Tutto dovrà avere una spiegazione, specialmente quando, come
accade oggi, la mano destra finge di non sapere quello che fa la sinistra
di Alberto Zei
“La prova scientifica”
A distanza di mesi dall’insorgere dei contagi
da coronavirus, la progressione è stata fin dall’inizio molto significativa per
le prospettive cui andava incontro l’intera popolazione. È vero che in
Italia la Sanità non aveva la “prova scientifica” che potesse trattarsi di una
vera emergenza, quantunque la comparsa di epidemie molto simili, come la “sars
e la ”mers”, a distanza di poco più di un lustro, non lasciava presagire
qualcosa di diverso.
E’ pur vero
che se per ogni preannunciato pericolo dovessimo preparare logisticamente le
strutture di prevenzione o di contenimento, non avremmo possibilità di dedicare
alla realtà quotidiana le nostre modeste risorse nazionali. Altra cosa però è
la preparazione mentale all’ emergenza, non mancando né la cultura,
l’intelligenza, né l’esperienza, né l’improvvisazione nonché la creatività
tipica del nostro Paese, se fossimo stati almeno meglio informati.
.
Il disorientamento
“Uomo
avvisato mezzo salvato” recita un vecchio adagio di saggezza popolare.
Quando
infatti si è verificato nella realtà, ciò che in teoria poteva prevedersi, ecco
che qui il fallimento è stato pressoché totale. Il disorientamento che è
subentrato non è stato soltanto logistico per la mancanza delle idonee
strutture sanitarie che ovviamente in Italia non erano approntate, ma
soprattutto per le mancate direttive di coordinamento centrale, sia da parte
del Governo, sia da parte del Ministero della Salute e dei suoi distretti
nazionali
Lo
smarrimento è stato tale da ritenere emblematico quello immortalato nel celebre
film “Tutti a casa”, dove la confusione generale bloccava ogni iniziativa.
In riferimento
all’individuazione della patologia e ai metodi di cura, anche con il passare
del tempo di settimane nonché di mesi, non si è ancora arrivati ad un coordinamento
unitario sul tipo di malattia e conseguentemente sulle cure necessarie da
adottare per non morire.
Il
medioevale ricorso all’isolamento è stato l’unico rimedio trovato dalle
Autorità sanitarie per sottrarci dal contagio dei contatti ravvicinati. Ma per
la terapia da individuare e da applicare con urgenza ai cittadini che si
presentano in ospedale con la tipica gravità della malattia?
I vari
distretti sanitari stanno ancora adattando i sintomi della patologia alle
proprie risorse terapeutiche, anziché la malattia alle oggettive necessità di
cura. Infatti, a fronte di diagnosi clamorosamente sbagliate, come quella delle
polmoniti interstiziali, malgrado il numero elevato di autopsie eseguite nel
nostro Paese, non è stata ancora ufficialmente accertata la vera natura delle
morti sopravvenute. Quindi, ciò che più conta, le autorità sanitarie preposte
non sono state in condizione di indicare a tutte le strutture ospedaliere il
protocollo terapeutico da praticare per la grave forma di tromboflebite
diffusa covid-19, da tempo diagnosticata da alcuni encomiabili medici
ricercatori.
I ventilatori polmonari
Le
iniziative adottate sono state quelle di reperire con l’urgenza di vita o di
morte, i ventilatori per insufflare ossigeno nei polmoni al fine di migliorare
la scarsa capacità di respirazione dei ricoverati in terapia intensiva, così
come tipicamente avviene quando è già in corso una vera polmonite. Ma se i
pazienti non reagivano a questo tipico trattamento, già si doveva dedurre che
polmonite non era. Ma di cosa altro allora poteva trattarsi, neppure se ne
parlava.
