chi ricorda la citazione che del nome di Hiram fa il Manoscritto di Cooke, circa alla metà
del Quattrocento e nell’ambito della Massoneria ‘operativa’ del XV secolo, senza peraltro alludere alla sua
uccisione ma solo per ricordare che Hiram, ‘il figlio di Tiro era il capo degli
80.000 muratori al servizio di Salomone per la Costruzione del Tempio, iniziato
da re David.’ [1]
E, nella tradizione orale, vi sarebbero testimonianze dell’introduzione, nel
rituale del terzo grado della Gran Loggia di Londra, della figura di un
‘maestro costruttore’ e della sua morte e rinascita iniziatica.[2] Siamo
nel 1725 e bisogna attendere sino al 1733 perché la leggenda di Hiram compaia
nel rituale del terzo grado delle Logge londinesi e altri cinque anni perché
venga inserita nella ristampa delle Costituzioni inglesi del 1723. Tuttavia, la
leggenda di Hiram, nelle sue diverse versioni, sarebbe di fatto già presente
nella Massoneria operativa dell’Europa medievale e in particolare negli archivi
dei vari Compagnonnages francesi. Tutti i testi, nel collegarsi al racconto
biblico della costruzione del Tempio di Salomone, fanno poi riferimento a
vicende non menzionate nella Bibbia e che si differenziano poco le une dalle
altre, concordi tutte, comunque, nel sottolineare che la morte di Hiram, frutto
dell’invidia, dell’avidità e della violenza di alcuni operai, ebbe come effetto
di ritardare i lavori di costruzione del tempio:
“La presenza
a Gerusalemme di tanta moltitudine di operai non mancava di causare a Salomone
e ad Hiram delle gravi preoccupazioni. Specialmente il pagamento degli operai
non si effettuava senza difficoltà: talvolta, si presentavano alcuni intrusi e
degli oziosi e, profittando della confusione che regnava fra quella folla di
gente, percepivano un salario come i lavoratori. Per ovviare a questo
inconveniente, Hiram (qualche testo dice invece Salomone) diede a ogni operaio
un segno per farsi pagare e una parola di passo per farsi riconoscere, cosicché
ciascuno era pagato secondo il proprio merito. Inoltre, quando un operaio era
diventato un buon artigiano veniva segnalato a Hiram, che lo riceveva alla
presenza del suo Consiglio. Dopo averlo interrogato, se gli riconosceva le
capacità acquisite, lo esortava a perseverare, perché sarebbe stato
ricompensato. Qualche giorno dopo questa conversazione, uno dei suoi
sorveglianti incontrava, come per caso, il nuovo recepiendario e lo conduceva
in un sotterraneo del tempio dove, in mezzo ai compagni di lavoro del nuovo
venuto, si procedeva alla sua iniziazione e gli si confidava la nuova parola di
passo, che doveva farlo riconoscere […] ”.
Tre
apprendisti - continua un’altra versione della leggenda - che si
chiamavano Holem, Sterkin e Choterfut e le cui radici aramaiche dei nomi
significano: testardo e ripugnante per
Holem, scellerato e traditore per
Sterkin e perfido e prepotente per
Choterfut, tre apprendisti - dicevo - gelosi di Hiram [che in aramaico significa
“vita elevata”] e furibondi per essersi visti rifiutare da lui la
maestria, decisero di obbligarlo a rivelare la parola di passo di questo grado.
L’attesero, in agguato, all’uscita del tempio, dove egli lavorava fino a sera;
Holem, armato di un maglietto, si imboscò presso la porta del sud; Sterkin, con
un regolo in mano, si nascose presso la porta occidentale; e Choterfut, con una
leva, attese il Maestro alla porta orientale. Hiram si presentò, com’era sua
abitudine, alla porta dell’occidente, dove Sterkin, infame assassino, volle
costringerlo a rivelargli il suo segreto. Egli rifiutò, dicendo: ho guadagnato
il mio segreto con la mia saggezza e il mio talento; sforzatevi di fare
altrettanto e siate sicuri che vi riuscirete. Sterkin lo colpì alle spalle con
il regolo. Egli fuggì verso la porta del sud, dove Holem gli rivolse la stessa
domanda e, al suo rifiuto, gli assestò un colpo di maglietto. Hiram sperava di
trovare libera la porta dell’oriente, ma c’era Choterfut che l’aspettava e, non
avendo potuto strappargli la parola di passo, quel traditore uccise Hiram con
un colpo di leva. I tre assassini nascosero il cadavere sotto le macerie. Di
notte, vi ritornarono e trasportarono il cadavere fino ad un luogo recondito,
dove scavarono tre fosse: una per il cadavere, la seconda per gli abiti e la
terza per il bastone di Hiram (un giunco marino che egli portava sempre con
sé). Un ramo di acacia fu piantato sulla sua tomba. Intanto si erano accorti
dell’assenza di Hiram. Nove compagni si misero alla sua ricerca e, guidati da
un fluido, trovarono il ramo di acacia, la terra smossa di fresco e sotto di
essa il corpo. Fu cambiata la parola di passo e fu avvertito Salomone che
ordinò a tutti i compagni di radersi la barba, di tagliarsi i capelli, di
mettersi dei grembiuli di pelle bianca in segno di lutto e dei guanti bianchi,
per indicare che essi erano innocenti da assassinio. Hiram fu sepolto in una tomba di rame larga
tre piedi, profonda cinque e lunga sette… ecc… ecc… [3]
Fatta una certa
chiarezza sui tempi della comparsa dei testi della leggenda di Hiram
nell’ambito, prima della Massoneria operativa poi di quella speculativa, resta,
ancora irrisolto e forse non del tutto solubile, per via di prove documentarie,
il problema della genesi della leggenda, il rinvenimento delle sue fonti
originarie. La questione è tanto più complessa perché, se per un verso tutti
sono concordi nel rintracciare nel racconto biblico il motivo ispiratore, le
divergenze cominciano quando si cerca di spiegare ciò che la vicenda biblica
non dice e soprattutto allorché si tenta di chiarire il significato ultimo e
per così dire più autentico del mito di Hiram.
