giovedì 30 maggio 2019

LA TERZA MOSSA DEL SISTEMA





Fallita la prima mossa – che il sistema di potere esistente in Italia e gradito a Eurogermania aveva tentato con una legge elettorale in stile democristiano, varata appositamente per le elezioni del 4 marzo dell’anno scorso, e che nelle intenzioni avrebbe creato le premesse di una alleanza stabile tra Partito Democratico e Forza Italia – la seconda mossa, consistente nello scatenare i gialli contro i verdi a poco più di un mese dalle elezioni europee di qualche giorno fa, si può dire solo parzialmente riuscita.

Come era facile prevedere, infatti,  [vedi il post LE ELEZIONI EUROPEE E IL VOTO ITALIANO], a beneficiare della polemica aspra dei pentastellati contro la Lega, sempre più demonizzata agli occhi dell’opinione pubblica (e forse proprio per questo Salvini in più di una occasione ha avuto il cattivo gusto di invocare la madonna e sbandierare il rosario), non è stato il Movimento Cinquestelle, bensì il Partito Democratico che è passato dal 18% dei consensi delle ultime elezioni politiche a circa il 23% , realizzando il sorpasso dei grillini, crollati  dal 32 al 17% . Anche se c’è chi ha capito tutto e proclama candidamente che proprio in forza di questa ritrovata fermezza di Di Maio e soci, si sarebbe evitato un crollo maggiore. Resta da chiedersi se chi fa queste affermazioni sia davvero in buona fede o sia semplicemente guidato da un antico disegno: creare le premesse di una nuova maggioranza, formata da M5S e PD, numericamente possibile in Parlamento, sebbene divenuta politicamente impraticabile… almeno per il momento.

Questa seconda mossa fallisce tuttavia nel tentativo di favorire il recupero del voto cosiddetto moderato da parte di Forza Italia ai danni di una Lega che fino a qualche mese fa tutti i sondaggi davano con una percentuale di voti superiore al 30% e che nelle ultime settimane – anche approfittando della confusione creata nei cittadini dal solito vergognoso divieto di diffondere l’esito dei sondaggi –  si dava in vistoso calo, naturalmente non rispetto alle politiche, ma a quel fatidico 30% dei sondaggi “legali”. Si diceva che la Lega si sarebbe fermata al 25-26%, e che di conseguenza la maggioranza di governo non avrebbe raggiunto il 50% dei consensi di cui disponeva dopo le elezioni politiche dello scorso marzo. E, invece, è accaduto il contrario, perché oggi, pur nel ribaltamento dei rapporti di forza tra le due compagini di governo, il gradimento elettorale dell’esecutivo è salito a circa il 52%.

L’analisi del voto italiano a 14 mesi dalle elezioni politiche mostra una verità sin troppo evidente. Il 4 marzo l’elettorato manifestava a maggioranza la volontà di affidarsi ai Cinquestelle, nella speranza che da questa nuova forza politica potesse venire il cambiamento. Era premiata anche la Lega, ma solo con un modesto  travaso di voti da Forza Italia, non più in grado di rappresentare il ceto medio, ma sempre al servizio di un moderatismo non bene identificato (difesa dei privilegi?), in una contingenza economica che a tutto può spingere, tranne che a soluzioni “moderate”.

Nasceva così il nuovo governo Cinquestelle – Lega, dopo il rifiuto del Partito Democratico, ancora intestato a Renzi, di farne parte. Quel che è accaduto dopo fa parte dell’attualità, ancorché malamente intesa. Perché in pochi mesi si è rovesciato il rapporto di forza tra Lega e Cinquestelle? Non certo per i motivi che la solita narrazione interessata vorrebbe far credere. Non è questione della maggiore personalità di Salvini rispetto a Di Maio, né del fatto che i pentastellati sarebbero stati remissivi nei confronti dei leghisti e che il capo della Lega l’avrebbe fatta da padrone. La maggior parte dei provvedimenti  sin qui approvati fa parte del programma dei pentastellati, mentre la Lega del suo programma elettorale ha realizzato solo tre obiettivi. Proprio questo è il punto: la nuova politica per l’immigrazione, la quota 100 (che peraltro era un progetto comune ad entrambi i partiti di governo) e il decreto sicurezza hanno risposto, nel bene e nel male, alle richieste prevalenti dei cittadini, mentre i tanti provvedimenti del Movimento Cinquestelle hanno avuto scarsa presa per come sono stati realizzati (tra tutti il reddito di cittadinanza), non erano forse ai primi posti nelle esigenze dei cittadini o, infine, non sono stati sufficientemente propagandati, sempre che abbiano apportato reali vantaggi. Se si aggiunge l’eccessiva prudenza nell’ambito degli investimenti produttivi, mostrata dai pentastellati che controllano i ministeri del lavoro, la Presidenza del Consiglio e 13 ministeri su 18, nonché la ormai triennale conduzione del governo di Roma, con l’eco di una deriva che dalla capitale si diffonde in tutta Italia e non solo, si comprende bene come l’elettorato abbia inteso premiare la componente del governo mostratasi più intraprendente e determinata.