Non solo, ma
i vari distretti della Sanità nazionale erano mobilitati nell’inutile
approvvigionamento di altri ventilatori polmonari con richiesta di onerose
forniture persino dalla Cina. La patologia che però si rifletteva sui polmoni
compromettendo la respirazione aveva prima invaso altri presidi tra cui il
cuore, oltre che le vene delle gambe e altri organi importanti. Se il cuore non
cedeva prima, specie nei più anziani, l’aggravamento della malattia
provocava non la polmonite, ma un’ infiammazione diffusa che
a sua volta causava emboli nelle piccole vene e nel
tessuto capillare dei polmoni. Dal blocco della circolazione del sangue che ne
conseguiva, subentrava la rapida necrosi del tessuto polmonare a valle
dell’ostruzione e la morte del malcapitato.
L’ostinazione
terapeutica
La risposta
sanitaria nazionale di fronte a questa importantissima rivelazione non
vi è stata. La terapia praticata ha continuato al lungo ad essere quella della polmonite
interstiziale con i risultati che tutti possiamo constatare. Solo alcuni Enti,
per lo più privati, hanno potuto discostarsi da questo protocollo a seguito di
una più accurata osservazione di ciò che effettivamente avveniva nell’organismo
a causa del devastante effetto del covid-19. Rendendosi conto di questa
anomalia polmonare alcuni medici non hanno inteso continuare le cure fino
allora adottate. Questi pertanto, sono ricorsi all’uso di farmaci antinfiammatori e antiaggreganti per evitare la formazione
di micro trombi diffusi nei capillari che, come detto, bloccando la
circolazione del sangue, causano la morte del tessuto polmonare. Il
risultato è stato eccellente così come rivelano i casi – già menzionati in un
precedente post – del Dott. Giampaolo Palma cardiologo titolare di un Centro medico di Nocera
Inferiore, e del Prof. Maurizio Viecca primario del
reparto di cardiologia presso l’ Ospedale Sacco di Milano.
In attesa del perché
Prima ancora
del ritorno al medioevo per sfuggire con l’ isolamento al covid-19,
sarebbe stato sufficiente riferirsi ai primi successi terapeutici ottenuti all’inizio
del secolo scorso con un metodo di terapia meno gravoso e più efficace. Si
tratta di un tipo di cura basato sull’esperienza e sulla conoscenza della scienza
medica del recente passato a fronte dei positivi risultati ottenuti fin dalla
terribile influenza del 1918, denominata “spagnola”. In quegli anni era stato
trovato un rimedio di cura, una sorta di vaccino (per rendere l’idea)
mediante iniezione di siero contenente gli anticorpi presenti nel plasma delle
persone guarite da quella stessa malattia. La qualcosa, ripetuta da alcuni
medici anche in questa circostanza, ha portato a guarigione le persone così
trattate, prevenendo gli ulteriori irreversibili aggravamenti che hanno già
causato nel nostro Paese decine di migliaia di decessi. Naturalmente non si
tratta di plasma “leva e metti” tra un paziente e l’altro perché come è
arcinoto, quando hanno luogo le trasfusioni deve essere prima accertata la
compatibilità per evitare uno shock anafilattico o altre gravi reazioni di
rigetto. Ma questa è prassi medica consolidata.
La matrioska delle
obiezioni
Del tutto
pretestuose sono invece le obiezioni secondo cui, senza la prova
scientifica della terapia da adottare, paradossalmente si
arriverebbe a curare ad esempio il cancro, con quelle sostanze di fantasia che
periodicamente vengono proposte in deroga ai protocolli terapeutici ufficiali.
Ma un conto è il caso di malattie potenzialmente mortali, come appunto quelle
degenerative, il cui decorso si protrae per anni; altro invece è quello di una
patologia conclamata come il covid-19 il cui aggravamento senza farmaci è
sinonimo di morte pressoché certa nell’arco di qualche giorno.
La prima
domanda che molti cittadini pongono per ora a loro stessi, ma nel futuro la
porranno anche ad altri, è: "Perché mai si è continuato a curare i pazienti nello
stesso modo sbagliato?". Allo stato delle cose non si intravedono valide ragioni,
di fronte a casi di progressiva gravità mortale, per astenersi da differenti e
più efficaci terapie, solo perché queste non hanno ancora ottenuto la
cosiddetta “prova scientifica”.