Così, c’è chi sostiene che la leggenda
massonica di Hiram, a partire dai pochi spunti del racconto biblico, fu opera
di fantasia di massoni illuminati; chi ne rintraccia l’origine addirittura in
una versione popolare arabo-turca; chi ne avverte la presenza nel Talmud degli ebrei, senza peraltro
indicare in quale dei numerosi trattati della Mishnah o in quale suo commento o Ghemarah si troverebbe; chi ancora la riconduce ai miti di morte e risurrezione presenti in tutte
le tradizioni e in particolare nella tradizione egizia della morte di Osiride,
o in quella occidentale della morte di Cristo; chi, infine, la riconduce
genericamente ai miti solari del ciclo zodiacale e vegetativo.
Per quanto mi riguarda, ho trovato plausibile
che l’origine della leggenda potesse trovarsi nel Talmud, anche e soprattutto per via del suo riferimento alla
tradizione ebraica del racconto biblico della costruzione del Tempio di
Salomone. Sinora, tuttavia, per quanto abbia cercato nei trattati della Mishnah che ho potuto consultare, non mi è stato dato
di trovare traccia di Hiram, grande architetto di Salomone, ucciso per mano
degli operai. Ciò non significa, d’altra parte, che il riferimento non esista
davvero come pure sostengono autorevoli studiosi. Ho preferito allora restare alla Bibbia, lì
dove il nome di Hiram è citato e poi allargare la ricerca in ambito biblico
ogni qualvolta ci si riferisce alla edificazione di una ‘casa del Signore’.
Hiram
biblico
Nella
Bibbia, Hiram è citato nel I Libro delle
Cronache (14,1) e nel II libro di
Samuele (5,11) solo per dire che era re di Tiro. Se ne parla poi
soprattutto nel I Libro dei Re,
allorché Salomone informa Hiram re di Tiro di voler costruire un tempio -
secondo gli accordi che suo padre David aveva preso direttamente con Dio - e
perciò gli chiede operai fenici per tagliare gli alberi e legname di cedro
necessario alla costruzione del tempio. Hiram acconsente di buon grado allo
scambio commerciale e concede, oltre ai cedri e agli operai, oro in abbondanza
e pietre preziose in cambio di 6000 tonnellate di grano, 8000 litri di olio
purissimo ogni anno e 20 villaggi della Galilea. D’ora in poi Fenici ed Ebrei
lavoreranno insieme, cominciando con lo squadrare le pietre necessarie alla
fondazione del Tempio.
L’altro Hiram del racconto biblico è sempre di
Tiro, ma è un artigiano, figlio di una
vedova, non un architetto. Egli è sommamente esperto nella lavorazione del
bronzo: vasche, carrelli, gli oggetti bronzei all’interno del tempio e ogni tipo
di arredo e soprattutto le due colonne erette davanti al Tempio: Jachin e Boaz.
Di questi stessi fatti si parla anche nei Libri
delle Cronache. Non sarà inutile soffermarci su qualcuno dei versetti più
significativi del racconto biblico. A cominciare da quando Salomone si rivolge
ad Hiram:
“…Ora ho intenzione di costruire un tempio consacrato al Signore, mio
Dio…” (I Re, 5,19) e Hiram osserva: “Sia
lodato il Signore che ha dato a David un
figlio tanto saggio per governare il numeroso popolo di Israele” (5,21).
Poco dopo è detto dell’alleanza che da allora intercorse tra Hiram e Salomone:
“Come aveva promesso, il Signore diede
grande saggezza a Salomone. Così Salomone mantenne sempre buoni rapporti con
Hiram: i due fecero anche un’alleanza” (5,26). Nei successivi versetti i
due sovrani sono impegnati nel reperire il materiale necessario alla
costruzione del Tempio: “ Il re Salomone
organizzò in Israele dei lavori obbligatori, ai quali dovettero partecipare
trentamila uomini. Ogni mese Salomone mandava in Libano una squadra di
diecimila uomini. Così lavoravano un mese in Libano e poi potevano tornare due
mesi a casa loro. Adoniram era il sovrintendente ai lavori obbligatori.
Salomone aveva ottantamila tagliapietre all’opera in montagna e settantamila
uomini di fatica. A questi si aggiungevano tremila funzionari, dipendenti dai
prefetti di Salomone; sorvegliavano i lavori e dirigevano gli operai. Il re
ordinò di estrarre e squadrare grandi pietre di ottima qualità per le
fondamenta del tempio. Gli operai di Hiram, quelli di Salomone e quelli
provenienti dalla città di Biblos le squadrarono. Essi prepararono anche tutte
le pietre e il legname per la costruzione dell’edificio” (5, 27-32).
Nel versetto successivo (6,1) si precisa che i
lavori di costruzione del Tempio ebbero inizio allorché erano trascorsi 400
anni dall’uscita degli Ebrei dall’Egitto. Per chi conosca appena la tradizione
ebraico-cabbalistica ‘uscire dall’Egitto’
e ‘400’ hanno un preciso significato.
Uscire dall’Egitto significa abbandonare la via ‘consueta e profana’ per
intraprendere un cammino iniziatico. Quanto al 400, lo sappiamo corrispondere
al valore numerico dell’ultima lettera dell’alfabeto ebraico: la Taw.
