Buona la scelta delle locations: Llanes, nelle Asturie e soprattutto Partarríu Mansion, la vecchia magione utilizzata come orfanotrofio. Non grande, come sottolinea il giovane regista Juan Antonio Bayona, al suo primo lungometraggio, ma col pregio d’avere differenti facciate che suggeriscono l’idea del mutamento, utile a dare all’azione ritmo e dinamismo. Accorgimenti che tuttavia non aiutano a far salire di tono il film, indeciso tra realismo magico e horror.
The Orphanage ricorda certamente il film di un altro regista spagnolo, Alejandro Amenábar, ma nel confronto e senza voler parlare di plagio vero e proprio, è certamente perdente. Così, per esempio, la malattia e la luce hanno anche qui un ruolo fondamentale come in The Others, ma in una prospettiva differente. Il male fisico di cui il piccolo Simon soffre sin dalla nascita è reale, così come il male psichico di sua madre Laura, che ha trascorso l’infanzia in un orfanotrofio. La malattia di cui soffrono Anne e Nicholas è reale solo in quanto è parte della loro stessa condizione, e il disagio di Grace, loro madre, è più che altro una mancanza di consapevolezza. Entrambe le protagoniste si battono sino alla fine. Laura, interpretata da un’addolorata Belén Rueda, combatte il male fisico e metafisico con tutte le forze per lasciarsi infine sopraffare da un’improbabile luce perpetua, consolatoria e plebea, se così si può dire. Grace si batte invece per sapere, non senza comprensibili “chiusure” borghesi, ma sempre con l’eleganza della sua grande interprete (Nicole Kidman), e quando scopre infine la verità, accoglie la luce per sé e per i figli come segno della mutata consapevolezza e dell’arricchimento di coscienza. L’accettazione della sorte da parte delle due donne è solo formalmente identica. Laura ripercorre strade consuete, cercando rimedio alla sofferenza nel peccato contro la vita e contro gli insegnamenti religiosi di un’infanzia tormentata dalla quale, tuttavia, il destino le ha concesso di uscire con l’adozione. Paradossalmente, tuttavia, il suo non è gesto disperato ma addirittura di fede: la speranza che la luce del faro, che un tempo illuminava la costa, torni a risplendere per sempre. Grace, al contrario di Laura, non sceglie, si fa consapevole. Come da un’altra dimensione, che l’abilità del regista fa apparire possibile, lancia la sua sfida al mondo degli altri perché l’antica lotta tra luce e tenebre finalmente si ricomponga.
Il soprannaturale e l’onirico, presenti in entrambi i lavori, si concedono tuttavia con modalità differenti. In The Orphanage, ciò che sembra veramente contare è il mondo della veglia e della coscienza diurna. L’apertura finale verso una realtà altra è solo oggetto di fede. In The Others, l’attenzione si sposta su una dimensione molto più ampia della coscienza che include l’esplorazione della notte e delle zone oscure dell’inconscio.
Fallisce il film di Bayona sotto il profilo del realismo magico, di cui va in cerca ispirandosi al lavoro di Amenábar, ma fallisce anche sul piano della collocazione come genere “horror”. L’indulgere in qualche macabra scena, pescando persino nella memoria collettiva tristemente legata ai forni crematori, mascherare il volto di un bambino, vivo o fantasma, certamente malvagio, con ciò che appare come una grossa zucca non serve alla classificazione ambita e che, tuttavia, la maggior parte della critica gli assegna. Più che inquietare, come qualcuno ha scritto, il bimbo mascherato fa pensare piuttosto a “Trick or treat”, dolcetto o scherzetto, della tradizione popolare di Halloween e in diversi punti il film rasenta il comico e il grottesco, che è quanto dire la morte sicura del genere “horror”. È una fortuna tuttavia che riesca sempre a riprendersi sino alla soluzione finale, non si sa se più ispirata alla banalità, al fideismo o alla pietà di maniera di una “mater dolorosa” che ben si avvale delle sembianze e della valida interpretazione della spagnola Belén Rueda. In proposito, una nota positiva, pur con qualche riserva: gli attori sono scelti con rara abilità, persino troppa, ciò che rischia di rendere spesso ancora più prevedibili le loro azioni.
