venerdì 6 febbraio 2009

L'ombra del vento








L’ombra del vento, Oscar Mondadori, 2006

Può sembrare sciocco o ispirato da mero narcisismo anticonformista parlare, nei termini che seguono, di un libro che ha ottenuto largo successo di critica e di pubblico (8 milioni di copie vendute) e che è stato definito “più-che-magnetico”, “magico”, “mirabile”, dotato, come del resto il suo autore, di “grande forza sensoriale” etc…, ma L’ombra del vento dello spagnolo Carlos Ruiz Zafón – romanzo di cui non intendo presentare qui neppure una breve sinossi da aggiungere a quelle più o meno lunghe, ampiamente reperibili su internet – mi appare, dopo una prima e ancor più dopo una seconda lettura, come una costruzione di generi letterari di successo miscelati con sapienza editoriale più che letteraria e dati in pasto ad un pubblico di palato debole ancorché desideroso di sapori forti almeno all’apparenza. Le prime pagine per la verità lasciano ben sperare, per quanto si respiri un’atmosfera che il lettore esperto non tarda a riconoscere come ispirata da E.T.A. Hoffmann. Gustavo Barceló e Clara, la nipote priva della vista – che persino nel nome ricorda certi personaggi femminili del grande scrittore tedesco – sono presentati in un’aura di mistero che mai si dissolve semplicemente perché in loro non esiste alcun mistero. Daniel, l’adolescente protagonista che s’innamora di Clara, ricorda da vicino uno studente Anselmo dei nostri giorni, perdutamente innamorato di Serpentina. Clara, è vero, non è una serpe, ma per cecità ed atteggiamenti la giovane si pone egualmente fuori della cosiddetta normalità, senza contare che proprio come una serpe si mostrerà presto agli occhi del giovane innamorato. Non si può negare, d’altra parte, che la suggestione creata da queste pagine iniziali funzioni e funziona soprattutto perché abbiamo in mente, più o meno consapevolmente, il superbo modello. Man mano che ci s’addentra nella vicenda, tuttavia, il caos diviene sempre più funzionale a contaminare tra loro generi letterari diversi: il gotico, il poliziesco, l’esoterico, l’avventuroso, il fumetto, il rosa, il drammatico e la favola – genere quest’ultimo nel quale lo scrittore si trova particolarmente a suo agio per essersi cimentato in gioventù nei libri per l’infanzia – con personaggi che più che di realtà o di fantasia sanno di stereotipi ai quali, peraltro, è concesso evolversi. Abbiamo così lo “scrittore maledetto” che si riscatta, il barbone che di volta in volta si trasforma in consulente librario, investigatore e sposo felice, l’ispettore di polizia Fumero, bimbo frustrato e poi, adulto, vera e propria incarnazione del demonio, padri-padroni ossessionati da inconfessabili colpe e da queste trascinati alla rovina o resi in apparenza docili per merito del destino. Abbiamo Penelope, vergine dolcissima per metà Giulietta di shakespeariana memoria e per l’altra metà eroina di tragedia greca, che pagherà con la vita un amore incestuoso ancorché inconsapevole, poi c’è Beatriz femmina provocante prima e madre premurosa dopo che, realizzando la felice coppia umana con l’ex-adolescente ormai adulto, “riscatterà” infine la triste vicenda amorosa dello “scrittore maledetto”. Insomma, un guazzabuglio di fatti e di personaggi tutti poco credibili per un lieto fine che il lettore medio si attende come premio della difficile “navigazione”alla quale è stato costretto dall’autore per oltre quattrocento pagine. Certo, un romanzo dei nostri tempi così convulsi e caotici ma di cui è facile indovinare non resterà traccia che per essere stato un buon affare editoriale.

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