Settima lettera doppia e ultima delle 22
lettere dell' alfabeto ebraico, la Taw
è collocata sul trentaduesimo e
ultimo sentiero dell’Albero della vita,
di collegamento tra le sephiroth Malchut e Yesod, detto anche sentiero
di Saturno. Dio pose questo sigillo, la lettera Taw, sulla fronte di Caino a
testimoniare la caduta e insieme la possibilità della risalita. Il suo valore
numerico, il 400, simboleggia tutto ciò che di bene e di male c'è nel
quaternario. Il simbolo si spiega con l’essere, questa lettera, l’ultima delle
lettere con cui Dio creò il mondo.
Ad Esau che gli viene incontro con 400 mercenari che rappresentano le
forze del male, Giacobbe dice: Yesh Li Kol 'Ho tutto', frase il cui valore numerico è
ancora 400, ad indicare che Giacobbe, detto
Israele, dispone di tutto ciò di cui ha bisogno per risalire.
Per lasciare l'Egitto occorrono agli Ebrei 400 anni e soprattutto
occorre la Tehinnah che si scrive con la Taw iniziale e che significa amicizia
e clemenza. Per qualcuno, la forma della lettera è l' ideogramma di due braccia
che stanno aprendosi ad accogliere un amico.
Questa è la verità della Taw ed Emet, verità in ebraico, si scrive
Alef-Mem-Taw. In questa parola, Emet,
lettera mediana tra la Alef iniziale e la Taw finale è la Mem, simbolo di ogni
singolo aspetto della manifestazione divina. Ove si dimentichi che il Tutto
della manifestazione, rappresentato dalla Taw, si collega all' Uno che è
nella Alef, Emet
si muta in Met Mem-Taw che significa morte. Senza la Alef o
principio creativo, cioè, la realtà non è altro che vuota forma, apparenza,
illusione e morte.
Nel Midrash noto come Alfabeto di Rabbi Aqiva si rivela la duplice natura della lettera
Taw allorché è detto di non leggerla come Taw
bensì come Taev desiderio. Desiderio di ogni bene terreno ma
anche desiderio dello spirito di risalire in alto.
De hoc
satis, ce n’è abbastanza da dimostrare che l’edificazione del Tempio, alla
quale si accingono insieme Hiram e Salomone, non è nel racconto biblico
soltanto la mera e formale glorificazione di un monumento elevato al Signore o
Grande Architetto dell’Universo, è bensì anche un tracciato da compiere, una
via da seguire. E su questa via Hiram e Salomone si trovano insieme. Ma è
davvero un trattato commerciale quello si stipula tra loro? Chiunque,
esaminando nei dettagli del racconto biblico quanto concede effettivamente
Hiram e quanto in realtà Salomone dà in cambio, si rende conto che fu davvero
un ben strano trattato. Il riferimento è nel I Libro dei Re, 9,10-14:
“…Ci vollero 20 anni per costruire il tempio e la
reggia.
Hiram, re
di Tiro, aveva fornito a Salomone tutto il legname di cedro e di pino e tutto
l’oro che Salomone aveva voluto. In cambio, Salomone diede a Hiram venti
villaggi della regione della Galilea.
Allora Hiram
partì da Tiro per andare a ispezionare i villaggi che Salomone gli offriva, ma
non ne fu soddisfatto.
Disse a Salomone: ‘Fratello, sarebbero questi
i villaggi che vuoi darmi?’. Per questa frase di Hiram, ancora oggi quella
regione si chiama Cabul (‘come
niente’).
Hiram aveva fornito a Salomone più di quattro
tonnellate d’oro.”
Il richiamo della tradizione
ebraico-cabbalistica, alla quale non è poi così arbitrario riferirsi, trattando
la Bibbia la storia del popolo ebraico, ci consente ancora una piccola
scoperta.Hiram è formato dalle lettere Chet-Yod-Resh-Mem cioè per ghematria: 40+200+10+8=258 con lo stesso
valore numerico di Arazim che significa CEDRI, e che è parola formata
dalle lettere Aleph-Resh-Zain-Yod- Mem
cioè: 40+10+7+200+1=258. E ancora: Zahav, oro in ebraico, ha valore numerico 14 (2+5+7) come Yad mano
(4+10=14) e come David (la
promessa del Tempio, 4+6+4=14).
Ciò significa che senza i cedri del Libano, senza gli operai e senza l’oro, in una parola senza Hiram
nessuna mano avrebbe innalzato il
tempio suggellando il patto che il Signore aveva concluso con David, padre di Salomone (I Re, 9, 1-10).
Cosa rappresenta il cedro nella tradizione
biblico-ebraica? Innanzi tutto il soffitto del Tempio era fatto di travi e assi
di cedro, i pavimenti di legno di cedro, l’altare di cedro rivestito d’oro, le
colonne tutte di cedro come pure i soffitti della Sala del Giudizio (I Re). Nel II libro di Samuele, 7,7 è Dio stesso a chiamare ‘Casa di cedro’ il Tempio che gli deve
essere costruito.
Il cedro, inoltre, è nella Bibbia di volta in
volta simbolo di FORZA (Isaia, 9,9 ‘…Le
fragili travi di fico sono state abbattute ma noi useremo robuste travi di
cedro…’) di BELLEZZA (Salmo 92:13-14
‘Bello come un cedro del Libano
piantato nel cortile del Tempio’– Cantico dei cantici cap.5:15 ‘Egli ha l’aspetto delle montagne del Libano, è magnifico come gli alberi di cedro’)
di SAPIENZA (Siracide cap. 24:13 Elogio della sapienza: ‘sono cresciuta ( io la sapienza) come un cedro del Libano’).
