Ciò che dimenticai di precisare allora fu che la durata del governo poteva esaurirsi ben prima del 24 settembre. Infatti, i parlamentari restano in carica sino all’insediamento del nuovo Parlamento per il quale occorrono come minimo 80 giorni dal giorno dello scioglimento anticipato delle Camere. Dunque, alla data del 14 luglio (prime dimissioni di Draghi) gli onorevoli di primo mandato erano praticamente certi, già da circa una settimana, di raggiungere i 4 anni, 6 mesi e 1 giorno di servizio, “scavallando” la fatidica data del 24 settembre.
Ciò premesso, ogni altro motivo
che si voglia aggiungere per spiegare la caduta del governo deve collocarsi
nell’ambito della ragione principale determinatasi il 29 gennaio con l’elezione del Presidente
della Repubblica: era impensabile che i partiti della cosiddetta unità
nazionale rinunciassero alla propria autonomia sino alla scadenza naturale
della legislatura, mentre Fratelli
d’Italia, unico partito di opposizione, continuava ad “ingrossarsi” nei
sondaggi.
Il partito di Conte e quello di Di Maio
La “stanchezza” di Draghi
Già deluso dal Parlamento per la mancata elezione al Colle, Draghi ha dovuto, con il trascorrere dei giorni, sopportare i continui bisticci tra i partiti e rispondere alle persistenti critiche che gli venivano rivolte da esponenti della sua stessa maggioranza. A tale proposito, del tutto inascoltata la sua precisazione in ordine alla cattiva gestione dei due provvedimenti sopra menzionati di cui pure ha ribadito la validità. È un fatto che il reddito di cittadinanza sia andato a persone che non ne avevano diritto e che, allo stato, finisca anche col pregiudicare i cosiddetti lavori stagionali. Ed è altrettanto vero che il superbonus, così come è stato concepito, abbia causato frodi a non finire, con il risultato che le banche hanno ormai chiuso i rubinetti del credito, minacciando di gettare sul lastrico imprese e privati cittadini. Ci può stare, dunque, una certa stanchezza del premier nel continuare a gestire “il caso Italia”, come pure una eventuale sollecitazione a riservare le proprie energie in vista di un nuovo incarico di prestigio internazionale.
Le “determinazioni” di Draghi
Ciò che si comprende meno del Presidente del Consiglio è il comportamento tenuto dal suo governo che ha voluto collegare l’approvazione del Decreto Aiuti al voto di fiducia ben sapendo che il M5S non avrebbe approvato un decreto nel quale si contemplava un inceneritore per Roma. Perché poi inserire la drammatica questione dei rifiuti all’interno di un decreto “altro” e sul quale per giunta si poneva la fiducia al governo? Nonostante tutto, i Cinquestelle non hanno votato contro, limitandosi ad uscire dall’aula al momento del voto.
Più di una perplessità suscitano anche le
motivazioni addotte da Draghi per giustificare le sue “prime” dimissioni,
quelle presentate in gran fretta al Capo dello Stato dopo l’esito del voto del
14 luglio al Senato sul Decreto Aiuti, dove pure aveva ottenuto una fiducia
quasi “bulgara” con 172 sì e 39 no. Il Presidente del Consiglio si è richiamato
a questioni di correttezza istituzionale e di democrazia. Non essendo un Capo
di Governo eletto, il suo incarico a Palazzo Chigi si giustificava solo come Capo
di un Governo del Presidente della Repubblica e con una maggioranza di unità
nazionale (non tutti, però, mancando Fratelli
d’Italia).
Per la verità, Draghi è il settimo
Presidente del Consiglio non eletto, dopo Ciampi, Dini, Amato, Monti, Renzi e
Conte, i quali peraltro non sempre hanno governato con maggioranze di unità
nazionale e addirittura l’ultimo (Conte), prima di Draghi, ha guidato senza
soluzione di continuità governi con maggioranze alternative: prima quella
gialloverde (M5S e Lega) e subito dopo quella giallorossa (M5S e PD).
Un governo di unità nazionale è un governo
che non ha opposizioni e dunque Draghi
dirigeva un esecutivo non già di unità nazionale ma di “larghe intese”, una
denominazione peraltro ricorrente nel panorama politico italiano. Ora,
considerando che il M5S alla data del 14 luglio non era più lo stesso che aveva
votato la fiducia a Draghi, per la scissione di Di Maio e la fuoriuscita di
circa sessanta parlamentari e che lo stesso M5S il 14 luglio non ha votato la
sfiducia ma si è limitato ad uscire dall’aula, non si comprendono le ragioni di
Draghi se non facendo delle ipotesi: a)
Draghi era davvero “stanco” delle continue diatribe tra i partiti della sua
maggioranza. Anche se ciò resta difficile da capire in un personaggio di
statura internazionale che si è trovato a gestire e risolvere ben altri
contrasti, b) Draghi ha un concetto
della democrazia molto particolare: se per un verso si richiama al fatto di non
essere stato eletto dal popolo sovrano – smentendo la stessa tradizione
italiana che in condizioni di particolare criticità per la Repubblica ha fatto
ricorso, come si ricordava sopra, a presidenti del consiglio non eletti ma di
particolare prestigio (con l’eccezione di Conte, designato dal partito di
maggioranza relativa delle ultime elezioni politiche) con l’allargamento semmai
del concetto di democrazia parlamentare – dall’altro sembra infastidito dalla
dialettica politica, inevitabilmente sempre più vivace in prossimità di nuove
elezioni, c) Draghi non ha valutato
politicamente che la scissione all’interno del M5S gli offriva l’opportunità di
continuare a governare il Paese più o meno con la stessa maggioranza di prima e
in virtù forse di una certa aristocratica permalosità ha preferito gettare la
spugna, anche considerando che tra alcuni mesi avrebbe dovuto comunque lasciare
per la fine naturale della legislatura. Così, preferisce andarsene prima sulla
scia di una malintesa (?) purezza istituzionale. Le tre ipotesi formulate,
naturalmente, non ne escludono altre.