Il primo incarico, film di
Giorgia Cecere, Italia 2010, 90 minuti.
Il primo incarico, opera
prima della regista e sceneggiatrice Giorgia Cecere, fu presentato con discreto
consenso di pubblico e di critica alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2010.
Nel 2011 ha ottenuto il premio New Italian Cinema Festival Città di
Firenze e in questi giorni è stato rappresentato contemporaneamente a Londra e
a San Pietroburgo, nell’ambito dei festival dedicati al nuovo cinema italiano,
e a Roma per la VIII Edizione del Premio Cinema Giovane Italiano, dedicato alle
opere prime.
La trama del film è semplice, nei suoi risvolti quasi scontata.
Siamo nell’Italia meridionale all’inizio degli anni Cinquanta, a pochi anni
dalla fine della guerra. Nena [Isabella Ragonese, nel film unica attrice
professionista] è una ragazza umile che vive con la madre e la sorella piccola
e che, con grandi sacrifici ha studiato da privatista, ha fatto il concorso
pubblico e ricevuto il suo primo incarico di maestra in un paesino della Puglia
a 150 chilometri da dove abita.
Per prendere possesso dell’aula scolastica, un tugurio per giunta
di proprietà privata e con soli sette alunni, Nena deve di necessità separarsi
da Francesco, il fidanzato dell’alta borghesia che, a quel che è dato capire,
si trova temporaneamente in paese presso parenti ma che si sposta
frequentemente in Italia e nel mondo.
I due naturalmente al momento del distacco si giurano amore
eterno. Sembrano sinceri, ma se la sincerità di Nena traspare dalla sua anima,
Francesco (Alberto Boll) il suo bellissimo fidanzato, così aristocratico
e manierato da sembrare un manichino, l’anima sembra proprio non averla. È
vero, nell’unica volta che si reca a trovarla nella sede di lavoro, Francesco
la chiede addirittura in sposa ma si ha come l’impressione che la richiesta
faccia parte delle cose che il giovane dice o fa per non annoiarsi, come la
tesi di laurea che sta preparando sui poeti russi.
La vita di Nena in una microsocietà, arcaica e primitiva, è
scandita solo dalla rustica gentilezza dei rari abitanti, dai suoi sette
piccoli alunni, dagli animali che vivono in casa a stretto contatto con le
famiglie, dalla noia pressante che accompagna il volgersi delle stagioni,
nell’attesa della tarda primavera, quando potrà chiedere il trasferimento e
vivere finalmente con l’uomo che ama.
L’anima di Nena si nutre e sopravvive nell’illusione di un grande
amore che l’arrivo della primavera, splendente di luce di gemme e di colori,
sembra addirittura ingigantire. Ma il risveglio della natura, che per Nena è
anche promessa di felicità, si rivela per lei crudele: Francesco le scrive una
lettera e le confessa di essere in viaggio con un'altra donna. La prega di
perdonarlo perché la storia vissuta con lei ha ormai ai suoi occhi solo
l’apparenza di un sogno…
E la ragazza sente all’improvviso il piccolo mondo in cui è
costretta a vivere caderle addosso. Solo l’amore le ha permesso di attraversare
l’autunno e l’inverno di una realtà senza tempo. Nel nome del fidanzato, che le
ha detto di non aver mai conosciuto una ragazza in gamba come lei, ha trovato
la forza di vivere come una donna della comunità che la ospita, arrivando persino
a soffocare con le proprie mani la vita di una gallina.
E la reazione di Nena sarà ora la ricerca disperata di
un’emancipazione che gli studi le avevano in parte lasciato assaporare. Con
grande scandalo del piccolo villaggio, si offrirà senza amore a Giovanni [Francesco
Chiarello], un muratore analfabeta e donnaiolo, giovane di una bellezza
selvaggia che, a differenza del fidanzato è vivo, ma che, proprio come
Francesco, sembra non avere un’anima.
Il seguito della
vicenda è abbastanza prevedibile e consolatorio, ma non va nel senso che una
certa critica ha sostenuto. Vera emancipazione femminile non c’è, semmai
dolorosa e poi consapevole accettazione del ruolo tradizionale che una società
di maschi, cui sembra mancare l’anima [se ne vedrà più tardi solo un
piccolissimo barlume in Giovanni], assegna alle donne. Nel gesto di Nena c’è
disperazione e risentimento, che è esattamente il rovescio della medaglia della
sottomissione femminile, e il desiderio, pure visibile nel film come segno di
emancipazione, non è raccolto dalla macchina da presa come sarebbe stato
necessario.
Cosa propone di nuovo questa opera prima del giovane cinema
italiano? Nel modo di “fare cinema” mi sembra perfettamente in linea con il
cinema italiano degli ultimi anni: lentezza e mancanza di ritmo [non
giustificata né dall’ambientazione né dall’epoca], immagini che anche quando si
avvalgono di buona fotografia [o che addirittura, come in questo caso, sembrano
dipinte] risultano come distaccate le une dalle altre, sequenze maldestre per
rappresentare l’amore e il desiderio, dialoghi improbabili o sin troppo
realistici, trama esile e scontata, riproposizione anacronistica e poco
riuscita del mito pasoliniano degli attori presi dalla strada.
Qualche pregio tuttavia il film di Giorgia Cecere lo ha. Nel
presentare un genere, l’amore nelle sue diverse sfaccettature: sogno, inganno e
realtà, che sa più di rivisitazione del buon cinema passato che di allineamento
al cinema italiano di oggi, per lo più basato su pseudocomicità e celebrazione feticistica
dei miti del presente. La fotografia è quasi una pittura e non manca qualche
immagine ad effetto, come lo scolaro appollaiato su un ramo che lascia cadere
sul volto e sulle lacrime della maestra i fiori della primavera.
Una speranza ma solo una speranza per il cinema italiano del
futuro.
Quanto al tema dell’emancipazione femminile, è vero che è
accennato, ma senza la pretesa di offrire soluzioni ideologiche,
sembrando più un’esigenza del cuore. Del resto, il motivo
ispiratore del film è un altro, come dichiara la stessa regista:
“Volevo
raccontare l’avventura di questa giovane donna che con tanta fatica e
meraviglia scopre ciò che davvero vuole nella vita rendendola il più possibile
trasparente alla percezione dei sensi: tutte noi siamo state almeno una volta
Nena, abbiamo costruito almeno una volta un amore immaginario di tale potenza
da poter essere disperate all’idea di perderlo, a tutte noi la vita poi ha
svelato la verità dolce/amara che quell’amore era niente”.
a naso e ad istinto verrebbe da rispondere "nessun futuro". Forse non esiste nessun campo dell'attività artistica professionale -come il cinema- dove la corruzione ha finito per uccidere la creatività, abbassando i toni del dibattito e appiattendo il confronto. Lei è stato fin troppo generoso. Forse (applicando una lettura psicoanalitica al film) si potrebbe dire che "il primo incarico" (lapsus narcisistico dell'autrice) è relativo al fatto che è riuscita a fare ciò che le hanno dato da fare e le hanno detto di fare pur di fare un film. Forse stiamo assistendo alla nascita di una carriera. Certamente non alla nascita di una vita creativa nè di qualche apertura del mercato cinematografico, com'è noto ristretto all'attività di sei produttori, gli unici che lavorano: due del PD, due del PDL, uno dell'Udc e uno della Lega Nord. Non esistono produttori indipendenti dall'intervento dei partiti, in Italia. Non ci si può stupire che non esista più, ahimè, neppure una prospettiva per il cinema italiano.
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