Inoltre, nella tradizione ebraica il frutto
del cedro (etrog) è detto il frutto
di un albero di bell’aspetto: Perì ’ Etz Hadar: “Prenderete il primo giorno di Sukkoth un frutto di bell’aspetto, rami
di palme e rami dell’albero di mirto e rami di salice e vi rallegrerete davanti
al Signore vostro Dio” (Levitico, 33, 40). Il frutto del cedro è infatti
uno dei 4 componenti del Lulav (mazzo composto di 1 ramo di palma, 2 di salice,
3 di mirto, 1 cedro). Si prende il Lulav con la destra, il cedro con la
sinistra, li si agita ai 4 punti cardinali, in alto e in basso, dopo aver detto
la relativa benedizione. Così si compie la mitzwà
del Lulav durante la festa di Sukkoth o festa delle Capanne. [4] Sempre nella tradizione ebraica il cedro è
detto simbolo: 1)di Dio nella sua veste di gloria
(cioè Hadar, come l’aspetto del
cedro) 2)di Abramo 3)del Sinedrio 4)del Popolo ebraico 5) del cuore dell’uomo.
L’altro Hiram della Bibbia è un valente artigiano figlio di una vedova
della tribù di Neftali, dunque un discendente di Giacobbe e di Bila, la schiava
che Rachele concesse al marito per avere discendenza. Il I Libro dei Re gli dedica l’intero settimo capitolo per descrivere
tutto l’arredo per l’abbellimento del Tempio che egli costruì.
Così tratteggiate le due figure dell’Hiram biblico, non stupisce certo
che entrino a far parte della leggenda massonica inserita nelle Costituzioni,
fuse insieme nell’unica figura di Hiram grande architetto di Salomone. Inutile,
dunque, cercare al di fuori ciò è già ampiamente contenuto nel racconto
biblico.
Già, si dirà, ma
dove si trova nella Bibbia la vicenda del tradimento degli operai e
dell’assassinio di Hiram?
Eppure a guardar bene nella Bibbia si trova
anche questo: vi allude un studioso serio come il Porciatti, senza tuttavia
trarne tutte le dovute conseguenze. “I
cattivi compagni - egli scrive - sono i ribelli che mossi da istinti brutali si
armano contro l’autocrazia della saggezza: sono i biblici Core, Dathan e
Abiron. Sono coloro che, deformando e svisando la legge, colpiscono con il
regolo che ne è il simbolo; sono coloro che per reagire ad una tirannide, con
un’altra tirannide attentano più fatalmente alla realtà della saggezza; sono
infine quei cosiddetti restauratori che, nella loro brutale pretesa, credono di
assicurare ad essi autorità schiacciando l’intelligenza.” [5]
In quale contesto s’inserisce la ribellione
dei tre levìti? E’ il momento del passaggio degli ebrei nel deserto, dopo la
fuga dall’Egitto. Ed è anche il periodo di un’abitazione, sia pure mobile e
rudimentale, elevata al Signore, prima della costruzione del Tempio di
Salomone, com’è detto nel II Libro di
Samuele, 7, 6-7: “Io non ho abitato
in una casa dal giorno in cui condussi i figli d’Israele fuori dalla terra
d’Egitto, fino a questo giorno, ma ho camminato in un tabernacolo e in una
tenda. In tutti i luoghi per i quali sono passato con tutti i figli di Israele,
ho forse io detto ad alcuna delle tribù a cui ho ordinato di pascere il mio
popolo: perché non mi avete fabbricato una casa di cedro?”
E infatti il legno di questa primordiale ‘casa
di Dio’ non è di cedro ma di acacia (dal greco a-kakìa, cioè puro e senza macchia) come è attestato
nel Libro dell’Esodo. Dio aveva detto a Mosè (Esodo, 25,8): “Ed essi mi costruiranno un Santuario e Io
risiederò in mezzo a loro”. Dio aveva poi indicato nei dettagli i criteri e
il materiale per la costruzione. Così, il Tempio mobile degli ebrei sarà fatto
con assi di legno di acacia collocati in posizione eretta (Es.,26,15), l’Arca
sarà di legno d’acacia, ricoperto d’oro puro sia all’interno che all’esterno
(Es.,25,10-11), di acacia sarà la tavola dei pani (Es., 25,23) come pure
l’altare del Tempio (Es., 27,1), quello per l’olocausto (Es., 38,1 e quello per
bruciare l’incenso e i profumi (Es., 30,1). Di legno d’acacia saranno le
quattro colonne della ‘tenda dell’incontro’ (Es., 26, 31-32) e così via
continuando.
L’episodio della ribellione di Core, Dathan e
Abiron è contenuto nella Torah [6] e si
sostanzia delle parole che Mosè rivolge ai ribelli: “ Non vi basta il fatto che il Signore, il Dio d’Israele, ha scelto voi
fra tutti gli altri israeliti? Vi concede di avvicinarvi a Lui, per prestare
servizio nella sua Abitazione e per celebrare il culto in nome di tutta la
comunità d’Israele. Il Signore ha permesso a te, Core, e a tutti i fratelli
leviti di avvicinarvi a lui e voi ora pretendete anche il sacerdozio? ” (Numeri, 16, 9-10).
Un eco della vicenda dei tre ribelli è
contenuto anche nel Nuovo Testamento,
nella Lettera di Giuda contro i falsi
profeti: “… tra noi si sono infiltrati certi uomini empi - egli dice - la
condanna dei quali è già scritta da molto tempo (…) Guai a loro perché hanno
preso la strada di Caino (…) Costoro sono la vergogna delle loro agapi, dove
gozzovigliano senza ritegno…” (Lettera di
Giuda, 4-12). Analogamente, i tre
operai della leggenda massonica, che pure hanno il privilegio di lavorare alla
costruzione del Tempio, pretendono la maestria senza averne diritto e la loro
avidità e superbia li spinge al delitto.
