SEGUE
DA:
LE FORME DEL PENSIERO: CRITICITA’ E DOGMATISMO (Parte prima)
LE FORME DEL PENSIERO: CRITICITA’ E DOGMATISMO (Parte seconda)
LE FORME DEL PENSIERO: CRITICITA’ E DOGMATISMO (Parte terza)
LE FORME
DEL PENSIERO: CRITICITA’ E DOGMATISMO (Parte quarta)
LE FORME
DEL PENSIERO: CRITICITA’ E DOGMATISMO (Parte quinta)
Gli dei greci sono a casa tra gli
uomini e non hanno bisogno di incarnarsi, come il Dio cristiano, per colmare
l’insondabile lontananza. Non si incarnano, si trasformano e in forme sempre
varie e sempre diverse sono continuamente accanto a noi anche se noi non ce ne
accorgiamo. Sono lì ad ammonirci, a perderci o a salvarci, sono gli amici e i
fratelli che ci consigliano, i nemici che ci tendono trappole, i familiari che
si preoccupano per noi, le donne che ci amano o quelle che vogliono la nostra
rovina. Ma, a guardar bene, chi decide la sorte è l’uomo stesso e poco importa
che questa coincida con la moira, la ‘parte’, il destino che gli
dei hanno stabilito per lui. Ogni violazione espone all’inevitabile
contraccolpo, necessario a ricostituire l’ordine cosmico e la forza che lo
mantiene in essere. Ognuno conosce il proprio dovere con o senza il messaggero
alato che si rechi ad avvertirlo. Non è un caso che l’Odissea abbia
inizio con la parola andra uomo e che Ulisse, prototipo
dell’uomo civilizzato, sia definito polùtropon, cioè multiforme
o dal multiforme ingegno, non è un caso che Zeus ricordi la Legge al concilio
degli dei, proprio ad apertura di poema:
«Ahimè, come i
mortali dàn sempre le colpe agli dei!
Dicono che da noi provengono i mali, ma
invece
sono gli uomini, con le loro azioni, ad
attirarseli in spregio al destino.
Guardate Egisto: sedusse la sposa del
figlio d’Atreo,
violando la moira, e lo
sposo sgozzò che tornava,
benché conoscesse la sorte. Perché noi
l’avvertimmo,
a lui mandando Ermete occhio acuto,
argheifonte,
che non uccidesse l’eroe e neppure
agognasse la donna:
vendetta Oreste farebbe del padre
Agamennone,
quando, cresciuto, avesse nostalgia
della patria.»
(Omero, Odissea, I, 32-41)
Perché Ulisse impiegherà vent’anni, dalla fine delle guerra, a
tornarsene in patria? Perché così hanno deciso gli dei, parrebbe la risposta,
in un universo in cui la mente umana s’intreccia di continuo con quella divina
e da questa appare costantemente guidata.
Così non è: la sapienza dei Greci si serve liberamente
degli dei e non sono gli dei a servirsi della libertà umana. Ulisse sa di
dover tornare ad Itaca, ma c’è nel suo comportamento la volontà di attardarsi,
quasi avesse bisogno di completare un ciclo. Ulisse è l’iniziato che si
sottopone a prove sempre più ardue nel tentativo di superarle e di conoscere se
stesso. In questo proposito non del tutto consapevole, egli è soccorso da
alcuni dei e danneggiato da altri, ma questi dei sono innanzi tutto le sue
stesse qualità: le sue virtù e i suoi difetti. Anche lui, come altri eroi greci
è colpevole di ubris, ma si ravvede sempre e soprattutto egli
è polìtropos e poikilométes, possiede cioè una
mente e un cuore dalle molte e variegate fome che gli consente la pietà e
l’immedesimazione autentica con gli altri e con le loro sofferenze.
E quando infine raggiunge l’isola dei Feaci, Ulisse è pronto
per il ritorno. L’isola appartiene al dio Posidone, il suo peggior nemico, ma
chi vi governa veramente è Ermete, il dio che insieme ad Atena sembra guidare i
suoi passi, il dio dal quale Ulisse discende, secondo Esiodo, per parte di
Autolico il nonno materno. Non solo i Feaci prima di addormentarsi libano a
Ermete ma tutto, in quest’isola – come acutamente osserva Pietro Citati – è
ermetico: “il viaggio, i colori, i piaceri, il gioco, la leggerezza, la
magia, la sottile comicità, i percorsi della notte, il segreto.” (P. Citati, La mente colorata,
Mondadori, Milano, 2002, p.141)
Ulisse scopre finalmente che il mondo ostile e profano può essere
superato con la sapienza ermetica. E sarà proprio questo sapere, camuffato
della benevolenza di Atena, a condurlo ad Itaca per affrontare l’ultima prova.
E una volta qui, comprendiamo meglio il significato della protezione di Atena:
Ulisse possiede la sapienza degli alberi, insegnatagli dal padre Laerte, il
re-contadino. In particolare, conosce l’ulivo, la pianta sacra alla dea e sulla
cui radice Ulisse ha costruito il letto nuziale che, dunque, non può essere
spostato. Da questo e da numerosi episodi del finale del poema, apprendiamo
così che l’eroe greco condivide con Penelope e pochi altri anche una terza
sapienza: egli conosce l’arte dei segni simbolici e segreti (Op. Cit.,
cap.V).
sergio magaldi
S
E G U E
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