venerdì 24 maggio 2019

LE ELEZIONI EUROPEE E IL VOTO ITALIANO





A quarantotto ore dall’apertura delle urne per il voto europeo, ci si può chiedere se il bisticcio prolungato tra Cinquestelle e Lega avrà implicazioni significative sul piano del risultato elettorale.

L’assurdo divieto di far circolare liberamente l’esito degli ultimi sondaggi – mentre élite e gran parte degli addetti ai lavori ne sono a conoscenza – segna il punto più basso della vita democratica, sottolineando ancora una volta il consueto disprezzo nei confronti dei cittadini, trattati alla stregua di fanciulli ignoranti di cui si teme l’influenzamento degli uni con gli altri. Ma ignoranza e pathos hanno lo scopo di tenere alta la tensione e al tempo stesso alimentano proprio il contrario di ciò che a parole ci si propone di evitare: la circolazione di voci incontrollate per cui sarebbero in atto, dall’ultimo sondaggio consentito, veri e propri ribaltamenti della volontà popolare. Così, la narrazione più accreditata di queste ore è la risalita dei grillini, per aver virato a sinistra e costretto la Lega – anche in virtù di recenti provvedimenti giudiziari abilmente sfruttati a livello propagandistico – a occupare l’estrema destra dello schieramento politico.


La ferita inferta al sistema con le elezioni del 4 marzo dello scorso anno deve essere risanata. Paventando il pericolo, già prima delle elezioni si era intervenuti con una legge elettorale assurda che avrebbe garantito la conservazione grazie all’alleanza tra Partito Democratico e Forza Italia, respingendo gli attacchi dei cosiddetti populisti e sovranisti. I calcoli si mostrarono sbagliati perché i cittadini finalmente chiamati alle urne negarono la possibilità di una simile maggioranza. Il rifiuto di Renzi di condividere in posizione subordinata il governo con i Cinquestelle – divenuto il primo partito politico italiano con oltre il 32% dei consensi – determinò la nascita del nuovo esecutivo gialloverde. Da allora, il sistema di potere dominante nulla ha lasciato di intentato pur di mettere in evidenza inefficienza, velleitarismo, indebitamento crescente e rischi di fallimento da parte dei nuovi soggetti politici, e non si può negare che i sottoscrittori del contratto per governare ci abbiano messo del loro per accreditare quelle voci.

Intanto, però, la maggiore determinazione nei confronti dell’Unione Europea, la mutata politica nei confronti dei migranti, la promessa del reddito di cittadinanza, della quota cento per il pensionamento, della flat tax e di altre misure annunciate, faceva salire il consenso per i gialloverdi, ma in una prospettiva rovesciata che, almeno nei sondaggi, invertiva i rapporti di forza tra Lega e Pentastellati, assegnando alla prima una percentuale tra il 30 e il 35% dei votanti, dal 17,37% delle elezioni politiche, e ai secondi  una percentuale di circa il 22%, rispetto al precedente 32%. L’elettorato, almeno nelle intenzioni, manifestava il proposito  di premiare la compagine  mostratasi più intraprendente e determinata, e di ridimensionare un movimento più incline a parlare che a fare.

Dall’allarme dei sondaggi ha inizio la strategia dei Cinquestelle per colmare la distanza ipotetica dal suo alleato e il fatto nuovo della politica italiana è rappresentato dal progressivo avvicinamento di una delle componenti dell’autoproclamatosi “governo del cambiamento” al sistema di potere che con la complicità dei media ha guidato negli ultimi decenni il processo di sottomissione a Eurogermania e il relativo depauperamento del nostro Paese.

L’opposizione al governo gialloverde – di cui i partiti politici rappresentano solo la minima parte – non chiedeva di meglio: usare la componente pentastellata del governo come un cavallo di Troia per abbattere l’altra parte, additata da mesi all’opinione pubblica come il demonio, nonostante i goffi tentativi di Salvini di chiamare in soccorso la madonna. Con il rischio per i Cinquestelle di svegliarsi il mattino del 27 maggio con la sorpresa di vedere, non una loro rimonta, ma quella del nuovo Partito Democratico di Zingaretti e, sia pure in misura minore, di Forza Italia del neocandidato europeo Silvio Berlusconi, pronto a recuperare da una posizione di centrodestra moderato molti dei voti volatilizzatisi dopo le elezioni del marzo dello scorso anno.

Se l’operazione dovesse riuscire, con la conseguente riduzione virtuale della maggioranza parlamentare, dall’attuale 50% ad una percentuale apprezzabilmente inferiore, il significato politico sarebbe inequivocabile e, anche al di là della reale volontà dei contraenti dell’attuale patto di governo, le premesse di una crisi sarebbero inevitabili. Con o senza nuove elezioni politiche, una nuova coalizione di governo su basi paritetiche, tra PD e M5S, diverrebbe probabile o, in alternativa, anche in considerazione del difficile cammino che attende l’esecutivo nei prossimi mesi, si farebbe strada la solita alternativa, cara a Bruxelles, di un governo tecnico per “salvare” il Paese.

Pure, occorre riconoscere che il governo gialloverde – nonostante le “grida” e gli allarmismi di un sistema di potere minimamente scalfito dall’azione dei nuovi governanti – non ha operato peggio rispetto agli esecutivi che l’hanno preceduto negli ultimi decenni. Forse addirittura meglio, se si considera che bene o male (forse più male che bene) alcune promesse elettorali sono state mantenute. Anche se l’inutile e puerile contrapposizione degli ultimi mesi tra Lega e Cinquestelle a fini elettorali, con il relativo immobilismo politico, la continuità con le politiche dei precedenti governi nel varare misure impopolari, come la decurtazione delle pensioni medio-basse dal prossimo mese di giugno, la farsa della cedolare secca estesa dagli affitti delle abitazioni anche a quelli di negozi e studi commerciali, ma solo futuri, la cosiddetta flat tax  limitata alle partite IVA, hanno generato più di una disillusione nei cittadini che avevano sperato in un reale cambiamento nella gestione della “cosa pubblica”.

sergio magaldi


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