Il
mito di Osiride e la Massoneria
La leggenda di Hiram è dunque interamente
riconducibile alla tradizione biblico-ebraica pur con le modalità e i
significati specifici che detta tradizione assume in ambito massonico. Ciò non
esclude, d’altra parte, che il mito di Hiram, e soprattutto il mito della sua
morte e rinascita non possa essere avvicinato, nel suo simbolismo, ad altri
miti solari e in particolare al mito egizio di Osiride. D’altra parte, la
preferenza, accordata dalla maggior parte degli autori a questo mito piuttosto
che al racconto biblico, si spiega soprattutto con la necessità di sottolineare
il momento topico della morte e della risurrezione, e questo è abbastanza
comprensibile in una istituzione iniziatica. Scrive in proposito il Porciatti,
pur cogliendo l’analogia tra i tre assassini di Hiram e i tre leviti ribelli:
“La drammatica leggenda - egli osserva - non può dirsi ispirata dalla Bibbia;
infatti biblicamente Hiram è ricordato quale geniale artista, fonditore delle
due colonne del Tempio e dei loro capitelli, del ‘mare di bronzo’ e di altre
cose ancora, ma mai quale architetto preposto alla costruzione del Tempio e
capo di una immensa schiera di operai che avrebbe ripartito in Apprendisti,
Compagni e Maestri. Essa è piuttosto inspirata dalla iniziazione Osirica, da
quel terzo grado della iniziazione Egizia che si chiamava ‘Porta della Morte’, anzi
la riproduce: la bara di Osiride, di cui l’assassinio era supposto recente,
portava ancora le tracce del sangue ed era posta al centro della sala dei Morti, ove avveniva una parte
della cerimonia; si chiedeva all’Iniziando se aveva preso parte all’assassinio
di Osiride, e dopo altre prove malgrado i suoi dinieghi era colpito, o gli si imponeva la sensazione di essere
colpito con un colpo di ascia alla testa; esso era rovesciato, avvolto in bende
come le mummie; si gemeva attorno a lui; balenavano lampi; l’Iniziando, il supposto morto, era avvolto di fuoco,
poi reso alla vita.” [7]
Ciò che sorprende di questa analisi è l’aver
ridotto l’intera leggenda di Hiram ad una generica rappresentazione del mito
solare e a una brutta copia del mito di
Iside e Osiride, dove le analogie si possono riassumere nella morte di Osiride
per mano del fratello di sangue Seth, nella ricerca disperata che Iside, la
vedova di Osiride, fa dello sposo perduto e infine nell’attribuzione ai massoni
del titolo di figli della vedova.
Giustamente Osiride è stato detto Signore
della morte e della risurrezione [8], ma
egli è solo una tra le tante divinità nella folta schiera dei morti e risorti in cui troviamo Orfeo,
Dioniso, Mithra, Adone, Cristo, Krishna e molti altri, tutti peraltro
riconducibili al ciclo cosmico e vegetativo, al mito del Sole che scompare e
ogni volta rinasce, mentre la Luna, inconsolabile vedova, lo va cercando nella
notte stellata.
Tra le divinità citate, si può parlare di
iniziazione solo a proposito di Dioniso e di Osiride, mentre per tutti gli
altri ci si deve limitare al pathos religioso e alla celebrazione dei relativi Misteri. E c’è differenza profonda tra
ricevere una Iniziazione e
partecipare ai Misteri, perché i Misteri sono feste religiose che
ripercorrono le varie fasi della passione del dio, sollecitando attraverso il pathos di massa un’esperienza
unitiva solo emozionale e solo allusiva di una generica salvezza, mentre
l’iniziazione indica un cammino che il neofita deve percorrere e che potrà
modificare la sua individuale coscienza, elevandolo nella direzione del divino,
rispetto al quale, tuttavia, resta sempre altro.
In base alle testimonianze di Plutarco,
Clemente Alessandrino, Arnobio e Firmico Materno sembra che esistesse un vero e
proprio rituale di iniziazione dionisiaca, ma il serpente aureo che, durante il
rito, l’iniziando, spalmato d’argilla e bagnato con acqua, faceva scivolare
lungo il corpo, troppo richiamava i furori orgiastici delle Menadi o
sacerdotesse di Dioniso, troppo sottolineava il carattere eversivo,
perturbatore dell’ordine e della morale corrente dello spirito dionisiaco:
“Schopenhauer - scrive Nietzsche - ci ha
descritto l’immenso orrore che
afferra l’uomo, quando improvvisamente perde la fiducia nelle forme di
conoscenza dell’apparenza, in quanto il principio di ragione sembra soffrire
un’eccezione (…) Se a questo orrore aggiungiamo l’estatico rapimento che (…)
sale dall’intimità profonda dell’uomo, anzi della natura, riusciamo allora a
gettare uno sguardo nell’essenza del dionisiaco,
a cui ci accostiamo di più ancora attraverso l’analogia con l’ebbrezza. O per l’influsso delle bevande
narcotiche, cantate da tutti gli uomini e dai popoli primitivi, o per il
poderoso avvicinarsi della primavera, che penetra gioiosamente tutta la natura,
si destano quegli impulsi dionisiaci, nella cui esaltazione l’elemento
soggettivo svanisce in un completo oblio di sé (…) Ci sono uomini che, per
mancanza d’esperienza o per ottusità, distolgono lo sguardo da tali fenomeni
come da‘malattie popolari’, schernendoli o compiangendoli nella coscienza della
propria sanità: i poveretti non sospettano certo quanto cadaverica e spettrale
apparirebbe appunto questa loro ‘sanità’, quando passasse loro accanto fremendo
la vita ardente degli invasati da Dioniso. Sotto l’incantesimo del dionisiaco
non solo si restringe il legame tra uomo e uomo, ma anche la natura estranea,
ostile o soggiogata celebra di nuovo la sua festa di riconciliazione col suo
figlio perduto, l’uomo (…) Il carro di Dioniso è tutto coperto di fiori e di
ghirlande: sotto il suo giogo si avanzano la pantera e la tigre. Si trasformi
l’inno alla gioia di Beethoven in un quadro (…) così ci si potrà avvicinare al
dionisiaco. Ora lo schiavo è uomo libero, ora s’infrangono tutte le rigide, ostili
delimitazioni che la necessità, l’arbitrio o la ‘moda sfacciata’ hanno
stabilite tra gli uomini. Ora, nel vangelo dell’armonia universale, ognuno si
sente non solo riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma addirittura uno
con esso, come se il velo di Maia fosse stato strappato e sventolasse ormai in
brandelli davanti alla misteriosa unità originaria. Cantando e danzando, l’uomo
si manifesta come membro di una comunità superiore: ha disimparato a camminare
e a parlare ed è sul punto di volarsene in cielo danzando (…) l’uomo non è più
artista, è divenuto opera d’arte: si rivela qui fra i brividi dell’ebbrezza il
potere artistico della natura (…) Qui si impasta e si sgrossa l’argilla più
nobile, il marmo più prezioso, l’uomo (…) L’estasi dello stato dionisiaco con
il suo annientamento delle barriere e dei limiti abituali dell’esistenza
contiene (…) un elemento letargico,
in cui si immerge tutto ciò che è stato vissuto personalmente nel passato.
