Per ricordare il 25 Aprile scelgo due brani: l’uno
tratto da Sul Fascismo di Antonio
Gramsci che, sebbene scritto addirittura prima dell’avvento del fascismo in
Italia e dopo la fine della Prima Guerra Mondiale (L'Ordine Nuovo, 11 marzo
1921), appare quanto mai attuale sul fascismo e sulla guerra in generale.
Il secondo brano è tratto dalla prefazione che Italo
Calvino antepose in un momento successivo alla pubblicazione del suo primo romanzo: Il sentiero dei nidi di ragno, edito da Einaudi nel 1947 e considerato
uno dei libri più belli scritti sulla Resistenza.
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«Cos'è
il fascismo, osservato su scala internazionale? È il tentativo di risolvere i
problemi di produzione e di scambio con le mitragliatrici e le revolverate. Le
forze produttive sono state rovinate e sperperate nella guerra imperialista:
venti milioni di uomini nel fiore dell'età e dell'energia sono stati uccisi;
altri venti milioni sono stati resi invalidi; le migliaia e migliaia di legami
che univano i diversi mercati mondiali sono stati violentemente strappati; i
rapporti tra città e campagna, tra metropoli e colonie, sono stati capovolti;
le correnti d'emigrazione, che ristabilivano periodicamente gli squilibri tra
l'eccedenza di popolazione e la potenzialità dei mezzi produttivi nelle singole
nazioni, sono state profondamente turbate e non funzionano più normalmente. Si
è creata un'unità e simultaneità di crisi nazionali che rende appunto
asprissima e irremovibile la crisi generale. Ma esiste uno strato della
popolazione in tutti i paesi — la piccola e media borghesia — che ritiene di
poter risolvere questi problemi giganteschi con le mitragliatrici e le
revolverate, e questo strato alimenta il fascismo, dà gli effettivi al fascismo»
(Antonio Gramsci, Sul Fascismo, a cura di Enzo Santarelli,Editori riuniti, Roma,
1973, p.95)
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“[…]Questo romanzo è il primo che ho scritto. Come posso
definirlo, ora, a riesaminarlo tanti anni dopo? (Devo ricominciare da capo.
M'ero cacciato in una direzione sbagliata: finivo per dimostrare che questo
libro era nato da un'astuzia per sfuggire all'impegno; mentre invece, al
contrario...) Posso definirlo un esempio di « letteratura impegnata ». nel
senso più ricco e pieno della parola. Oggi, in genere, quando si parla di «
letteratura impegnata » ci se ne fa un'idea sbagliata, come d'una letteratura
che serve da illustrazione a una tesi già definita a priori, indipendentemente
dall'espressione poetica. Invece, quello che si chiamava l'« engagement »,
l'impegno, può saltar fuori a tutti i livelli; qui vuole innanzitutto essere
immagini e parola, scatto, piglio, stile, sprezzatura, sfida.
Già nella scelta del tema c'è un'ostentazione di
spavalderia quasi provocatoria. Contro chi? Direi che volevo combattere
contemporaneamente su due fronti, lanciare una sfida ai detrattori della
Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d'una Resistenza agiografia ed
edulcorata. Primo fronte: a poco più d'un anno dalla Liberazione già la «
rispettabilità ben pensante » era in piena riscossa, e approfittava d'ogni
aspetto contingente di quell'epoca - gli sbandamenti della gioventù
postbellica, la recrudescenza della delinquenza, la difficoltà di stabilire una
nuova legalità -per esclamare: « Ecco, noi l'avevamo sempre detto, questi
partigiani, tutti cosi, non ci vengano a parlare di Resistenza, sappiamo bene
che razza d'ideali... » Fu in questo clima che io scrissi il mio libro, con cui
intendevo paradossalmente rispondere ai ben pensanti: D'accordo, farò come se
aveste ragione voi, non rappresenterò i migliori partigiani, ma i peggiori
possibili, metterò al centro del mio romanzo un reparto tatto composto di tipi
un po' storti. Ebbene: cosa cambia? Anche in chi si è gettato nella lotta senza
un chiaro perché, ha agito un'elementare spinta di riscatto umano, una spinta
che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze
storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere! » Il senso di
questa polemica, di questa sfida è ormai lontano: e anche allora, devo dire, il
libro fu letto semplicemente come romanzo, e non come elemento di discussione
su di un giudizio storico. Eppure, se ancora vi si sente frizzare quel tanto
d'aria provocatoria, proviene dalla polemica d'allora…”
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