sabato 28 febbraio 2009

THE READER, Febbraio 2009, regia di Stephen Daldry

Il versante americano del muro di Berlino prima della caduta

 Da non perdere questo film, tratto dal romanzo di Bernhard Schlink, edito in Italia da Garzanti col titolo A voce alta.






 Già candidato all’Oscar, The Reader (Il lettore) ha ottenuto nei giorni scorsi la celebre statuetta per Kate Winslet quale migliore attrice protagonista.

 L’azione si svolge a Berlino, dopo la caduta del muro, e in altre città tedesche nel 1995, ma ciò che le dà significato risale a molti anni prima. Innanzi tutto il 1958, allorché il quindicenne Michael Berg s’imbatte in Hanna Schmitz (Kate Winslet), una donna che ha il doppio dei suoi anni. Nasce tra i due una passione che per Michael ha il sapore di una iniziazione sessuale. Il giovane manifesta velatamente il desiderio e la donna lo seduce. Per la verità, seduzione e iniziazione sessuale sanno di maniera, e le scene di nudo e seminudo non hanno il potere di stimolare più di tanto la fantasia erotica dello spettatore. Eros freddo ancorché innocente, voluto forse dalla regia, tant’è che col passare dei giorni Hanna pretende, prima di concedersi, che il giovane la intrattenga leggendole pagine di testi famosi. Dopo qualche tempo la relazione s’interrompe perché la donna, per un motivo banale e che tuttavia è per lei di capitale importanza, come scopriremo più avanti, lascia il lavoro e la città di Berlino senza neppure avvertire il ragazzo.

 Mai realmente rassegnato alla scomparsa di Hanna, troviamo Michael frequentare ora la facoltà di Legge. Egli appare perplesso e silenzioso mentre segue un seminario incentrato sul rapporto tra legge e morale. Il tema non è di largo richiamo nonostante l’alone di saggezza che traspare dal volto e dalle parole dell’anziano docente. Pochi sono, infatti, gli studenti che frequentano il seminario. Con loro, Michael si reca un giorno in Tribunale per una vera e propria esercitazione. Si celebra il processo contro le sorveglianti di un campo di sterminio nazista, le quali avevano il compito di selezionare le donne da eliminare per far posto ai nuovi arrivi nel lager. Tra le imputate Michael riconosce Hanna, contro la quale le sue colleghe sembrano essersi alleate nell’attribuirle le maggiori responsabilità. Prima fra tutte, quella di aver redatto un verbale dal quale risulta che 300 donne ebree sono state lasciate morire durante un incendio scoppiato all’interno della chiesa dove in precedenza erano state rinchiuse. Hanna, che peraltro non si avvede della presenza di Michael al processo, non si giustifica né chiede perdono. Si limita a dire (non, come ci si attenderebbe, di essere stata costretta alle selezioni da un ordine al quale era necessario ubbidire, pena la vita) che selezionare in quella condizioni era necessario per questioni di sopravvivenza all’interno dello spazio angusto del lager che veniva sempre più restringendosi per effetto di nuovi arrivi. E, quando il giudice le chiede perché all’insorgere dell’incendio non sono state aperte le porte della chiesa, dichiara che la decisione presa di comune accordo dalle sorveglianti era stata motivata dal timore che, una volta aperte le porte, le prigioniere potessero fuggire in quel caos generato dall’incendio, dai bombardamenti e dal fioccare della neve. E questa volta la donna lascia intendere che il dovere di un sorvegliante è proprio quello d’impedire la fuga dei prigionieri. Ma le colleghe l’accusano di aver preso lei da sola la decisione e d’aver redatto lei il verbale. Interviene a testimoniare l’unica superstite della strage, scampata al rogo della chiesa con la figlioletta. Dichiara che Hanna a prima vista sembrava più umana delle altre con le prigioniere, soprattutto con le più giovani che di notte chiamava accanto a sé a farsi leggere libri ma di cui poi improvvisamente si liberava.

