A
quarantotto ore dall’apertura delle urne per il voto europeo, ci si può
chiedere se il bisticcio prolungato tra Cinquestelle e Lega avrà implicazioni
significative sul piano del risultato elettorale.
L’assurdo
divieto di far circolare liberamente l’esito degli ultimi sondaggi – mentre
élite e gran parte degli addetti ai lavori ne sono a conoscenza – segna il
punto più basso della vita democratica, sottolineando ancora una volta il consueto
disprezzo nei confronti dei cittadini, trattati alla stregua di fanciulli
ignoranti di cui si teme l’influenzamento degli uni con gli altri. Ma ignoranza
e pathos hanno lo scopo di tenere alta la tensione e al tempo stesso alimentano
proprio il contrario di ciò che a parole ci si propone di evitare: la
circolazione di voci incontrollate per cui sarebbero in atto, dall’ultimo
sondaggio consentito, veri e propri ribaltamenti della volontà popolare. Così,
la narrazione più accreditata di queste ore è la risalita dei grillini, per
aver virato a sinistra e costretto la
Lega – anche in virtù di recenti provvedimenti giudiziari
abilmente sfruttati a livello propagandistico – a occupare l’estrema destra
dello schieramento politico.
La
ferita inferta al sistema con le elezioni del 4 marzo dello scorso anno deve
essere risanata. Paventando il pericolo, già prima delle elezioni si era
intervenuti con una legge elettorale assurda che avrebbe garantito la
conservazione grazie all’alleanza tra Partito Democratico e Forza Italia,
respingendo gli attacchi dei cosiddetti populisti e sovranisti. I calcoli si
mostrarono sbagliati perché i cittadini finalmente chiamati alle urne negarono
la possibilità di una simile maggioranza. Il rifiuto di Renzi di condividere in
posizione subordinata il governo con i Cinquestelle – divenuto il primo partito
politico italiano con oltre il 32% dei consensi – determinò la nascita del
nuovo esecutivo gialloverde. Da allora, il sistema di potere dominante nulla ha
lasciato di intentato pur di mettere in evidenza inefficienza, velleitarismo, indebitamento
crescente e rischi di fallimento da parte dei nuovi soggetti politici, e non si
può negare che i sottoscrittori del contratto per governare ci abbiano messo
del loro per accreditare quelle voci.
Intanto,
però, la maggiore determinazione nei confronti dell’Unione Europea, la mutata
politica nei confronti dei migranti, la promessa del reddito di cittadinanza, della
quota cento per il pensionamento, della flat tax e di altre misure annunciate,
faceva salire il consenso per i gialloverdi, ma in una prospettiva rovesciata
che, almeno nei sondaggi, invertiva i rapporti di forza tra Lega e Pentastellati,
assegnando alla prima una percentuale tra il 30 e il 35% dei votanti, dal 17,37%
delle elezioni politiche, e ai secondi una percentuale di circa il 22%, rispetto al
precedente 32%. L’elettorato, almeno nelle intenzioni, manifestava il
proposito di premiare la compagine mostratasi più intraprendente e determinata,
e di ridimensionare un movimento più incline a parlare che a fare.
Dall’allarme
dei sondaggi ha inizio la strategia dei Cinquestelle per colmare la distanza ipotetica
dal suo alleato e il fatto nuovo della politica italiana è rappresentato dal
progressivo avvicinamento di una delle componenti dell’autoproclamatosi
“governo del cambiamento” al sistema di potere che con la complicità dei media ha guidato negli ultimi decenni il
processo di sottomissione a Eurogermania e il relativo depauperamento del
nostro Paese.
L’opposizione
al governo gialloverde – di cui i partiti politici rappresentano solo la minima
parte – non chiedeva di meglio: usare la componente pentastellata del governo
come un cavallo di Troia per abbattere l’altra parte, additata da mesi
all’opinione pubblica come il demonio, nonostante i goffi tentativi di Salvini
di chiamare in soccorso la madonna. Con il rischio per i Cinquestelle di
svegliarsi il mattino del 27 maggio con la sorpresa di vedere, non una loro
rimonta, ma quella del nuovo Partito Democratico di Zingaretti e, sia pure
in misura minore, di Forza Italia del neocandidato europeo Silvio Berlusconi,
pronto a recuperare da una posizione di centrodestra moderato molti dei voti
volatilizzatisi dopo le elezioni del marzo dello scorso anno.
Se
l’operazione dovesse riuscire, con la conseguente riduzione virtuale della
maggioranza parlamentare, dall’attuale 50% ad una percentuale apprezzabilmente
inferiore, il significato politico sarebbe inequivocabile e, anche al di là
della reale volontà dei contraenti dell’attuale patto di governo, le premesse
di una crisi sarebbero inevitabili. Con o senza nuove elezioni politiche, una
nuova coalizione di governo su basi paritetiche, tra PD e M5S, diverrebbe
probabile o, in alternativa, anche in considerazione del difficile cammino che
attende l’esecutivo nei prossimi mesi, si farebbe strada la solita alternativa,
cara a Bruxelles, di un governo tecnico per “salvare” il Paese.
Pure,
occorre riconoscere che il governo gialloverde – nonostante le “grida” e gli
allarmismi di un sistema di potere minimamente scalfito dall’azione dei nuovi
governanti – non ha operato peggio rispetto agli esecutivi che l’hanno
preceduto negli ultimi decenni. Forse addirittura meglio, se si considera che
bene o male (forse più male che bene) alcune promesse elettorali sono state
mantenute. Anche se l’inutile e puerile contrapposizione degli ultimi mesi tra
Lega e Cinquestelle a fini elettorali, con il relativo immobilismo politico, la
continuità con le politiche dei precedenti governi nel varare misure
impopolari, come la decurtazione delle pensioni medio-basse dal prossimo mese
di giugno, la farsa della cedolare secca estesa dagli affitti delle abitazioni
anche a quelli di negozi e studi commerciali, ma solo futuri, la cosiddetta
flat tax limitata alle partite IVA,
hanno generato più di una disillusione nei cittadini che avevano sperato in un
reale cambiamento nella gestione della “cosa pubblica”.
sergio
magaldi
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