Einaudi 2008 Titolo originale: (Esh yedidutit, 2006)
Non scriverò sul Blog solo dei libri che mi sono piaciuti e dunque dirò anche di questo romanzo di 400 pagine di cui faticosamente ho portato a termine la lettura. La cornice a prima vista mi sembrava interessante e inoltre avevo già letto con un certo piacere altri romanzi di Yehoshua.
Una vicenda che si svolge interamente nella settimana di Hanukkah e che si articola in otto capitoli, quante sono le candele che si accendono durante la festa più amata in Israele e nelle comunità ebraiche. Un duetto tra sessantenni: Amotz Yaari, progettista d’ascensori, che resta a Tel Aviv e l’amatissima moglie Daniela, insegnante, che parte per la Tanzania nell’intento di ritrovare qualcosa della sorella morta. L’accoglienza del cognato, in Africa per una spedizione paleoantropologia, non si rivela delle più affettuose per la donna. E qui l’autore ci rivela forse il vero motivo che lo spinge a scrivere una storia per altri versi tanto lunga e noiosa. È il perenne conflitto arabo-israeliano, è l’essenza stessa di Israele che viene messa in questione attraverso la sofferenza del cognato di Daniela, privato del figlio, caduto per errore sotto il fuoco dei suoi stessi commilitoni, “fuoco amico”, appunto.
Nel rifiuto di Yirmiyahu, vedovo della sorella di Daniela, di non fare più ritorno in Israele o addirittura di continuare a sentirne parlare, non c’è solo il dolore per la morte del figlio o l’amarezza per un conflitto che sembra non aver mai fine, perché è la stessa fonte da cui Israele trae alimento ad essere riguardata con sospetto. Una rilettura attenta di alcuni passi della Scrittura rivela infatti altri punti di vista, altri possibili significati.
Peccato soltanto che la strategia narrativa non sia quasi mai all’altezza di un tema così drammatico e inquietante. L’idea stessa di alternare nei capitoli (o accensioni di candele nei bracci della Menorah), le vicende dei due protagonisti, marito e moglie, non si rivela felice e in luogo di evitare di appesantire la narrazione finisce col renderla sovrabbondante e persino ossessiva. Anche perché i fatti narrati non si discostano dalla banalità del quotidiano, fermandosi talora su particolari così insignificanti da indurre il lettore a passare oltre.
L’apatia generale in cui si dipana la storia, se così si può chiamare, è appena scalfita dalla trovata degli ascensori che emettono sibili e ululati, l’uno per via di vecchi ingranaggi, gli altri a causa del vento che s’infila nelle fessure di un palazzo mal costruito da operai stranieri (sic, rumeni e cinesi) e che può far pensare ad una duplice ed efficace allegoria: le molte e contraddittorie ingerenze straniere che portarono alla costruzione della nazione ebraica e il “ruach refaim”, lo spirito dei morti, dei troppi morti, che aleggia di continuo in terra d’Israele.
Non scriverò sul Blog solo dei libri che mi sono piaciuti e dunque dirò anche di questo romanzo di 400 pagine di cui faticosamente ho portato a termine la lettura. La cornice a prima vista mi sembrava interessante e inoltre avevo già letto con un certo piacere altri romanzi di Yehoshua.
Una vicenda che si svolge interamente nella settimana di Hanukkah e che si articola in otto capitoli, quante sono le candele che si accendono durante la festa più amata in Israele e nelle comunità ebraiche. Un duetto tra sessantenni: Amotz Yaari, progettista d’ascensori, che resta a Tel Aviv e l’amatissima moglie Daniela, insegnante, che parte per la Tanzania nell’intento di ritrovare qualcosa della sorella morta. L’accoglienza del cognato, in Africa per una spedizione paleoantropologia, non si rivela delle più affettuose per la donna. E qui l’autore ci rivela forse il vero motivo che lo spinge a scrivere una storia per altri versi tanto lunga e noiosa. È il perenne conflitto arabo-israeliano, è l’essenza stessa di Israele che viene messa in questione attraverso la sofferenza del cognato di Daniela, privato del figlio, caduto per errore sotto il fuoco dei suoi stessi commilitoni, “fuoco amico”, appunto.
Nel rifiuto di Yirmiyahu, vedovo della sorella di Daniela, di non fare più ritorno in Israele o addirittura di continuare a sentirne parlare, non c’è solo il dolore per la morte del figlio o l’amarezza per un conflitto che sembra non aver mai fine, perché è la stessa fonte da cui Israele trae alimento ad essere riguardata con sospetto. Una rilettura attenta di alcuni passi della Scrittura rivela infatti altri punti di vista, altri possibili significati.
Peccato soltanto che la strategia narrativa non sia quasi mai all’altezza di un tema così drammatico e inquietante. L’idea stessa di alternare nei capitoli (o accensioni di candele nei bracci della Menorah), le vicende dei due protagonisti, marito e moglie, non si rivela felice e in luogo di evitare di appesantire la narrazione finisce col renderla sovrabbondante e persino ossessiva. Anche perché i fatti narrati non si discostano dalla banalità del quotidiano, fermandosi talora su particolari così insignificanti da indurre il lettore a passare oltre.
L’apatia generale in cui si dipana la storia, se così si può chiamare, è appena scalfita dalla trovata degli ascensori che emettono sibili e ululati, l’uno per via di vecchi ingranaggi, gli altri a causa del vento che s’infila nelle fessure di un palazzo mal costruito da operai stranieri (sic, rumeni e cinesi) e che può far pensare ad una duplice ed efficace allegoria: le molte e contraddittorie ingerenze straniere che portarono alla costruzione della nazione ebraica e il “ruach refaim”, lo spirito dei morti, dei troppi morti, che aleggia di continuo in terra d’Israele.
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