 Dal canto suo, Hanna nega di aver redatto il verbale dell’incendio e continua a sostenere che la decisione di non aprire le porte della chiesa è stata condivisa da tutte le sorveglianti. Il giudice chiede allora la perizia calligrafica della donna. Posta di fronte a penna e foglio perché scriva qualcosa, Hanna sembra titubare ed è a quel punto che, con straordinari effetti della macchina da presa, Michael intuisce, così come ogni spettatore, che la donna è analfabeta. E tanta è la vergogna di confessare la propria condizione che Hanna dichiara la perizia inutile perché è stata lei a redigere il verbale. Bugia che le costa il carcere a vita, mentre le sue colleghe se la cavano con qualche anno di prigione.

 Qualche considerazione si fa a questo punto possibile. Innanzi tutto, il diverso punto di vista di Hanna e delle colleghe. Le ultime si nascondono ipocritamente dietro l’ordine ricevuto, risolvendo il conflitto tra legge e morale in base alla norma che impone di selezionare le prigioniere, pur sapendo che saranno eliminate, e che costringe a non aprire le porte della chiesa pur sapendo che le prigioniere non avranno scampo. È la tesi maggiormente sostenuta, a propria discolpa, dagli aguzzini di Hitler durante il processo di Norimberga e nei processi successivi. C’è poi un altro punto di vista, non ipocrita, ma persino più grave che Hanna Schmitz rappresenta in nome e per conto dell’intero popolo tedesco in quelle tristi storiche circostanze. Il dovere per il dovere, da etica kantiana, fattosi grande leviatano che cancella persino il confronto tra legge e morale e lo riguarda con sovrana indifferenza. Non è un caso che pochi siano gli studenti che partecipano al citato seminario. Ma in Hanna c’è anche qualcosa di più: l’incapacità di chiedere perdono (in più di una occasione la si sente affermare che non c’è nulla di cui pentirsi e di cui chiedere perdono) e l’analfabetismo dell’animo che bene traduce la memoria storica di un popolo in perenne contrasto tra il vergognarsi di sé e l’incapacità di prendere coscienza delle ragioni autentiche di tale vergogna.

 Il processo di Hanna e delle altre vale invece la presa di coscienza di Michael. La visita di un ex-lager nazista ne è l’espressione muta, più profonda ed efficace. Ma lo studente è ora posto di fronte al dilemma: testimoniare che Hanna non può aver scritto il verbale perché analfabeta, appellandosi così alla legge che consentirebbe alla sua ex-amante di cavarsela con qualche anno di carcere, oppure tacere in virtù di un’etica che ai suoi occhi la rende complice dell’olocausto e meritevole di una pena ben più severa. Michael sceglie la morale, non la legge, ma quasi a farsi perdonare il dovere di una testimonianza non resa, alla quale sarebbe obbligato in nome del diritto – come gli ricorda anche il docente del seminario – egli per vent’anni fa pervenire alla donna in carcere un registratore e una quantità innumerevole di nastri incisi con la sua voce di lettore di opere celebri d’ogni tempo. Peccato solo che lo spettatore europeo sia portato a concludere che i libri che circolavano allora in Germania, Odissea di Omero compresa, fossero tutti scritti in inglese. Sbavatura stilistica del film questa, certamente dovuta alle esigenze del pubblico americano e a motivi di cassetta.

 Vent’anni dopo, allorché Hanna, sopravvenuta nel frattempo la grazia, sta per uscire dal carcere, Michael si reca infine a trovarla. “Cosa hai imparato in tutti questi anni?”, domanda ansioso, sperando in cuor suo che Hanna abbia finalmente preso coscienza. La risposta lo delude profondamente: “Ho imparato a leggere”, si limita a dire.

 Pure, il successivo duplice gesto di Hanna lascia le porte aperte a far credere che la donna, ormai in grado di leggere e scrivere, abbia trovato un barlume di coscienza e passando ben oltre gli astratti concetti di “dovere per il dovere” e di norme storicamente datate, abbia finalmente appreso a riconoscere il linguaggio della legge morale dentro di sé.

