Testo della relazione presentata al Convegno organizzato
il 3 maggio 2019 dal Comune di Milano e dal Movimento Roosevelt:
“Nel segno di Olof Palme, Carlo Rosselli e Thomas Sankara
e contro la crisi della democrazia in Italia, Europa, Africa e a livello
globale”
SEGUE DA:
Già un anno dopo la nomina a Presidente da parte del
Consiglio Nazionale della Rivoluzione, e quando era ormai iniziata la sua
febbrile azione riformatrice, Thomas Sankara aveva reso noto al mondo il suo
pensiero con un discorso pronunciato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite
il 4 ottobre del 1984.
Esordì col dire di non essere lì per annunciare dottrine di
verità, ma per parlare in nome del suo popolo e del “grande popolo dei
diseredati” del cosiddetto Terzo mondo. Da cristiano, osservò che questo
popolo, per troppo tempo, ad ogni schiaffo ricevuto aveva porto l’altra
guancia; da marxista, annunciò che questo stesso popolo aveva finalmente aperto
gli occhi alla lotta di classe: “Finora abbiamo porto l’altra guancia, gli schiaffi sono stati
raddoppiati. Ma il cuore del cattivo non si è ammorbidito. Hanno calpestato le
verità del giusto. Hanno tradito la parola di Cristo e trasformato la sua croce in mazza. Si sono rivestiti della sua tunica e poi hanno fatto a pezzi i
nostri corpi e le nostre anime. Hanno oscurato il suo messaggio. L’hanno
occidentalizzato, mentre per noi aveva un significato di liberazione
universale. Ebbene, i nostri occhi si sono aperti alla lotta di classe, non
riceveremo più schiaffi”.
Non meno risoluto, egli si mostrò nei confronti di quelli che chiamò
“ciarlatani di tutti i tipi” che, nei tanti forum e seminari, sbandieravano
soluzioni miracolose per la crisi del Terzo mondo, e neppure risparmiò la
piccola e istruita borghesia africana per le sue complicità: “l’istruita piccola borghesia
africana – se non quella di tutto il Terzo mondo – non è pronta a lasciare i
propri privilegi, per pigrizia intellettuale o semplicemente perché ha
assaggiato lo stile di vita occidentale. Così, questi nostri piccolo borghesi
dimenticano che ogni vera lotta politica richiede un rigoroso dibattito, e
rifiutano lo sforzo intellettuale per inventare concetti nuovi che siano
all’altezza degli assalti assassini che ci attendono. Consumatori passivi e patetici, essi sguazzano nella terminologia che
l’Occidente ha reso un feticcio, proprio come sguazzano nel whisky e nello
champagne occidentali in salotti dalle luci soffuse”.
Continuò, denunciando la cosiddetta politica dell’aiuto e
dell’assistenza internazionale, responsabile ai suoi occhi di aver aumentato la
disorganizzazione e generato di fatto la schiavitù permanente dei popoli
oppressi. Annunciò a grandi linee, il suo programma politico: “Respingere l’idea di una mera
sopravvivenza e alleviare le pressioni insostenibili; liberare le campagne
dalla paralisi e dalla regressione feudale; democratizzare la nostra società,
aprire le nostre anime ad un universo di responsabilità collettiva,
per osare inventare l’avvenire. Smontare l’apparato amministrativo per
ricostruire una nuova immagine di dipendente statale; fondere il nostro
esercito con il popolo attraverso il lavoro produttivo avendo ben presente che
senza un’educazione politica patriottica, un militare non è nient’altro che un
potenziale criminale”.
