SEGUE
DA:
LE FORME DEL PENSIERO: CRITICITA’ E DOGMATISMO (Parte prima)
LEFORME DEL PENSIERO: CRITICITA’ E DOGMATISMO (Parte seconda)
LE FORME DEL PENSIERO: CRITICITA’ E DOGMATISMO (Parte terza)
LE FORME DEL PENSIERO: CRITICITA’ E DOGMATISMO (Parte quarta)
La presenza del divino prescinde dunque
dall’insegnamento e dagli ammonimenti che provengono dal pensiero mito-poietico
dei Greci. Così è nel mito della caverna del X Libro della Repubblica di
Platone, dove i prigionieri scambiano per realtà le ombre degli oggetti che si
proiettano sulla parete per l’azione di un fuoco, così è nel mito del Fedro,
dove Socrate e Platone, velata appena nel simbolo, espongono la dottrina
tradizionale e di carattere esoterico dell’anima umana che ricade pesantemente
a terra. Così è, ancora, nel mito di Prométeo e di Epiméteo che nel Protagora di
Platone il grande sofista racconta a Socrate. L’uno rappresenta l’umana
saggezza, l’altro, suo fratello Epiméteo, come dice il suo nome, è colui che ha
‘il senno di poi’, l’umana stoltezza che non si fa da parte, perché non si
riconosce come tale e anzi pretende di decidere e s’impone e compie gesti
frettolosi e inconsulti che si risolvono in dramma.
Non diversamente accade nel teatro greco. Il motivo ricorrente del peccato di ubris contro gli dei non deve trarci in inganno. Nelle tre tragedie della trilogia di Oreste, l’Agamennone, le Coefore, le Eumenidi, Eschilo svolge il tema della maledizione che si abbatte sulla stirpe degli Atridi: a cuor leggero Agamennone ha mosso guerra ai Troiani, per ingraziarsi gli dei egli ha compiuto l’empio sacrificio della figlia Ifigenia, lui stesso e i suoi soldati hanno sterminato i nemici senza pietà, hanno profanato e distrutto i templi degli dei troiani. Tornato finalmente in patria egli è ucciso per mano di sua moglie Clitennestra. E’ vendicato dal figlio Oreste che si macchia del peccato di matricidio, su di lui si abbatte la furia delle Erinni e neppure il dio Apollo può sottrarlo alla vendetta.
La soluzione della vicenda è infine affidata al verdetto di un tribunale, i cui giudici, avendo tante ragioni per assolvere quanto per condannare, accettano il principio universale che l’accusato sia assolto quando gli uomini riscontrino in lui eguali ragioni per l’assoluzione e per la condanna.
Non diversamente Sofocle, nell’Antigone, risolve il problema della sepoltura di Polinice. Contro il divieto di Creonte, re di Tebe, e contro la legge scritta della città che vieta la sepoltura dei traditori, Antigone rivendica per il fratello Polinice il diritto alla sepoltura. Per quanto la donna sembri ispirata dalla pietà e dalla coscienza religiosa, ciò che decide è la norma panellenica di giustizia che impone il seppellimento anche dei cadaveri dei nemici.
Il tema del seppellimento è ripreso da Sofocle nell’Aiace, dove l’eroe greco è punito con la follia e con la morte per il suo peccato di ubris contro gli dei. Ma è veramente così? Sono gli dei i responsabili o non è piuttosto l’uomo stesso a tessere la trama del proprio destino? Come la dea Atena dice ad Ulisse nel prologo della tragedia:
“…Tali cose
vedendo, nessuna parola orgogliosa tu non dire mai contro gli dei e non aver
mai superbia, se superi qualcuno per forza di braccio e per quantità di
ricchezze: ché un giorno solo innalza ed abbatte tutte le cose umane; gli dei
amano gli uomini moderati ed odiano gli empi” (vv.
127-133)
Ma la sorte di Aiace, prima che punizione divina, è frutto dell’umano isolamento che lo porta a ripudiare anche il figlio e la moglie, è il risultato della tracotanza che gli fa affermare: “o gloriosamente vivere o gloriosamente morire è il dovere di ogni valoroso”(vv. 479-80).
Più inquietante è la sorte di Edipo nel notissimo dramma di Edipo Re. Qui l’eroe è innocente e pio né alcun dio ha da rimproverargli qualcosa. Ma il suo destino tragico, di chi inconsapevolmente uccide il padre e si accoppia con la madre, si spiega con la stessa maledizione della stirpe che colpisce Agamennone, lui sì, consapevole. Della maledizione sono responsabili gli dei o non è piuttosto vero che la colpa chiama colpa e il sangue chiama sangue, ricadendo anche sugli innocenti?
Si accennava prima ad Ulisse, così diverso da Aiace eppure anche lui colpevole di ubris, nonostante gli ammonimenti della dea Atena. Vediamolo dunque all’opera, per un attimo, nel secondo dei poemi omerici: l’Odissea. Ci riuscirà così di comprendere meglio il rapporto tra gli uomini e gli dei nell’universo greco e di cogliere l’intreccio talora solo apparente del pensiero sapienziale e del pensiero religioso.
sergio magaldi
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