The Orphanage ricorda certamente il film di un altro regista spagnolo, Alejandro Amenábar, ma nel confronto e senza voler parlare di plagio vero e proprio, è certamente perdente. Così, per esempio, la malattia e la luce hanno anche qui un ruolo fondamentale come in The Others, ma in una prospettiva differente. Il male fisico di cui il piccolo Simon soffre sin dalla nascita è reale, così come il male psichico di sua madre Laura, che ha trascorso l’infanzia in un orfanotrofio. La malattia di cui soffrono Anne e Nicholas è reale solo in quanto è parte della loro stessa condizione, e il disagio di Grace, loro madre, è più che altro una mancanza di consapevolezza. Entrambe le protagoniste si battono sino alla fine. Laura, interpretata da un’addolorata Belén Rueda, combatte il male fisico e metafisico con tutte le forze per lasciarsi infine sopraffare da un’improbabile luce perpetua, consolatoria e plebea, se così si può dire. Grace si batte invece per sapere, non senza comprensibili “chiusure” borghesi, ma sempre con l’eleganza della sua grande interprete (Nicole Kidman), e quando scopre infine la verità, accoglie la luce per sé e per i figli come segno della mutata consapevolezza e dell’arricchimento di coscienza. L’accettazione della sorte da parte delle due donne è solo formalmente identica. Laura ripercorre strade consuete, cercando rimedio alla sofferenza nel peccato contro la vita e contro gli insegnamenti religiosi di un’infanzia tormentata dalla quale, tuttavia, il destino le ha concesso di uscire con l’adozione. Paradossalmente, tuttavia, il suo non è gesto disperato ma addirittura di fede: la speranza che la luce del faro, che un tempo illuminava la costa, torni a risplendere per sempre. Grace, al contrario di Laura, non sceglie, si fa consapevole. Come da un’altra dimensione, che l’abilità del regista fa apparire possibile, lancia la sua sfida al mondo degli altri perché l’antica lotta tra luce e tenebre finalmente si ricomponga.
Il soprannaturale e l’onirico, presenti in entrambi i lavori, si concedono tuttavia con modalità differenti. In The Orphanage, ciò che sembra veramente contare è il mondo della veglia e della coscienza diurna. L’apertura finale verso una realtà altra è solo oggetto di fede. In The Others, l’attenzione si sposta su una dimensione molto più ampia della coscienza che include l’esplorazione della notte e delle zone oscure dell’inconscio.
Fallisce il film di Bayona sotto il profilo del realismo magico, di cui va in cerca ispirandosi al lavoro di Amenábar, ma fallisce anche sul piano della collocazione come genere “horror”. L’indulgere in qualche macabra scena, pescando persino nella memoria collettiva tristemente legata ai forni crematori, mascherare il volto di un bambino, vivo o fantasma, certamente malvagio, con ciò che appare come una grossa zucca non serve alla classificazione ambita e che, tuttavia, la maggior parte della critica gli assegna. Più che inquietare, come qualcuno ha scritto, il bimbo mascherato fa pensare piuttosto a “Trick or treat”, dolcetto o scherzetto, della tradizione popolare di Halloween e in diversi punti il film rasenta il comico e il grottesco, che è quanto dire la morte sicura del genere “horror”. È una fortuna tuttavia che riesca sempre a riprendersi sino alla soluzione finale, non si sa se più ispirata alla banalità, al fideismo o alla pietà di maniera di una “mater dolorosa” che ben si avvale delle sembianze e della valida interpretazione della spagnola Belén Rueda. In proposito, una nota positiva, pur con qualche riserva: gli attori sono scelti con rara abilità, persino troppa, ciò che rischia di rendere spesso ancora più prevedibili le loro azioni.
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