Così, per questo abisso di oblio, il mondo della realtà quotidiana e quello
della realtà dionisiaca si separano. Ma non appena quella realtà quotidiana
rientra nella coscienza, viene sentita con nausea come tale; una disposizione
ascetica, negatrice della volontà, è il frutto di quegli stati. In questo senso
l’uomo dionisiaco assomiglia ad Amleto: entrambi hanno gettato una volta uno
sguardo vero nell’essenza delle cose, hanno conosciuto,
e provano nausea di fronte all’agire; giacché la loro azione non può mutare
nulla nell’essenza eterna delle cose, ed essi sentono come ridicolo o infame
che si pretenda da loro che rimettano in sesto il mondo che è fuori dei
cardini.” [9]
Insomma, l’iniziazione dionisiaca è
l’accettazione festosa della profonda irrazionalità del vivere, coi suoi punti
nodali scanditi da dolore, lotta, crudeltà, inquietudine e morte, senza
tuttavia che tale consapevolezza si trasformi nella rinuncia e nell’ascetismo
propri della religione cristiana e del comune sentire spirituale. Con Dioniso,
il dio dell’ebbrezza e della gioia, del canto, dell’amore e della danza una
nuova tavola di valori è scritta e il concetto stesso di virtù è rovesciato:
non più il sacrificio, il dominio di sé, la rinuncia, non la mortificazione
dell’energia vitale come pretendono le religioni e la morale dominanti, bensì
l’accettazione entusiastica di ogni passione che esprime la vita ed è capace di
esaltare - scrive ancora Nietzsche in Volontà
di potenza (prg. 479) - “la fierezza, la gioia, la salute, l’amore
sessuale, l’inimicizia e la guerra, la venerazione, le belle abitudini, le
buone maniere, la volontà forte, la disciplina dell’intellettualità superiore,
la volontà di potenza, la riconoscenza verso la terra e verso la vita, (in una
parola) tutto ciò che è ricco e vuol dare, e vuol gratificare la vita, dorarla,
eternizzarla e divinizzarla…”
Così stando le cose, si comprende bene la
maggiore fortuna toccata all’iniziazione osirica, ormai attestata dal prezioso
ritrovamento del Papiro T 32 di Leida.
Osiride “è un dio fecondo e benefico, la cui vita, morte e resurrezione hanno
seguito, fin dalle origini mitiche, il ritmo di tutta la vita egiziana
particolarmente nei due cicli entro i quali essa si aggira: il ciclo agrario e
il ciclo funerario.” [10]
La funzione normalizzatrice e rassicurante
dell’iniziazione osirica riguarda ogni aspetto del viver civile e della morte
stessa, perché Osiride è insieme il Nilo e il deserto, il sole che ogni giorno
appare all’orizzonte, tramonta e ogni volta risorge, il seme fecondo e il corpo
smembrato, la certezza della morte e la fede nella risurrezione. E non importa
se queste sono soltanto le forme di conoscenza dell’apparenza, come dimostra la
cura che gli Egizi dedicano alla conservazione dei cadaveri e al mantenimento
della loro integrità, perché le forme dell’apparire sono simboli della realtà e
la realtà si rivela nella formula della ricorrenza
e dell’eterno ritorno. Così, da
ultimo e nonostante tutto, l’irrazionale che si esprime nel ‘dionisiaco’
coincide con la ragione prometeica che tutto vuole spiegare e chiarire e su
tutto apporre il sigillo della consapevolezza. Ma, infine, entrambe sono
concezioni dell’eternità della vita
con la sola differenza che l’una riguarda il divenire cosmico e l’altra si
preoccupa della conservazione delle singole forme, perché in ogni singola forma
è detto abitare un frammento del dio smembrato. E a ben guardare non è per
l’uomo differenza di poco conto, perché l’una atterrisce e l’altra consola,
l’una si sofferma sulla disgregazione
e sul caos, l’altra sulla reintegrazione e sull’ordine. Nell’economia dell’universo,
tuttavia, l’una è speculare all’altra perché non c’è ordine e reintegrazione se
non lì dove c’era disgregazione e caos.