Ed ecco pronta la terza mossa del sistema. Da qualche giorno gli addetti ai lavori dell’opposizione e le vestali della comunicazione, da sempre asservite alle élite e costantemente attive sui grandi giornali e nei talk show, non fanno che dare per certa e più o meno imminente la crisi di governo. In caso contrario – si dice – per una nuova pressione interessata nei confronti del M5S, i pentastellati diverrebbero lo “zerbino dei leghisti”, e Di Maio il “maggiordomo” di Salvini. Il capo politico del Movimento viene ridicolizzato e quello della Lega rappresentato come il leader dell’estrema destra che si avvierebbe a dominare il Paese. Il tutto corroborato dal solito catastrofismo, al quale stanno dando una mano i soliti noti del sistema Europa, con l’aumento dello spread, al grido di “Sono i mercati che lo vogliono!”, e inviando in tutta fretta una lettera ultimatum al governo italiano perché nel giro di 48 ore dia una risposta esauriente su come abbassare il debito pubblico (nello specifico il deficit creato dal governo Gentiloni), pena la minaccia di una procedura di inflazione e di una multa di 3,5 miliardi di euro (!).

Bene ha fatto Beppe Grillo a prendere alla sua maniera le difese di Luigi Di Maio. Intanto perché il giovane leader campano non può essere ritenuto il solo responsabile di una sconfitta che appartiene ad un collettivo di cui Di Maio è solo il portavoce, poi perché il M5S – che non dispone di un’organizzazione territoriale con proprie sedi – è un movimento di opinione che soffre le elezioni amministrative, regionali ed europee (dove molto contano le clientele e le alleanze locali), e che ha sempre ottenuto i migliori risultati nelle elezioni politiche generali. Il monito di Grillo dovrebbe servire a rilanciare l’azione dei pentastellati e non a staccare la spina come si chiede da più parti. Certo, a questo scopo, il Movimento deve rivedere il proprio atteggiamento. Non lasci solo alla Lega il merito di realizzare ciò che vogliono gli italiani, giocando in difesa, ma passi all’attacco e faccia finalmente proprio un programma che, oltre alla tutela degli emarginati, si proponga la ripresa dei ceti medi e la crescita del lavoro e dei consumi.

Dal canto suo, Salvini è atteso da un compito arduo. Chiamato a rappresentare dagli italiani, dopo Renzi e dopo i Cinquestelle, la speranza di un reale cambiamento della politica, dovrà dimostrare di esserne capace. Molto dipenderà da come saprà giocare la partita con la governance europea che il voto recente ha solo scalfito ma non colpito. Il sistema lo aspetta al varco e disegna un progetto che, oltre alla crisi di governo, prevede anche il suo fallimento di fronte all’incalzare dell’esercito al soldo del capitalismo finanziario che già Marx definì come una specie dell’accumulazione capitalistica in epoca di crisi, allorché si riduce la produzione industriale per effetto della sovrapproduzione dei beni e, contestualmente, cresce l’emissione dei titoli del debito pubblico. Quanto al fatto di essere rappresentato come il leader dell’estrema destra, occorre osservare che il capo della Lega non si è mai proclamato tale, anche se a un certo punto deve essersi reso conto che l’immagine finiva col giovargli sul piano elettorale. Vent’anni fa Salvini scelse per sé l’etichetta di “comunista padano”, oggi dichiara apertamente che la distinzione tra destra e sinistra non ha più ragione di essere e che ci sono solo problemi da risolvere per il lavoro, l’occupazione e la sicurezza dei cittadini. Di certo una verità parziale, perché non si possono dimenticare i lager nazifascisti né le responsabilità storiche della destra, ma almeno una verità attuale se si guarda alle politiche messe in atto negli ultimi decenni dalla cosiddetta sinistra.

sergio magaldi


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