 Stupenda oltre ogni dire l'interpretazione di Kate Winslet, ottimo il film, anche se il finale appare banale quanto superfluo.

sergio magaldi


2 commenti:

  1. Eccellente recensione. Concordo pressochè su tutto, salvo l'aver definito il finale "banale quanto superfluo".
    E' proprio nel finale che trova inveramento l'intero senso del film. Il Padre, percepito fino ad allora come reticente e distante dalla Figlia, accetta di "mostrarsi e raccontarsi". Mostra alla figlia la tomba di Hanna e si accinge a raccontarne la storia, che è anche la Sua storia...Fuor di metafora: uno della generazione partorita dalla guerra (Mikael è nato nel 1943), profondamente segnato dalla generazione di "quelli come Hanna" (classe 1922), accetta di "mettersi a nudo" e "raccontarsi" ad una ragazza (la figlia di Mikeal) che appartiene ormai ad una generazione lontana dalla Germania nazista. Ma questo "denudarsi" e raccontare la storia di Hanna e di Mikael costituisce quell'esercizio della Memoria, senza del quale non c'è comprensione profonda "di ciò che è accaduto", con il rischio che perciò "possa ri-accadere". Senza la trasmissione della Memoria di "Padre in Figlia/o", c'è l' "analfabetismo dell'anima" di cui molto giustamente parla la recensione di Sergio Magaldi. Ecco perchè il finale è altamente significativo e simbolico e per nulla "banale quanto superfluo". Da notare, infine, che forse non aveva tutti i torti il Prof. di Mikael (Bruno Ganz), quando diceva: "Non importa ciò che senti e ciò che provi, ma ciò che fai...", riferendosi anche- in chiave auto-critica- a quei tedeschi come lui cui forse ripugnava, nei sentimenti e nelle opinioni , il Nazismo, ma non avevano fatto abbastanza per abbatterlo e/o resistergli. Ma riferendosi certamente al dovere legale di Mikael di "dichiarare quanto sapeva sull'analfabetismo di Hanna", perchè forse in quella "legalità" vi era anche "moralità". Del resto,viene detto nel film, i Giudici condannavano i vari "criminali di guerra" sulla base del'infrazione di quelle stesse norme legali vigenti all'epoca del nazismo, le quali comunque non contemplavano nè ammettevano (per quanto asservite all'interesse del regime hitleriano) le numerose barbarie commesse dalle SS o dalle "kapò" come Hanna. Epaminonda Pasquino.

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  2. Caro Epaminonda, la ringrazio dell'intervento e della suggestione che offre circa il significato del finale del film. Per la verità, definendolo "banale quanto superfluo", io avevo in mente l'estetica cinematografica. Mi risulta del resto che una parte della critica ha trovato da ridire sul finale e che gli stessi sceneggiatori del film si siano divisi al riguardo. Pretendere "d'inverare l'intero senso del film" - come lei dice - attraverso questa ragazza dal volto troppo americano che s'accompagna al padre davanti alla tomba di Hanna, mi sembra pretesa ardua, tanto più che prima l'avevamo vista una sola volta quando era bambina e con la stessa faccia "a pagnottina" che conserva da adulta. In altri termini, lo spettatore sente troppo lontana dalla storia questa ragazza perché gli comunichi qualcosa, fosse pure quello che lei fondatamente annota.Francamente, poi, ho un altro timore: non è che il racconto commosso del padre di fronte alla tomba di Hanna, il duplice gesto finale della sorvegliante nazista (non "kapò" come lei dice) che per qualcuno ha sapore di riscatto, la complicità femminile ingigantita dall'infelice storia d'amore, finiscano per caso, più che a conservare la Memoria del terribile passato nelle giovani generazioni,col partecipare l'umana pietà nei confronti del carnefice?

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