E’ abbastanza comprensibile, in tale contesto,
riferire a Osiride quella parte della leggenda massonica di Hiram, che parla di
morte e di resurrezione, perché l’iniziazione non può che essere un’avventura
della coscienza individuale e perché, a quanto pare, fu nella valle del Nilo
che venne elaborato per la prima volta il processo psicologico dell’iniziazione
[11]
attraverso un viaggio rituale che, come testimonia il citato Papiro di Leida,
contemplava per il postulante l’arrivo e l’accettazione, quindi la
proclamazione di giustificato, cioè
di destinato alla resurrezione, quindi il bagno rituale, l’illuminazione che sembra prevedesse cosiddetti stati di coscienza
fuori dell’ordinario (non sappiamo sino a che punto indotti artificialmente) e
che, infine, si concludeva col ‘sonno nel tempio’. Come si vede, nulla che
ricordi i rituali massonici ma certamente la comune convinzione che il rituale
di iniziazione sia almeno capace di operare una prima trasformazione della
coscienza. E certo Hiram ci fa venire in mente il mito egizio di Osiride e,
attraverso questo, i miti solari e della ciclicità naturale, il mito della
morte e della risurrezione e soprattutto il mito del Caos sempre risorgente e
in grado di minacciare l’Ordine raggiunto. Anche il mondo più organizzato
conserva traccia del Caos che può distruggerlo, anche nella coscienza più
illuminata può annidarsi il germe della distruzione che trasforma in assassino.
Osiride esorcizza bene nella cosmologia egizia tutto ciò che nasce, muore e
deve rinascere in eterno ciclo, egli - l’ho già detto - è l’espressione mitica
della ricorrenza: il sole, la luna,
la vegetazione: a cominciare dalle terre lussureggianti che il Nilo faceva
affiorare e puntualmente faceva scomparire. Come Osiride è ucciso dal fratello
Seth, Hiram è ucciso da forza fraterna e tuttavia antagonista, come Osiride,
Hiram è destinato a cadere mille volte e mille volte a risorgere come si legge
nei rituali del Rito Scozzese.
Del resto, il sempre risorgente conflitto
sembra essere a fondamento di questo universo, almeno finché l’uomo non abbia
completato la costruzione del Tempio, non abbia utilizzato l’ottavo giorno, non abbia terminato cioè
l’opera che gli è stata affidata dal Grande Architetto dell’Universo. Com’è
detto in Genesi 2, 1-3: “Il cielo e la terra e tutto il loro esercito
erano ormai completi. Nel settimo giorno Dio aveva completato l’opera Sua che
aveva fatto, così nel settimo giorno cessò da tutta la Sua opera che aveva
compiuto. Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò, poiché in esso aveva
cessato da tutta la Sua opera che Egli stesso aveva creato perché fosse poi
terminata.”
Posso
ora cercare di raccogliere le membra sparse del mio discorso. Se si guarda alla
leggenda massonica di Hiram alla luce del mito
della morte e della risurrezione, non c’è dubbio che la sua origine possa
essere ricondotta al mito egizio di Osiride e di Iside, come sostiene la maggior
parte degli studiosi. Ma, a pensarci bene, sotto questo riguardo, non è meno
vero che la leggenda, da un punto di vista più generale, possa appartenere ad
uno qualsiasi dei tanti miti di dei ed
eroi morti e risorti, Gesù, per esempio, come pure altri autori hanno
sostenuto. C’è - è vero - una preferenza verso il mito egizio, non solo e non
tanto perché, come Iside, l’iniziato massone va cercando le spoglie del dio
ucciso per farlo risorgere, quanto - come si è visto- per le implicazioni
psicologiche che ne deriverebbero in virtù del cerimoniale iniziatico. Comunque
sia, sotto questo profilo, il mito massonico di Hiram, altro non sarebbe che
una tarda rappresentazione dei miti solari e/o della rinascita e dunque della consolazione e della speranza.
Cosa c’è, al contrario, di unico e peculiare
nella leggenda massonica di Hiram che si ispira alla fonte biblica e alla
tradizione ebraico-cabbalistica? La
costruzione del Tempio, nel senso e con la prospettiva nota a tutti i
massoni e per la quale ogni fratello sa di dover portare la propria pietra
sgrossata. In tale contesto, si comprendono allora le ragioni stesse dello
‘scozzesismo’ i cui rituali, come si è già detto, almeno sino al
diciassettesimo grado, hanno lo scopo di allargare e approfondire la conoscenza
della leggenda di Hiram, additando altresì, dal quarto grado e sino al
trentatreesimo, un ideale cammino di perfezionamento e una pratica di vita
necessari all’acquisizione di innumerevoli virtù, quali il silenzio, il
segreto, l’obbedienza, la fedeltà, il coraggio, la carità, la santità, la
giustizia. Virtù tutte senza le quali il Tempio
non può essere costruito. Per quanto in noi debba sempre mantenersi la
necessaria umiltà che ci fa consapevoli che il Tempio non può essere terminato, senza la quale umiltà cadremmo nel
dogma delle Chiese o peggio ancora finiremmo come quel tale - citato da Kafka -
che si stupiva della facilità con cui seguiva la via dell’eternità solo perché
la stava percorrendo in discesa. [12]
D’altra parte, si è spesso ripetuto, da parte
di alcuni studiosi, che una volta raggiunta la maestria, il massone ha ormai
completato il suo ciclo iniziatico e che nulla può ricevere di più e di diverso
da ulteriori e ripetute iniziazioni quali otterrebbe lungo il cammino tracciato
dal Rito Scozzese Antico ed Accettato. A ciò si è giustamente obiettato,
osservando che il conferimento degli alti gradi, con lo studio e la pratica
loro connessi, non ha altro scopo se non quello di rendere reali, concreti e
comprensibili gli insegnamenti dei primi tre gradi della Massoneria Azzurra.