Si avviò alla conclusione del suo
intervento, ribadendo di non parlare solo in nome del suo paese, ma di tutti i
sofferenti di sempre, e in particolare delle donne, ovunque fossero sfruttate
da un sistema di potere maschilista. Da ultimo, tracciò un ponte ideale tra la
rivoluzione liberale e i principi del 1789 e la rivoluzione socialista del
1917: “Parlo
in nome dei milioni di esseri umani che vivono nei ghetti perché hanno la pelle
nera o perché sono di culture diverse, considerati poco più che animali. Soffro
in nome degli Indiani d’America che sono stati massacrati, schiacciati,
umiliati e confinati per secoli in riserve così che non potessero aspirare ad
alcun diritto e la loro cultura non potesse arricchirsi con una benefica unione
con le altre, inclusa quella dell’invasore. Parlo in nome di quanti hanno perso
il lavoro, in un sistema che è strutturalmente ingiusto […] Parlo
in nome delle donne del mondo intero, che soffrono sotto un sistema maschilista
che le sfrutta […] La libertà può essere
conquistata solo con la lotta e noi chiamiamo tutte le nostre sorelle di tutte
le razze a sollevarsi e a lottare per conquistare i loro diritti. Parlo in
nome delle madri dei nostri paesi impoveriti che vedono i loro bambini morire
di malaria o di diarrea e che ignorano che esistono per salvarli dei mezzi
semplici che la scienza delle multinazionali non offre loro, preferendo
piuttosto investire nei laboratori cosmetici, nella chirurgia estetica a
beneficio dei capricci di pochi uomini e donne […] Parlo
in nome degli artisti – poeti, pittori, scultori, musicisti, attori – che
vedono la propria arte prostituita per le alchimie dei businessman dello
spettacolo. Grido in nome dei giornalisti ridotti sia al silenzio che alla
menzogna per sfuggire alla dura legge della disoccupazione. Protesto in nome
degli atleti di tutto il mondo i cui muscoli sono sfruttati dai sistemi
politici o dai moderni mercanti di schiavi”.
L’impegno
riformatore di Thomas Sankara, si caratterizzò per la costruzione in soli otto
mesi di una ferrovia che collegava tra loro le due maggiori città del paese,
con il favorire la nascita di piccole imprese autogestite, dando impulso al
commercio all’interno e all’esterno del paese, con il rilancio dell’artigianato
tessile, lo sfruttamento delle risorse agricole, con piani di emancipazione per
le donne e di alfabetizzazione rurale, uno speciale programma per il
reinserimento nella vita sociale delle prostitute che lo desiderassero, una
nuova politica sanitaria e soprattutto con la costruzione di numerose scuole in
tutto il paese. Nella speciale classifica dei paesi più poveri, in qualche
anno, il Burkina Faso risalì dal centoquarantatreesimo al settantottesimo
posto.
Thomas Sankara
fallì invece nel tentativo di convincere gli altri paesi africani a rifiutarsi
di riconoscere il grande indebitamento nei confronti dell’Occidente. Nel luglio
del 1987, intervenendo ad Addis Abeba alla riunione dell’Organizzazione per
l’Unità Africana (OUA), egli cercò invano di chiarirne le ragioni. Il risultato
fu quello di provocare lo sconcerto di una parte dei delegati, evidentemente
collegati a doppio filo al sistema di potere del neocolonialismo di alcuni
paesi occidentali, primo tra tutti la Francia.
Si dice che la sua
proposta sia stata determinante, tre mesi più tardi, nell’armare la mano dei
suoi assassini, ma naturalmente per spiegare le ragioni di questo delitto
politico si fecero altre ipotesi: la lotta aperta contro l’apartheid
del regime sudafricano, l’ostilità manifesta delle potenze occidentali che
continuavano nello sfruttamento economico e strategico del territorio africano,
la rivalità dei militari che erano stati suoi compagni nell’insurrezione che l’aveva
portato al potere, ed altro ancora, come sempre avviene in simili circostanze,
nell’intento di diversificare le piste atte a confondere l’opinione pubblica.
“Noi pensiamo che il debito – aveva
detto con molta chiarezza Thomas Sankara, nel corso dell’Assemblea di Addis
Abeba – si
analizza prima di tutto dalla sua origine. Le origini del debito risalgono alle
origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro, sono gli stessi
che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri stati e le
nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i
finanziatori internazionali che erano i loro fratelli e cugini. Noi non
c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo […] Signor presidente, sentiamo parlare di club
– club di Roma, club di Parigi, club di dappertutto. Sentiamo parlare del
Gruppo dei cinque, dei sette, del Gruppo dei dieci, forse del Gruppo dei cento
o che so io. E’ normale allora che anche noi creiamo il nostro club e il nostro
gruppo. Facciamo in modo che a partire da oggi anche Addis Abeba diventi la
sede, il centro da cui partirà il vento nuovo del Club di Addis Abeba. Abbiamo
il dovere di creare oggi il fronte unito di Addis Abeba contro il debito. E’
solo così che potremo dire oggi che rifiutando di pagare non abbiamo intenzioni
bellicose ma al contrario intenzioni fraterne. Del resto le masse popolari in
Europa non sono contro le masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono
sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico
comune”.
[
S E G U E ]
sergio
magaldi
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