C’è di più e di altro. Si è spesso tentati di
identificare il momento spazio-temporale dell’iniziazione con il rituale che la
conferisce, ignorando una verità semplice e fondamentale e cioè che tempo e
spazio della coscienza non corrispondono al tempo e allo spazio di ciò che
chiamiamo realtà. La coscienza converte, per così dire, il tempo e lo spazio
della realtà, nel proprio ‘vissuto’ o Erlebnis
e può scoprire di essersi davvero modificata solo al termine di un lungo e
faticoso processo di cui gli istanti spazio-temporali della realtà sono solo
isolati dati d’esperienza sebbene talora dotati di forte carica emozionale. Si
aggiunga che ogni drammatizzazione simbolica, se ha il potere di fissare
l’attenzione dell’attore e di tenerla
desta, non ha anche la creatività sufficiente, per il suo carattere
essenzialmente ludico, per generare una coscienza ‘nuova’. L’iniziato sa, per quanto grande sia la sua
emozione durante il rito, di recitare una parte e che questa parte simula ma non è la propria morte e rinascita. Al di là del ‘gesto’ liturgico,
egli sa bene che ciò che potrà trasformare e, per così dire, ampliare davvero la sua coscienza è la progressiva e
costante consapevolezza di essere davvero ‘morto’ e ‘rinato’. Può così
accadere, per quanto paradossale possa sembrare, che egli rimanga un iniziato
soltanto simbolico anche dopo reiterate e più elevate iniziazioni, anche dopo
aver raggiunto quella del trentatreesimo e ultimo grado.
L’ipotesi più probabile, tuttavia, è che le
ripetute iniziazioni gli siano di giovamento come altrettante tappe e ostacoli
che egli incontra sul proprio cammino e che di volta in volta è chiamato a
superare. Neppure è improbabile che gli siano di scudo e protezione contro le
numerose ‘prove’ che la vita cosiddetta profana riserba a tutti. Quel che è
certo, ad ogni modo, è che gli sono offerte molteplici opportunità per
riflettere su di sé, sugli altri e sulla realtà intera.
Max Guilmot, docente universitario e
consulente dell’Oriental Museum di San José in California, forse un massone,
sottolinea il grande merito di società iniziatiche in grado di dispensare
ripetute iniziazioni: “Queste - egli scrive - devono procedere a successive
morti rituali, seguite da rinascite, per scuotere il mentale nel profondo e
suscitare, infine, delle emozioni che non soltanto saranno analoghe a quelle
precedenti il vero trapasso, ma faranno anche prevedere il destino ulteriore
della coscienza in una sorta di visione premonitrice. Le diverse cerimonie
iniziatiche sono, perciò, i momenti più alti di una lunga alchimia mentale (…)
Questa sorta di stato di grazia perdura, tutt’al più, qualche giorno. La vita
profana, come una marea montante, ben presto ricopre le tracce del cammino
spirituale. Si dovranno, perciò, moltiplicare i rituali, ripetendo i gesti
creatori dello stato iniziatico fino a rendere quest’ultimo permanente.” [13]
sergio magaldi
[1] Cit. a proposito di un
lavoro di A. Reghini, in E. Bonvicini, I Gradi della massoneria di Rito Scozzese
Antico ed Accettato, Bastogi, Foggia, 1996, p.17
[2] Ibid.
[3] Cfr. i testi della
leggenda di Hiram, citati in G. Abramo, Appunti sulle origini (pp.111-120), in Hiram, n.5, Maggio 1992, Erasmo
Edit., pp.116-117
[4] Il 15
del mese ebraico di Tishrì (settembre-ottobre) ricorre la festa di Sukkoth in memoria delle capanne costruite dagli ebrei nel deserto,
dopo la fuga dall’Egitto. Nella Torah è
conosciuta anche col nome di Chag Ha-Asif
o festa del raccolto, perché con lei terminava la stagione del raccolto. E’ una
festa di gioia e di allegria, come comanda la Torah. Dura sette giorni, durante i quali l’ebreo è chiamato a
vivere nella Sukkah (capanna),
costruita all’aria aperta ad imitazione di quella che gli antenati edificarono
nel deserto.
[5] Cfr.
U.G.Porciatti, Simbologia Massonica.
Massoneria Azzurra, Atanor, Roma, rist., 1992, p.172
[6] La Torah scritta si compone dei libri del Pentateuco (Genesi o Bereshit, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio). Inizia
con la lettera Bet di Bereshit e termina con la lettera Lamed di Israel con cui si chiude il Deuteronomio.
Insieme, le due lettere formano la parola Lev
cuore, a indicare che la vera conoscenza della Torah è una conoscenza del cuore e non dell’intelletto, il che,
naturalmente, non significa che la Torah
non debba essere studiata, come invece raccomanda la tradizione
ebraico-cabbalistica. Lev ha valore numerico 32 come i trentadue
sentieri dell’Albero della vita.
[7] Cfr.
U.G. Porciatti, op.cit., p.169
[8] Cfr.
J. Campbell, Le figure del mito,
trad.it., Mondadori, Milano 1991, pp.15-31
[9] Cfr.
F. Nietzsche, La nascita della tragedia,
trad.it., 11.ma ediz., Adelphi, Milano 1989, pp. 24 e ss.
[10] Cfr.
N.Turchi, Le religioni misteriosofiche
del mondo antico, I Dioscuri, Genova, 1987, p.101
[11] Cfr.
Max Guilmot, Iniziati e Riti iniziatici
nell’antico Egitto, trad. it., Mediterranee, Roma 1999, pp.92 e ss.
[12] Cfr.
F. Kafka, Trentottesima Considerazione,
in Confessioni e immagini, trad.it.,
Mondadori, Milano 1960, p.62
[13] Cfr.
M.Guilmot, op.cit., pp.43-44
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